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5. La storia della CRI nel quadro dello sviluppo del welfare state italiano

5.3. La CRI dal Fascismo alla Repubblica

Nel 1922, come è noto, ebbe luogo la “marcia su Roma” ed iniziò l’instaurazione del regime fascista, che diede avvio ad una nuova e peculiare fase nella storia della politica sociale dello Stato italiano. Gli studiosi sono concordi nella valutazione globale della linea perseguita dal regime almeno a partire dal 1927, anno della promulgazione della “Carta del Lavoro”. Con questo documento, dopo una prima fase di ritorno al lais- sez faire liberista100, il fascismo sposò infatti l’ideologia corporativa, mantenendola ancor più strettamente dopo l’inizio della Grande Depressione.

Tutti gli studiosi di welfare osservano che il nucleo della politica sociale fascista consistette nella creazio- ne di una miriade di enti parastatali e casse mutue di categoria con finalità assistenziali e previdenziali101, e che ciò rispondeva ad una duplice logica di «rigido accentramento e coordinamento dei poteri sotto il con- trollo dello stato […]» e di «settorialismo e […] dispersione corporativa» [Colozzi 1982: 308; Ferrera 34-35; Paci 1984: 315], quest’ultima perseguita «accentuando anzi al massimo la frantumazione categoriale» [Ferre- ra 1993: 232]. Al tempo stesso, essi concordano sul fatto che questa linea di politica sociale condizionò for- temente lo sviluppo successivo del welfare state italiano. Ciò su cui invece non sussiste accordo è la natura profonda di tale condizionamento. Per Colozzi infatti la politica sociale fascista, considerata insieme alla po- litica economica interventista inaugurata dopo il 1929, configura «un superamento della ideologia liberista e del modello residuale di W.S. ad essa connesso» [Colozzi 1982: 310], e costituisce quindi un primo avvici- namento al modello istituzionale (nel senso che Ramesh Mishra dava al termine) di welfare state, tanto signi- ficativo che «se si escludono dall’analisi i fattori di ordine politico, si può affermare che l’Italia con il fasci- smo tende ad allinearsi a quella grande svolta storica che in questi stessi anni trova il suo fondamento dottri-

salariati dell’industria (19 ottobre) [Colozzi 1982: 304, Ferrera 1984: 33].

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Fra l’altro, Ciraolo promulgò un nuovo Statuto, ufficialmente emanato con Regio Decreto il 9 maggio 1919, nel quale la rete territoriale dei Comitati veniva profondamente riordinata [Mariani 2006: 130].

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In questa prima fase, nel 1923, il governo Mussolini emanò provvedimenti che penalizzarono i lavoratori agricoli: fra di essi, gli indipendenti vennero esclusi dall’assicurazione contro la disoccupazione, mentre i dipendenti furono esclusi dall’assicurazione pensionistica e infortunistica [Colozzi 1982: 307, Ferrera 1984: 33]. Naturalmente i progetti elaborati in precedenza furono totalmen- te abbandonati: come chiosa Ferrera, «Il nuovo regime pagò il debito contratto con la grande borghesia industriale e agraria che l’aveva appoggiato congelando tutti i progetti in discussione» [Ferrera 1993: 231].

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Si citano qui i più noti: Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI), Opera Nazionale Balilla (ONB), Istituto Nazionale Fa- scista per la Previdenza Sociale (INFPS), Istituto Nazionale Fascista per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INFAIL),

nario nella teoria generale di J.M. Keynes e la sua applicazione pratica nel New Deal di F.D. Roosevelt e in anni di poco successivi la sua formulazione completa negli scritti e nell’opera di lord Beveridge» [Colozzi 1982: 310].

D’altro canto, Ferrera concorda con Paci nel giudicare che tale politica inserì ancor più l’Italia nel model- lo continentale e particolaristico, o più precisamente «pose quindi le basi di quel sistema “particolaristico clientelare” di welfare che si sarebbe poi sviluppato e intensificato nel dopoguerra e che rappresenta, secon- do alcuni, il tratto più distintivo dell’esperienza italiana» [Ferrera 1984: 36; Paci 1984: 315].

È tuttavia indubbio che di questo orientamento interventista ed accentratore (almeno a livello direzionale) inaugurato dal regime nell’ambito della politica sociale fece le spese, in quello stesso anno 1927, anche la Croce Rossa Italiana. In verità fin dal 1923 il Consiglio Direttivo del Comitato Centrale aveva accolto alcuni altissimi esponenti del regime, quali Giacomo Acerbo, Michele Bianchi, Luigi Luiggi e Giuseppe Bottai. Il 6 aprile essi avevano partecipato ad una seduta del Consiglio in cui Acerbo, parlando a nome di Mussolini, «dichiara che il governo “si riserva, nel quadro generale delle proprie direttive e delle riforme da portare nel Paese, di stabilire quale maggiore azione la stessa possa esercitarvi nel pubblico interesse”» [Mariani 2006: 137]. Acerbo stesso fu uno dei presidenti “di transizione” che ressero la CRI fra 1923 e 1927, quando l’ente fu per la prima volta commissariato dallo Stato, che ne affidò la gestione al prefetto Francesco Piomarta [ivi: 144]. Fu tuttavia il suo successore, il nuovo presidente Filippo Cremonesi, a portare a compimento quella che lui stesso definì esplicitamente l’«assoluta fascistizzazione» dell’Associazione [cit. in ivi: 151], tanto che Mario Mariani considera il suo stesso discorso di insediamento come un’indubbia dimostrazione della «deci- sa volontà di annessione e inquadramento, quindi di burocratizzazione, dell’ente nell’apparato parastatale che il regime fascista andava edificando […]» [ivi: 146]. Peraltro, la fascistizzazione venne attuata non sol- tanto dalla nuova leadership, ma anche tramite la legge 3133 del 20 dicembre 1928, che «oltre a stabilire le nuove mansioni della CRI in tempo di guerra e di pace, “in relazione alle nuove direttive che il governo fasci- sta aveva stabilito di dare all’istituzione”, ne fissava esattamente i compiti e ne disciplinava l’attività in modo più rispondente alle esigenze dei servizi offerti», e che venne poi integrata dalla legge 578 del 12 aprile 1930 [ivi: 158]. A tale scopo concorse anche un nuovo Statuto, promulgato con Regio Decreto il 21 gennaio 1929 [ivi: 159].

Alcuni esempi concreti della collaborazione fra CRI e regime furono, da parte della CRI, una circolare in cui Cremonesi, nel 1929, esortò esplicitamente i membri dell’Associazione a votare per la lista del PNF in quelle che furono le ultime elezioni tenute prima del 1946 [ivi: 147-148], nonché la consegna di tutte le 251 colonie marine e montane antitubercolari della stessa CRI all’ONMI e agli altri enti parastatali fascisti [ivi: 162]. Il regime, dal canto suo, garantì alla CRI cospicui e regolari stanziamenti di denaro pubblico [ivi: 160, 173], accordi di collaborazione con la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale [ivi: 149] e soprattutto il già menzionato assorbimento delle cosiddette “croci policrome” prive di riconoscimento giuridico, ossia «lo scioglimento di oltre 500 associazioni di pubblica assistenza imposto con decreto n. 84 del 12 febbraio 1930 e il cui effetto rimaneva – oltre al trasferimento alla Croce Rossa di tutte le altre attività patrimoniali […] dei

Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza (ENPAS), Enti Comunali di Assistenza (ECA) [Colozzi 1982: 309; Ferrera 1984: 34-35;

sodalizi disciolti – la dispersione e la vanificazione in un colpo solo di tradizioni e di esperienze che avevano conferito lustro soprattutto alla storia sociale della nostra provincia» [ivi: 176]. Giustamente Mariani rimarca che Cremonesi dimostrò «una buona dose di pragmatismo e di cinismo […]» quando, l’11 agosto 1931, e- manò una circolare in cui elogiava il senso di disciplina con cui tali associazioni si erano disciolte, gli sforzi con cui si erano costituite decenni addietro e il ruolo assistenziale svolto fino a quel momento, concedendo, in segno di riconoscimento per tale opera, la conservazione di tutti i loro vessilli nella sede del Comitato Centrale [ivi: 177].

Ad ogni modo, forte di un siffatto appoggio, Cremonesi poté incrementare il numero dei soci e dei Comi- tati, il patrimonio in denaro e materiale e le iniziative assistenziali socio-sanitarie, naturalmente in stretto co- ordinamento con gli enti di regime, conseguendo peraltro cospicui risultati nella lotta alla malaria ed alla tu- bercolosi, ultime malattie endemiche di rilievo rimaste sul territorio nazionale [ivi: 161-164]. Sono altresì da ricordare gli interventi d’emergenza durante due calamità naturali, ossia i terremoti che nello stesso anno 1930 ebbero luogo in Basilicata e nelle Marche. In entrambe le occasioni l’Associazione poté intervenire con rapidità ed efficienza, avendo ormai la competenza, l’esperienza ed i mezzi necessari per fronteggiare non solo i problemi immediati, ma anche le esigenze successive della popolazione colpita dalle calamità naturali, «vantando tempi record persino nella costruzione di tendopoli capaci di ospitare migliaia di persone»[ivi: 168].

A livello internazionale la fascistizzazione non destò proteste né dalle altre Società Nazionali né dal CICR, almeno finché non ebbe inizio la fase più bellicosa di politica estera del regime. La CRI partecipò in- fatti, ancora una volta insieme alla Sanità Militare, alla guerra d’Etiopia (1935-1936) ed alla Guerra Civile Spagnola (1936-1939). Nella prima occasione l’Associazione dovette sostenere una polemica internazionale con la Croce Rossa etiopica e con altre Società Nazionali, che accusarono l’Italia di aver violato la Conven- zione di Ginevra; Cremonesi replicò ufficialmente rivolgendosi al CICR e ritorcendo le accuse sull’Etiopia e sulla sua Croce Rossa, nonché rimarcando l’arretratezza e l’inferiorità razziale del popolo etiope [ivi: 180- 181].

In definitiva, si può dunque asserire che la CRI che venne coinvolta nella Seconda Guerra Mondiale non era più un ente relativamente libero e capace di far prevalere l’umanitarismo sulla “ragion di Stato”, come invece era stato nel precedente conflitto. Si trattò invece, a mio avviso, di un ente di fatto assimilabile ai vari enti parastatali fascisti102, inquadrato da una disciplina ferrea e nel quale nessuna manifestazione di dissenso e di critica veniva tollerata, per quanto il malcontento verso il regime montasse progressivamente, man mano che le vicende belliche peggioravano e le sofferenze dei soldati e della popolazione civile aumentavano [ivi: 208-213]. Tutto ciò naturalmente non impedì alla CRI di svolgere il suo compito con competenza ed abnega- zione, affrontando anche enormi sacrifici e perdite, ma con ogni evidenza non è possibile in questa sede ana- lizzare dettagliatamente la storia dell’operato dell’Associazione durante il conflitto. Basti rilevare che in pa- tria il personale si prodigò per soccorrere le vittime dei bombardamenti [ivi: 215-216] e i feriti ed i malati di

Naldini 2003: 67-73]. Alcuni erano in verità enti preesistenti che subirono un cambiamento del nome e un riassetto interno.

ritorno dai fronti, e che i medici, i militi e le Infermiere Volontarie dell’Associazione seguirono la Sanità Mi- litare in tutti i teatri di operazioni, dall’Africa Orientale alla Russia, nonché sulle cosiddette “navi bianche ”, ossia navi-ospedale della stessa CRI, molte delle quali vennero affondate durante il conflitto [ivi: 200]. Fu proprio a causa dell’affondamento della nave-ospedale Po, nella baia di Valona, durante la notte fra il 14 e il 15 marzo 1941, che l’Associazione ebbe le sue prime vittime: tre Infermiere Volontarie, «prime di un lungo e tragico elenco di ben 275 caduti fra ufficiali e personale d’assistenza» [ivi: 195].

La CRI era quindi così strettamente legata alle vicende dello Stato che, come quest’ultimo, dopo l’8 set- tembre 1943 essa stessa si sdoppiò, con il personale attivo al Sud che riprese l’attività in seno al Regno e al fianco dei colleghi delle Società alleate, ed il personale del Centro-Nord costretto a giurare fedeltà alla Re- pubblica Sociale Italiana [ivi: 227, 232-235]. Per alcuni si trattò di una scelta cosciente, libera e volontaria; altri invece si opposero al nazifascismo in varie maniere: o simulando un’adesione e sostenendo occultamen- te la Resistenza, o rifiutando esplicitamente di aderire, o infine unendosi direttamente alle bande partigiane (in ciascuno di questi casi, vi fu chi subì la cattura e la deportazione nei Lager) [ivi: 230-231, 241-242, 244- 245]. Le perdite di vite umane furono ingenti, ma complessivamente inferori a quelle del precedente conflit- to. D’altro canto, le distruzioni di sedi e veicoli e il consumo di risorse in denaro e materiale furono così rile- vanti che alla conclusione delle ostilità anche la CRI, come tutto il Paese, dovette essere faticosamente rico- struita.