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5. La storia della CRI nel quadro dello sviluppo del welfare state italiano

5.1. Dalle origini della CRI alla Grande Guerra

Il rapporto con la società civile fu di vitale importanza per la CRI nei primi anni “pionieristici” che videro la sua fondazione (15 giugno 1864) a Milano, con il nome di “Associazione Italiana di Soccorso pei militari feriti e malati in tempo di guerra”84. Tale nascita avvenne in seno al Comitato milanese dell’Associazione Medica Italiana (AMI), che si era a sua volta costituita nella città ambrosiana pochi anni prima, nell’autunno del 1861, e si era poi ramificata in tutta l’Italia.

Essa esprimeva una «concezione della medicina che si stava affermando nelle avanguardie borghesi e so- lidaristiche della società, soprattutto lombarda […]», in quanto il suo scopo «era quello di valorizzare la scienza; di migliorare la salute del povero; di riformare la sanità e le sue professioni; di difenderne gli inte- ressi; di esprimere sentimenti di “amor vero ed efficace verso il prossimo”» [Cipolla 2013: 25]. L’AMI era dunque un’associazione di categoria, ma improntata ad uno spirito progressista in cui la fede positivistica nella scienza e nel progresso si univa ad intenti filantropici dalla differente matrice culturale (illuminista, democratica, cattolica liberale e sociale), ben radicati nella nobiltà e nella borghesia delle regioni più svilup- pate d’Italia, in primis appunto la Lombardia.

Ciò spiega dunque perché la CRI si sviluppò per “gemmazione” dall’AMI, ma occorre aggiungere che a tale nascita contribuì anche il ricordo dell’«esperienza sicuramente sconvolgente dell’estate del 1859» [ibi- dem], quando cioè la Lombardia era stata teatro delle battaglie della II Guerra d’Indipendenza, in particolare di Solferino (24 giugno). La battaglia, come è noto, era stata una vera e propria ecatombe in termini di morti

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Alcune sezioni del presente capitolo, parzialmente modificate, sono state pubblicate da chi scrive nei paragrafi di sua pertinen- za di Bassi, Fabbri [2017].

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Tale denominazione venne mantenuta ufficialmente fino alla metà degli anni ‘70, quando fu sostituita definitivamente da “Croce Rossa Italiana” [Fabbri 2013: 174]. In questa sede si utilizza per comodità soltanto quest’ultima denominazione.

e feriti, questi ultimi soccorsi con grande dedizione dalla popolazione locale: non a caso Jean Henry Dunant ne aveva tratto il primo embrione dell’idea della Croce Rossa85, ossia un’associazione filantropica dedita al soccorso dei soldati feriti e malati durante le guerre, che sopperisse alle carenze dei servizi sanitari militari e fosse composta da volontari al tempo stesso ben preparati e fortemente motivati.

In questa prospettiva si comprende dunque perché nei suoi primi anni di vita la CRI fu «una questione so- prattutto lombarda, con riflessi su Torino e stimoli verso l’Emilia-Romagna e la Toscana» [ibidem]. L’esempio di Milano, nei mesi e negli anni successivi, si propagò dapprima all’interno della Lombardia (Bergamo, Cremona, Brescia, Pavia) e poi nelle altre regioni del Centro-Nord (Torino, Bologna, Ferrara, Fi- renze), con scarsi sviluppi al Sud (Napoli e Palermo). Uno stimolo potente alla loro costituzione venne senz’altro dalla percezione, da parte dell’opinione pubblica, dell’eventualità concreta di una guerra che con- cludesse il processo di unificazione, e dalla conseguente volontà di contribuire all’azione umanitaria che l’Associazione preparava in vista di tale conflitto: questo si verificò puntualmente con l’inizio della III Guer- ra d’Indipendenza italiana (1866), rimasta famosa per le disfatte di Custoza e Lissa e per la vittoria di Gari- baldi a Bezzecca. La CRI vi partecipò con alcuni contingenti di medici ed infermieri volontari, che si com- portarono con competenza stabilendo un buon rapporto con la Sanità Militare vera e propria: fu il primo em- brione del Corpo Militare della CRI [Vanni, Ceci e Grillo 2013; Novello, Calzolari 2013], tuttora esistente anche se in forme ormai molto mutate, come si vedrà nei capitoli 6 e 7.

Al Comitato di Milano venne riconosciuto il ruolo di Comitato Centrale in virtù della sua “primogenitu- ra”, non senza contestazioni da parte del Comitato di Firenze, che allora era la capitale del Regno. La linea politica dell’Associazione venne dunque stabilita dal presidente del Comitato ambrosiano, il medico alienista milanese Cesare Castiglioni, legato a Dunant da stretti rapporti epistolari e molto vicino alle sue idee. Casti- glioni infatti concepiva la CRI come un’«istituzione filantropica» e così la definiva costantemente nelle pub- blicazioni ufficiali dell’Associazione [Fabbri 2013: 169-170], sulle cui pagine protestò il suo pacifismo [ivi: 172]. Inoltre egli volle sempre evitare una dipendenza economica della CRI dal contributo dello Stato, diretto o indiretto, tanto che nel 1866, quando due soci proposero di ricorrere al Ministero dell’Interno perché invi- tasse i Comuni ad associarsi, egli rifiutò in quanto «Non pareva conveniente ai principii di libertà dei Comu- ni l’ingerenza ministeriale», e patrocinò sempre l’unico canale della raccolta di fondi tramite libera e sponta- nea donazione da parte di persone ed enti [cit. in ivi: 171].

Si trattò dunque di una realtà associativa perfettamente in linea con l’indirizzo di politica sociale perse- guito dalla prima classe dirigente del Regno, la già menzionata Destra Storica, durante gli anni del suo go- verno (1861-1876). Come è noto, tale indirizzo era basato sul disimpegno dello Stato e sul perseguimento coerente, se non addirittura pedissequo, del principio liberale del laissez faire, un dato di fatto su cui tutti i sociologi del welfare concordano, sia pure con alcune lievi divergenze. Colozzi ad esempio osserva che «La latitanza dello stato, coerente al principio del liberismo previdenziale, era sopperita dall’associazionismo e solidarietà privati che in Italia si espressero prevalentemente nella forma di “società di mutuo soccorso”»

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In merito al contesto sociale in cui venne prestata assistenza ai feriti ed ai malati dei tre eserciti che combatterono la grande battaglia, all’attitudine oblativa della popolazione bresciana ed all’ispirazione che Dunant ne trasse (senza sminuire i suoi meriti indi- viduali), si rinvia alla recentissima monografia curata da Costantino Cipolla e Paolo Corsini [2017].

[Colozzi 1982: 303], accanto alle quali preesistevano da secoli, nel campo dell’assistenza sociale, le istitu- zioni caritatevoli cattoliche o “Opere Pie”.

In questo settore lo Stato intervenne attivamente, ma sul solo piano legislativo e allo scopo principale di introdurre una parziale laicizzazione: «Con la legge 3 agosto 1862, n. 753, perciò, si stabilì una disciplina u- niforme per l’amministrazione e la tutela delle opere pie, la cui attività veniva inquadrata nell’ambito della normativa statale, anche se con garanzie sufficienti di autonomia giuridica» [ivi: 306] e con il totale disimpe- gno finanziario dello Stato medesimo, ancora una volta in conformità alla cultura liberale. Anche Ferrera os- serva che la politica sociale della Destra Storica si limitò «ad una distante regolazione delle attività assisten- ziali ecclesiastiche e delle prime associazioni volontarie» [Ferrera 1984: 27]. Paci invece sottolinea l’esistenza di una corrente progressista e minoritaria all’interno della classe dirigente liberale86

, che cercò di conciliare ed armonizzare, sull’esempio inglese, intervento statale ed azione associativa volontaria: essa cer- cò in sostanza di «sviluppare “un sistema liberale di riforma sociale”, basato su: “[…] istituzioni mutualisti- che, previdenziali e cooperativistiche promosse dalla libera iniziativa dei privati e da una serie di proposte di legislazione sociale”» [Paci 1984: 311].

Il passaggio del potere alla Sinistra Storica, nel 1876, non segnò immediatamente un mutamento in questa linea di politica sociale, ma nel giro di pochi anni, sotto i governi di Agostino Depretis e soprattutto di Fran- cesco Crispi, ebbe inizio quello che alcuni sociologi del welfare, come già anticipato, considerano un vero e proprio cambiamento radicale. Analizzando i provvedimenti legislativi che vennero varati fra il 1883 ed il 189887, Ferrera osserva infatti che «A quattordici anni di distanza, l’Italia crispina seguiva dunque l’esempio della Germania bismarckiana: e l’imitazione non riguardò soltanto gli strumenti istituzionali» [Ferrera 1984: 30]. Anche le motivazioni che spinsero la classe dirigente italiana a seguire una siffatta politica sociale furo- no analoghe a quelle che mossero Bismarck: si trattò essenzialmente della volontà di fronteggiare la mobili- tazione della classe operaia, che si stava sempre più orientando al socialismo. Anche Paci concorda con que- sta analisi, osservando che «fu il periodo crispino che lasciò l’impronta più netta sulla legislazione sociale» [Paci 1984: 313], un’impronta caratterizzata da riforme accentratrici finalizzate ad un maggiore controllo «sul nascente associazionismo operaio» [ivi: 311]. A ciò si aggiunse tuttavia, a giudizio di Paci, il fenomeno tutto italiano dell’insinuazione del «germe della ‘dipendenza clientelare’» [ivi: 313] nelle istituzioni preposte alla politica sociale, in quanto sia le Opere Pie riformate, sia le nuove Casse Nazionali erano dirette e gestite da persone fortemente legate al governo, e altresì sottoposte ad un ferreo controllo degli apparati governativi periferici, come le prefetture.

Al contrario, secondo Colozzi, non si può parlare di una vera e propria “svolta” rispetto al già menzionato modello residuale anglosassone: per quanto riguarda il settore previdenziale, infatti, egli osserva che «Questa

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Secondo Paci gli appartenenti a questa corrente, definita di «“liberalismo sociale”», sarebbero stati Marco Minghetti, Luigi Luzzatti e Fedele Lampertico [Paci 1984: 311], laddove Ferrera definisce Luzzatti e Lampertico «“socialisti di stato”» [Ferrera 1984: 29] vicini al modello bismarckiano.

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Nell’ordine: l’istituzione della Cassa Nazionale contro gli infortuni, inizialmente a carattere volontario (1883); la legge sul la- voro minorile e la legge sul riconoscimento giuridico delle Società di Mutuo Soccorso (1886); la legge sulla trasformazione delle Opere Pie in Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza (IPAB), sottoposte ad un più stretto controllo statale (1890); la legge sull’introduzione dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e quella sull’istituzione di una Cassa Nazionale di Previdenza per la vecchiaia e l’invalidità, quest’ultima a carattere volontario (1898) [Ferrera 1984: 29-30]. Sulla reale portata di questi provve- dimenti si veda anche il giudizio critico della storica Giovanna Procacci [2013: 32-33].

compatta logica liberista non viene sostanzialmente intaccata fino agli anni duri della 1° guerra mondiale se non per una legge del 1910 istitutiva della Cassa di maternità» [Colozzi 1982: 305], mentre, per quanto con- cerne il settore assistenziale, la stessa legge crispina del 1890 sulle Opere Pie sarebbe stata ispirata alle poor laws inglesi, poiché «Attraverso la definizione giuridica delle condizioni che configurano lo stato di povertà […] si avvia un sistema centrato sulla prova dei mezzi, su orientamenti di tipo riparatorio, su un livello basso di prestazioni, sulla marginalità del ruolo delle agenzie pubbliche rispetto a quelle private, caratteristiche, queste, che connotano tutte il modello residuale di W.S.» [ivi: 307].

Quale che sia il modello di welfare state nel quale l’Italia di quegli anni può essere inscritta, è indubbio che in campo sociale venne dispiegata un’attività legislativa almeno relativamente superiore al periodo pre- cedente, e che il peso dello Stato in questo settore crebbe, anche se in misura minima, rispetto alla precedente ampia autonomia della società civile, soprattutto a livello locale. In ogni caso è sicuro che in questo stesso periodo l’autonomia della CRI venne pesantemente ridotta a favore di un più marcato e diretto controllo sta- tale. In definitiva si trattò probabilmente di un processo inevitabile, in quanto accomunò la CRI a tutte le al- tre Società Nazionali di Croce Rossa dell’allora “mondo civile”. Tutte infatti divennero una sorta di replica dei servizi sanitari militari propriamente detti e vennero perciò sottoposte ad una rigida disciplina militare, adottando divise, equipaggiamenti, regolamenti e gerarchie molto simili, con una netta diminuzione degli spazi di democrazia interna, dell’autonomia dallo Stato e del contenuto pacifista della loro azione. In propo- sito, lo storico Geoffrey Best ha osservato che, dal 1870 al 1914, le varie Società Nazionali di Croce Rossa subirono un analogo processo da lui stesso definito «militarization of humanitarianism […] I mean the way in which the national Red Cross societies (which by the end of the seventies were to be found all over Euro- pe, and by the end of the century all over the soi-disant civilized world) acquired much more the tone of the war movement than the peace one» [Best 1983: 141]. In termini sociologici, tale processo di assimilazione potrebbe essere a mio avviso definito un caso di isomorfismo istituzionale, secondo la nota definizione di Walter Powell e Paul Di Maggio [Powell, Di Maggio 2000].

In Italia tale processo assunse tuttavia connotati peculiari: Cesare Castiglioni era morto nel 1871, lascian- do fra l’altro insoluto un nodo cruciale, ossia la definizione dello status giuridico dell’Associazione88

, che ne era priva [Fabbri 2013: 179]. L’anno successivo il Comitato milanese aveva ceduto la sua centralità al Comi- tato che si stava iniziando a costituire a Roma, ma tale costituzione fu lenta e stentata poiché l’iniziativa non incontrò forti consensi in seno alla società civile capitolina. Il primo Comitato provvisorio romano fu infatti rappresentato da un gruppo di circa 20 persone fra nobili, alti ufficiali e docenti universitari di medicina, quasi tutti Senatori del Regno, che si riunirono meno di dieci volte fra 1874 e 1876 e furono soltanto in grado di redigere uno Statuto dell’Associazione, pubblicato nel 1875 [Cipolla 2013: 66-71].

Il cambiamento iniziò l’anno successivo con la definitiva conversione del Comitato provvisorio in un ve- ro e proprio Comitato Centrale, e soprattutto con l’elezione a presidente del Senatore e conte valtellinese En- rico Guicciardi. Egli infatti diede inizio ad una linea politica di attiva ricerca della protezione e del sostegno

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In proposito, la studiosa Chiara Staderini ha osservato che nei primi vent’anni della sua esistenza la CRI era un «organismo privato con finalità di assistenza. Questa sua peculiarità la rendeva assoggettabile alla tutela che il nuovo Stato italiano prevedeva per le Opere Pie e che era stata giuridicamente definita attraverso una legge risalente al 1862» [Staderini 1995: 63-64].

dello Stato in cambio dell’accettazione di pesanti ipoteche sull’autonomia e sulla neutralità dell’Associazione, prendendo contatti direttamente con re Umberto I e con i Ministeri della Guerra e dell’Interno [Fabbri 2013: 175-176]. Il primo risultato conseguito fu appunto il riconoscimento della perso- nalità giuridica della CRI, ottenuto con la legge 768, serie III, del 30 maggio 1882, durante il IV governo di Agostino Depretis. L’Associazione, «rappresentata dal comitato centrale residente in Roma», venne eretta in «Corpo Morale», secondo la terminologia dell’epoca, ma «dispensata dalla tutela ordinaria delle opere pie, rimanendo soggetta all’unica tutela e sorveglianza dei ministri della guerra e della marina» [ivi: 189]. La CRI venne quindi riconosciuta giuridicamente come un ente assistenziale, come le Opere Pie, ma, dato che esple- tava tale assistenza a favore dei soldati feriti e malati in guerra, si sanciva che dovesse essere controllata a livello centrale direttamente dal governo, e non blandamente a livello locale dai prefetti come ancora acca- deva alle Opere Pie prima della legge crispina del 1890. È peraltro significativo che lo stesso progetto di leg- ge fosse stato presentato alla Camera dei Deputati dal tenente colonnello Oreste Baratieri (in seguito, divenu- to generale, sarebbe stato sconfitto ad Adua), il quale osservò che «Le società della Croce Rossa sono in tutti i paesi civili molto bene organizzate e protette dai rispettivi Governi ed intimamente congiunte colle istitu- zioni militari», prendendo a modello in particolare la Croce Rossa Tedesca (a mio avviso non a caso): «Ma più che altrove splende a modello la Croce Rossa in Germania. Là vi sono 1600 società, le quali dipendono dal comitato centrale di Berlino, che è sempre in intimo accordo col ministro della guerra. Anzi le associa- zioni della Croce Rossa entrano nell’ordinamento militare […]. A loro è quasi interamente affidato lo sgom- bero dei malati e dei feriti dal teatro della guerra» [cit. in Fabbri 2013: 185].

La legge venne successivamente convertita nel Regio Decreto attuativo n. 1243, serie III, del 7 febbraio 1884:

Art. 1.

L’associazione italiana della Croce Rossa rappresentata dal comitato centrale residente in Roma è eretta in corpo morale e viene dispensata dalla tutela ordinaria delle opere pie, rimanendo soggetta all’unica tutela e sor- veglianza dei ministri della guerra e della marina.

Art. 2.

Alla detta associazione vien concesso l’uso dei distintivi e titoli che sono previsti dall’art. 7 della convenzio- ne internazionale di Ginevra 22 agosto 1864.

Art. 3.

Alla associazione medesima potrà essere accordato in caso di guerra, l’uso delle poste, dei telegrafi e delle ferrovie dello Stato, come facente [sic] parte dell’esercito89.

Come si può osservare, la CRI assunse dunque un ben definito status giuridico, ossia quello di «corpo morale», all’epoca sinonimo di “ente morale” [De Francesco 1957: 1036-1039], che sarebbe rimasto inaltera- to per molti decenni a venire; inoltre ne veniva sancita la natura di ente unitario e centralizzato, sotto l’unica guida del Comitato Centrale romano. D’altro canto l’Associazione veniva posta sotto una pesante tutela mi- nisteriale, che in seguito sarebbe stata esplicitata nei più minimi dettagli dallo Statuto promulgato lo stesso 7 febbraio. La carica più alta, quella di Presidente, da elettiva diveniva di nomina regia, sulla base di una rosa di nomi suggerita dai due Ministeri “bellici” (articolo 13); nel Consiglio Direttivo, il più alto organismo ese-

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cutivo del Comitato Centrale, entravano rappresentanti dei Ministeri della Guerra, della Marina, degli Esteri e degli Interni (articolo 12); sul territorio, la struttura dell’Associazione si modellava su quella delle circo- scrizioni militari (articolo 7), ed i singoli Comitati si mettevano a disposizione delle autorità militari ad ogni livello [Baccarini 2013: 691-700].

L’iniziale democrazia interna dell’ente venne quindi gravemente compromessa, o più precisamente quasi cancellata. In proposito le disposizioni contenute nello Statuto vennero anzi ulteriormente articolate e perfe- zionate. L’anno successivo fu infatti varato un primo Regolamento organico provvisorio, seguito nel 1888 da uno definitivo, nel quale la rete dei Comitati locali (che nel frattempo si era molto indebolita) fu ricostituita su basi strettamente gerarchiche (ad esempio, tutti assunsero i nomi di Sotto-Comitati: Regionali, di Sezione, Locali e Comunali) [ivi: 757-780].

Nel frattempo la CRI era passata sotto la guida del generale Raffaele Cadorna, primo presidente scelto dal re, il quale era riuscito ad ottenere dallo Stato un cospicuo sostegno finanziario, ancorché indiretto. Con la legge 3188 (serie III) del 28 giugno 1885 infatti il governo, ancora presieduto da Depretis, autorizzò e garantì l’emissione di un prestito a premi da parte della Banca Generale e della stessa CRI, seguendo l’esempio di un’analoga iniziativa attuata dalla consorella Società austro-ungarica [Fabbri 2013: 193]. Si trattò di una spe- culazione che permise alla Banca Generale di raccogliere e reinvestire 15.000.000 di lire dell’epoca, di cui tuttavia 3.175.000 vennero versate alla CRI, finalmente dotata di un patrimonio notevole [ivi: 202]. È parti- colarmente significativo che il progetto di legge fosse stato presentato, e vigorosamente sostenuto, proprio da Francesco Crispi, all’epoca oppositore di Depretis e privo di incarichi ministeriali, ma evidentemente già fa- vorevole ad una più attiva presenza dello Stato nel settore dell’assistenza. Nella seduta della Camera del 14 dicembre 1884, ad esempio, dopo aver presentato il progetto di legge, egli osservò infatti che «Quello che sia la Croce Rossa lo sapete. In verità sarebbe stato forse preferibile che essa fosse compresa tra quegli uffici che fan parte dell’ordinamento militare dello Stato» [cit. in ivi: 194], e ancora alcuni mesi dopo, nella seduta del 14 maggio 1885, aggiunse che «la Croce Rossa è un istituto il cui ufficio realmente dovrebbe essere dello Stato, imperocché è una necessità per l’esercito l’avere in tempo di guerra il personale ed i mezzi necessarii alla cura dei feriti e dei malati» [cit. in ivi: 197].

Su queste nuove basi giuridico-istituzionali e patrimoniali la CRI riprese a radicarsi nel territorio, ricosti- tuendo i vecchi Comitati o fondandone di nuovi, promuovendo le iscrizioni di soci ed avviando la raccolta di ulteriori risorse, sia in denaro sia in materiale. Uno dei passaggi più importanti di quest’opera di radicamento fu una maggiore strutturazione della componente femminile: la CRI fin dai suoi esordi infatti aveva aperto le sue sedi alle Socie, che avevano dato buona prova nella raccolta di fondi e materiale sanitario, o nel confe- zionamento di biancheria [Tavormina 2013], ma nel 1879 venne ufficialmente fondata l’Unione delle Dame, ossia la sezione femminile dell’Associazione, presente in ogni Comitato a tutti i livelli, e le cui competenze e modalità di gestione interna furono debitamente disciplinate dai menzionati Statuto e Regolamenti (questa componente esiste tuttora con la denominazione di Comitato Nazionale Femminile) [Pascucci 2013]. La ri- cerca del consenso della società civile fu costante e venne portata avanti sia utilizzando la stampa dell’epoca, sia pubblicando opuscoli e Bollettini (molto accurati) a cadenza regolare, sia utilizzando tutte le occasioni

possibili (parate, manovre militari, festeggiamenti e celebrazioni) per acquisire visibilità. Ebbe anche inizio il