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3. Welfare, Terzo Settore e welfare society

3.2. Il Terzo Settore nel quadro del welfare italiano

Uno dei motivi principali dell’interesse dei sociologi per il Terzo Settore è certamente la sua rilevanza, sia in termini quantitativi sia in termini, per così dire, “qualitativi”: per un verso infatti i suoi ambiti di attività sono molteplici, alcuni essendo decisamente tradizionali ed altri più recenti, mentre per un altro verso la cre- scita del numero di enti, sedi, volontari, lavoratori retribuiti e l’aumento di ricchezza prodotta sono un fatto incontestabile, sia a livello internazionale sia a livello nazionale. A questo proposito è dunque opportuno considerare attentamente le dimensioni del Terzo Settore in Italia, con particolare riguardo per gli ambiti in cui opera la CRI, per comprendere sia l’effettivo contributo che esso apporta al welfare italiano, sia le carat- teristiche del mondo di cui la CRI fa parte. Sarà altresì opportuno completare questo quadro generale con la descrizione particolareggiata di alcune organizzazioni che operano negli ambiti di competenza della CRI, e con le quali ipso facto l’Associazione si è confrontata in passato e si confronterà ulteriormente in futuro: le Misericordie, l’ANPAS ed alcune realtà minori operanti a livello locale.

3.2.1. Il Terzo Settore italiano in cifre: il censimento del 2011

Le dimensioni quantitative del Terzo Settore italiano possono essere sintetizzate ed esposte facilmente grazie al lavoro di un team di studiosi guidato da Gian Paolo Barbetta, Giulio Ecchia e Nereo Zamaro, che hanno recentemente curato un lavoro miscellaneo intitolato Le istituzioni non profit in Italia. Dieci anni do- po, basato sui risultati del 9° Censimento delle istituzioni non profit realizzato dall’ISTAT nel 2011 [Barbet- ta, Ecchia e Zamaro 2016: 15]. Più precisamente, l’esposizione quantitativa generale ed il raffronto con i dati emersi dal precedente censimento del 2001 è stata effettuata nel primo capitolo dell’opera dallo stesso Bar- betta, insieme a Franco Lorenzini e Andrea Mancini: come costoro osservano, «Le istituzioni non profit atti- ve in Italia alla data di riferimento del censimento erano 301mila, con 348mila unità locali a esse afferenti e con un numero di affiliazioni pari a 56 milioni […]. Esse occupavano 681mila lavoratori dipendenti, 276mila lavoratori non dipendenti [con contratto di collaborazione] e si avvalevano dell’opera di 4,7 milioni di volon- tari» [Barbetta, Lorenzini e Mancini 2016: 31-32]. Rispetto al precedente censimento del 2001, e nonostante la grave crisi del 2008, il settore ha peraltro registrato una crescita, ma le dimensioni di quest’ultima, che sembrerebbero cospicue [ibidem], sono state in realtà ridimensionate dallo stesso team di studiosi sulla base di osservazioni relative al mutamento delle tecniche di rilevazione intercorso fra i due censimenti [Barbetta, Canino, Cima e Verrecchia 2016: 76-78]. Basti quindi limitarsi a constatare che al 2011 il Terzo Settore ita- liano contava all’incirca 300.000 imprese, quasi 1 milione di lavoratori e quasi 5 milioni di volontari, in cre- scita rispetto al 2001. In proposito, chiosano gli autori quasi allineandosi alle posizioni di Donati, «Si discute in Italia del ruolo del comparto, se ancillare rispetto ai tradizionali modelli di produzione delle imprese profit e della pubblica amministrazione ovvero se ulteriore e paritario modello organizzativo e produttivo. I dati

censuari sembrano andare decisamente nella seconda direzione» [Barbetta, Lorenzini e Mancini 2016: 32- 33].

Nell’ambito di questa realtà così vitale e cospicua, occorre tuttavia puntualizzare che i due censimenti hanno riscontrato e confermato l’esistenza di un marcato dualismo fra le organizzazioni non profit, un duali- smo duplice, per così dire: per un verso infatti è risultata confermata la tradizionale maggiore vitalità del set- tore al Centro-Nord rispetto al Sud [ivi: 29, 34-35]; per un altro verso vi è una netta divaricazione dimensio- nale fra un gran numero di piccole organizzazioni, tenute in vita esclusivamente o quasi esclusivamente da volontari con poche risorse economiche, e un ristretto numero di grandi istituzioni, che si avvalgono dell’opera di molti lavoratori e possono contare su cospicue risorse economiche: queste ultime realtà sono «operanti in via prevalente nella sanità, nell’assistenza sociale e nell’istruzione» [ivi: 29].

In proposito è opportuno precisare che gli ambiti53 di attività del Terzo Settore italiano sono stati fissati dall’ISTAT seguendo l’International Classification of Nonprofit Organizations (ICNPO), elaborata dai già menzionati Salamon e Anheier e adottata dalla Divisione Statistica dell’ONU nel suo repertorio metodologi- co denominato System of National Accounts (SNA) [ivi: 30, 35 nota 7]. Nello specifico tali ambiti sono 12, alcuni dei quali articolati in vari sotto-ambiti:

1. Cultura, sport e ricerazione 2. Istruzione e ricerca

3. Sanità

4. Assistenza sociale 5. Ambiente

6. Sviluppo economico e coesione sociale 7. Tutela dei diritti e attività politica

8. Filantropia e promozione del volontariato 9. Cooperazione e solidarietà internazionale 10. Religione

11. Relazioni sindacali e rappresentanza di interessi 12. Altre attività

Con ogni evidenza gli ambiti nei quali opera anche la Croce Rossa, a livello nazionale ed internazionale, sono quattro: sanità, assistenza sociale, tutela dei diritti e attività politica, cooperazione e solidarietà interna- zionale. Naturalmente, per quanto riguarda il terzo ambito, l’attività della Croce Rossa è pertinente soltanto nella misura relativa alla tutela dei diritti, o advocacy, che è appunto uno dei tre sotto-ambiti in cui esso si articola (gli altri due sono: servizi legali e servizi di organizzazione dell’attività di partiti politici), mentre per quanto riguarda il quarto ambito la cooperazione prestata dalla Croce Rossa è da intendersi in senso pretta-

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Preciso che gli autori dello studio utilizzano il termine “settori” e non “ambiti”: ho tuttavia ritenuto opportuno evitare l’uso di “settore” in questa sede per eliminare la ridondanza del termine, derivante dal contemporaneo uso di “Terzo Settore”.

mente umanitario e non economico (al contrario, l’ICNPO non fa distinzioni, considerando in un’unica cate- goria tutte le attività per il sostegno economico e umanitario all’estero).

Con queste precisazioni preliminari, è dunque possibile estrapolare dai risultati del censimento i dati rela- tivi a tali ambiti, per meglio comprendere la realtà in cui la CRI sta iniziando a muoversi. In proposito, si è appurato mediante contatti con lo stesso ISTAT che l’Associazione non è stata conteggiata nel censimento in questione, in quanto nel 2011 la sua configurazione giuridica era tale da escluderla dal Terzo Settore, come si è già accennato e come si avrà modo di osservare nei capitoli seguenti. Ciò premesso, la Tabella 3.2. riporta le dimensioni di questi ambiti in quote percentuali:

Tab. 3.2. Dimensioni degli ambiti di attività della CRI nel Terzo Settore italiano in base al Censimento 2011 Ambiti di attività (ICNPO) Unità istitu-

zionali

Unità locali

Lavoratori retribuiti

Volontari Entrate Uscite Distribuzione percentuale per settori di attività prevalente

Sanità 3,6 4,3 18,6 7,1 17,8 19,6

Servizi ospedalieri generali e riabilitativi 0,6 0,7 7,3 1,1 10,0 11,1

Servizi per lungodegenti 0,3 0,4 5,1 0,2 3,6 3,8

Servizi psichiatrici ospedalieri e non ospeda- lieri

0,2 0,3 1,5 0,1 0,7 0,8

Altri servizi sanitari 2,6 2,8 4,8 5,7 3,5 3,9

Assistenza sociale e protezione civile 8,3 10,4 27,8 12,6 16,0 17,3

Servizi di assistenza sociale 6,5 8,5 27,1 9,1 14,6 15,9 Servizi di assistenza nelle emergenze 1,1 1,1 0,4 2,6 0,5 0,6 Servizi di sostegno ai redditi (monetari e/o in

natura)

0,7 0,8 0,2 0,9 0,9 0,9

Tutela dei diritti e attività politica 2,3 2,7 0,9 3,3 1,6 1,7

Servizi di tutela e protezione dei diritti 1,4 1,8 0,6 1,4 1,0 1,1

Cooperazione e solidarietà internazionale 1,2 1,1 0,5 1,6 1,7 1,8

Attività di sostegno economico e umanitario all’estero

1,2 1,1 0,5 1,6 1,7 1,8

Totale 14,5 17,6 47,5 22,7 36,5 39,8

Fonte: Barbetta, Lorenzini e Mancini 2016: 36-37 (elaborazioni su dati ISTAT)

Come si può osservare, questi ambiti di attività del Terzo Settore riuniscono una percentuale relativamen- te minore di enti e di volontari rispetto agli altri (primo fra tutti l’ambito cultura, sport e ricreazione [ivi: 35]), ma concentrano altresì una quota rilevantissima di lavoratori retribuiti, di entrate e di uscite. Ciò vale in special modo per i primi due ambiti, ossia sanità e assistenza sociale e protezione civile, nei quali, con ogni evidenza, si concretizza uno dei due aspetti del dualismo dimensionale di cui si è fatta menzione: si tratta cioè di ambiti nei quali prevale un ristretto numero di organizzazioni di dimensioni medie e grandi, diffuse in più località, con molti lavoratori dipendenti e un cospicuo volume di entrate ed uscite [ivi: 38]. In termini as- soluti si tratta infatti di cifre notevoli, come puntualizzano gli autori:

Secondo i dati di bilancio raccolti con il questionario censuario, nel 2011 le entrate del settore non profit sono state di 64 miliardi di euro e le uscite di 57 miliardi, al lordo dei possibili ma contenuti trasferimenti interni al settore. Un terzo delle entrate del non profit italiano è concentrato nelle istituzioni che svolgono in via prevalente attività sanitarie e di assistenza sociale. Sono le istituzioni di maggiori dimensioni, più strutturate e complesse, tanto che il 12% delle istituzioni [dei settori sanitario e sociale] raccoglie il 33% delle entrate [dei medesimi set- tori] [Barbetta, Lorenzini e Mancini 2016: 38].

La maggior parte degli oltre 20 miliardi di euro di entrate per questi due settori è peraltro costituita in massima parte da «contratti e convenzioni con enti pubblici nazionali e internazionali. Però significativi sono

anche i proventi per vendita di beni e servizi» [ivi: 40]. In merito alle dimensioni, il calcolo dei valori medi fornisce un’ulteriore conferma di queste asserzioni, oltre ad una rettifica parziale di quanto osservato in meri- to ai volontari, dal momento che, osservano gli autori, «Sanità, assistenza sociale e protezione civile sono i settori nei quali i numeri medi sia di lavoratori retribuiti che di volontari sono maggiori dei corrispondenti valori medi riferiti all’universo del nonprofit» [ivi: 41]. Tali affermazioni trovano riscontro nei dati della Ta- bella 3.3.:

Tab. 3.3. Dimensioni medie degli enti di Terzo Settore italiani operanti negli ambiti di attività della CRI in base al Censimento 2011

Ambiti di attività (ICNPO) Numero

medio di la- voratori re- tribuiti Numero medio di volontari Valore medio delle en- trate (000 euro) Valore medio del- le uscite (000 euro) Sanità 16,2 30,7 1.037,34 1.025,96

Servizi ospedalieri generali e riabilitativi 38,3 27,9 3.549,50 3.537,62 Servizi per lungodegenti 59,1 13,8 2.797,95 2.707,77 Servizi psichiatrici ospedalieri e non ospeda-

lieri

24,6 9,7 765,13 760,68 Altri servizi sanitari 5,9 34,7 290,20 286,69

Assistenza sociale e protezione civile 10,6 24,0 408,47 397,46

Servizi di assistenza sociale 13,2 22,2 477,94 466,20 Servizi di assistenza nelle emergenze 1,3 36,7 95,85 94,89 Servizi di sostegno ai redditi (monetari e/o in

natura)

0,9 20,6 263,61 243,25

Tutela dei diritti e attività politica 1,2 23,2 148,84 138,97

Servizi di tutela e protezione dei diritti 1,4 16,3 148,39 144,65

Cooperazione e solidarietà internazionale 1,3 21,8 311,64 290,19

Attività di sostegno economico e umanitario all’estero

1,3 21,8 311,64 290,19

Totale generale 3,2 15,8 212,29 190,56

Fonte: Barbetta, Lorenzini e Mancini 2016: 42-43 (elaborazioni su dati ISTAT)

Naturalmente anche i valori medi annui di entrate e uscite sono superiori negli ambiti sanitario e socio- assistenziale e di protezione civile rispetto all’universo del Terzo Settore nella sua globalità [ivi: 44], e peral- tro le istituzioni di questi due ambiti sembrano in grado di diversificare maggiormente le proprie fonti di en- trata, nonostante il fatto che siano finanziate prevalentemente da contratti e convenzioni stipulati con la pub- blica amministrazione, o forse proprio a causa di ciò [ivi: 45]. Inoltre, come già accennato in precedenza, gli enti afferenti a tali ambiti risultano maggiormente plurilocalizzati, sia rispetto agli altri sia rispetto alla media generale, con un corrispondente maggior impiego di lavoratori retribuiti [ivi: 45-46], come si può osservare nella Tabella 3.4.:

Tab. 3.4. Enti di Terzo Settore plurilocalizzati per ambito di attività prevalente in base al Censimento 2011

Ambiti di attività (ICNPO) Unità istituzionali Unità locali

v.a. % Numero medio unità lo- cali Numero unità loca- li % con la- voratori retribuiti

Cultura, sport e ricreazione 9.059 4,6 2,5 24.355 31,0 Istruzione e ricerca 1.843 11,9 3,5 6.046 87,0

Sanità 1.239 11,3 4,1 5.064 81,6

Assistenza sociale e protezione civile 3.542 14,1 4,1 14.490 77,7 Sviluppo economico e coesione sociale 1.023 13,7 2,8 2.733 88,9 Relazioni sindacali e Rappresentanza di inte-

ressi

1.412 8,6 5,2 7.347 83,2

Altri settori 1.669 5,6 4,2 6.163 51,0

Totale 19.787 6,6 3,3 66.198 61,0

Fonte: Barbetta, Lorenzini e Mancini 2016: 46 (elaborazioni su dati ISTAT)

In definitiva si può dunque osservare che, in base alle elaborazioni effettuate dal team di studiosi guidato da Barbetta, Ecchia e Zamaro sui dati del censimento ISTAT del 2011, gli ambiti di attività in cui la CRI presta la sua opera sono “presidiati” da realtà di Terzo Settore meno numerose ma mediamente più grandi e forti di quelle presenti negli altri ambiti, in base alla loro plurilocalizzazione, al numero di volontari e (in maggior misura) di lavoratori retribuiti che impiegano, e (soprattutto) al volume di entrate ed uscite che ge- stiscono. In sintesi, un mondo ricco di competitors per la CRI. È quindi opportuno osservarne qualcuno più da vicino.

3.2.2. Alcuni soggetti del Terzo Settore italiano operanti in ambito socio-sanitario54

Nel capitolo precedente, citando un articolo di Marco Ricceri, si era fatto un cenno al contributo che or- ganizzazioni del Terzo Settore di ispirazione religiosa hanno dato e stanno tuttora dando al sistema di welfa- re europeo in ambito sanitario. In Italia tale assunto è particolarmente vero, come dimostra l’opera pluriseco- lare svolta dai più antichi enti non profit operanti in tale ambito, ossia le Misericordie. Pur senza far torto a Giovanni Moro e alle sue solide argomentazioni, è un fatto accertato anche da recenti ricerche sociologiche [Fazzi, Marocchi 2017] che le Misericordie hanno saputo combinare un lungo retaggio ad una grande capaci- tà di adattamento ai mutamenti della società. Esse infatti sono forse le più antiche realtà di Terzo Settore ope- ranti in Italia nel campo socio-sanitario: si tratta di confraternite nate nel Medioevo (la prima fu fondata a Fi- renze nel 1244) allo scopo di compiere le opere di misericordia prescritte dalla tradizione ecclesiale cattolica, che sono suddivise in sette di «carattere corporale» e sette di «carattere spirituale» [Fazzi, Marocchi 2017: 7]. Fra queste le opere di misericordia corporale sono state le più praticate, in particolare la cura degli infer- mi e il seppellimento dei defunti, entrando nell’immaginario collettivo. Tuttavia attualmente le Misericordie sono diventate una componente dinamica del nostro Terzo Settore: in base ai dati ufficiali esistono infatti ben 700 confraternite, riunite in una Confederazione nazionale che le coordina, le disciplina e le rappresenta, ed in totale esse riuniscono 670.000 iscritti e 100.000 volontari [ivi: 67]. Molte delle vecchie confraternite, per-

54

Una versione abbreviata del presente sotto-paragrafo è stata pubblicata da chi scrive nei paragrafi di sua pertinenza di Bassi, Fabbri [2017].

lopiù operanti nel Centro-Nord (la Toscana da sola vanta oltre 300 realtà [ivi: 129]), hanno infatti beneficiato dell’opera di un nuovo gruppo dirigente, che ha dimostrato di saper essere «attivo e propositivo» [ivi: 17]. D’altro canto, nel Meridione la fioritura delle Misericordie è stata più recente, e spesso è stata dovuta all’esempio dei volontari giunti a soccorrere le vittime delle ultime catastrofi naturali, come il terremoto dell’Irpinia del 1980 [ivi: 19]. Nell’un caso e nell’altro, attestano i sociologi Luca Fazzi e Gianfranco Ma- rocchi, si tratta di «una galassia di associazioni caratterizzata da elementi molto variegati […]» [ivi: 27]. Talvolta le confraternite si sono infatti concentrate sul mantenimento delle loro 4 attività assistenziali “stori- che”, ossia trasporto sanitario d’emergenza, trasporto sanitario non d’emergenza, trasporto sociale e collabo- razione con la Protezione Civile [ivi: 28]. Altre al contrario, non necessariamente le più “giovani”, hanno av- viato iniziative totalmente inedite e decisamente più attinenti all’assistenza e all’inclusione sociale: l’housing sociale, il banco alimentare, il contrasto all’usura, la gestione dei centri d’accoglienza per migranti e la pro- mozione di attività sportive e ricreative [ibidem]. Infine le attività più antiche, ossia le onoranze funebri e la cura dei cimiteri, sono diventate for profit, contribuendo a generare reddito che viene utilizzato per finanziare gli altri settori di attività [ivi: 40-41].

Tutto ciò ha fruttato alle Misericordie una maggiore visibilità e un maggior sostegno da parte della società civile, garantendo la loro attuale fioritura. Tuttavia queste nuove iniziative stanno comportando rischi di na- tura non solo finanziaria, ma anche giuridica ed etica: a parte il problema di far tornare i conti, la necessità di impegnarsi in settori nei quali occorre una specifica competenza tecnica, e quindi personale stipendiato, si scontra con un principio fondamentale, ossia la gratuità dell’opera prestata, che storicamente si è sempre tra- dotta nel ricorso primario ai volontari e nello status di Organizzazioni di Volontariato che contraddistingue le singole confraternite [ivi: 21-22]. Alcune Misericordie hanno dunque scelto di assumere direttamente perso- nale salariato, nei limiti di legge55, mentre altre hanno creato enti controllati ad hoc come cooperative sociali e S.r.l. [ivi: 24-26]: spesso tali iniziative sono state “giustificate” con la rivendicazione del carattere merito- rio della creazione di posti di lavoro, specie in realtà sociali nelle quali la disoccupazione è alta [ivi: 90].

Un secondo e decisamente laico competitor della CRI è costituito dall’Associazione Nazionale Pubbliche Assistenze o ANPAS, un’organizzazione di secondo livello che riunisce la stragrande maggioranza di orga- nizzazioni assistenziali socio-sanitarie esistenti ed operanti in Italia con il nome di “Pubblica Assistenza” o di “Croce”. Come osserva lo storico Fulvio Conti, queste associazioni nacquero in Italia poco dopo la CRI, in- torno agli anni ‘70 del XIX secolo, con lo scopo precipuo di svolgere assistenza socio-sanitaria in tempo di pace, sia «nel caso di eventi calamitosi quali terremoti, incendi, alluvioni, epidemie […]», sia prestando «una quotidiana opera di assistenza agli ammalati, ai poveri e ai bisognosi, garantendo loro il trasporto gratuito a- gli ospedali, la somministrazione di medicinali, il cambio di biancheria, turni di vigilanza diurna e notturna. Effettuavano inoltre interventi di pronto soccorso nei casi di incidenti o di infortuni […]» [Conti 2004: 8]. Inoltre il XX secolo vide l’assunzione dell’impegno allo svolgimento di attività educative e preventive in campo igienico-sanitario, come sancito dal IV congresso di Spoleto del 1904 [ivi: 53]. In sostanza queste as- sociazioni si muovevano nello spazio che allora, come si vedrà nel prossimo capitolo, la CRI aveva lasciato

libero per sua precisa scelta statutaria, e solo in taluni casi ne mutuavano il nome e il simbolo utilizzando una croce di diverso colore: in molti altri casi, infatti, esse portavano il nome di “Fratellanza Militare”, in quanto istituite da ex combattenti (regolari o garibaldini), oppure appunto il nome di “Pubblica Assistenza”. Del re- sto, era loro interesse distinguersi dalla CRI anche per un motivo culturale e politico, «perché esse ebbero una spiccata connotazione laica, cui non fu estranea la matrice massonica di molti dirigenti, e un orientamen- to politico progressista e di sinistra, sebbene mai esclusivo e totalizzante» [ivi: 5]. Il congresso di Spoleto pe- raltro vide anche la fondazione della Federazione Nazionale delle Pubbliche Assistenze, vera e propria orga- nizzazione di secondo livello che, al pari della Confederazione Nazionale per le Misericordie, riunì e rappre- sentò su scala nazionale tutte queste vivaci realtà [ivi: 3].

La convivenza fra CRI e Croci “policrome” è stata caratterizzata da vicende alterne a seconda dei vari pe- riodi storici. In taluni momenti, come ad esempio fra fine Ottocento ed inizio Novecento, vi furono discreti rapporti “di buon vicinato” [ivi: 77-80], e talora anche una certa convergenza di intenti e di azione, spesso rappresentata plasticamente dalla doppia appartenenza di singole personalità di spicco del mondo medico [i- bidem], nonché una condivisa inimicizia verso le cattoliche Misericordie, motivata dalla comune radice laica e risorgimentale, come avvenne soprattutto nella turbolenta Toscana di fine Ottocento e d’inizio Novecento [Campagnano e Lori 2016: 489-497]. In altri momenti invece, e particolarmente durante il periodo fascista, vi fu una contrapposizione fortissima motivata da differenti scelte politiche, e culminata con il Regio Decreto 84 del 12 febbraio 1930, che sancì lo scioglimento di tutte quelle Croci e Pubbliche Assistenze prive di rico- noscimento giuridico. Come si vedrà, questo provvedimento governativo era nominalmente finalizzato al “riordino” del settore dell’assistenza socio-sanitaria, ma in realtà era anche originato dalla volontà di liberare la CRI, divenuta vicina al regime, da un concorrente al tempo stesso competitivo e sovversivo. Poterono sal- varsi solo quelle associazioni che avevano ottenuto la personalità giuridica come enti morali, ma anch’esse «dovettero subire pesanti ingerenze da parte del regime e drastiche limitazioni alla propria sfera di autonomi- a, non ultime quelle volte a ridisegnare il loro profilo etico e culturale» [Conti 2004: 113]. Il regime inoltre nel 1933 sciolse anche la Federazione nazionale, che pure aveva ottenuto fin dal 1911 il riconoscimento giu- ridico [ivi: 80, 113]. Si comprende dunque perché dopo il 1945, e per molti decenni a seguire, il rapporto fra CRI e Pubbliche Assistenze non sia stato particolarmente positivo, anche in considerazione del perdurante legame privilegiato fra CRI e Stato, nonché del fatto che i tentativi delle rinnovate associazioni di rientrare in possesso dei beni sequestrati nel 1930 si conclusero «sempre con scarsa fortuna» [ivi: 133]. Tuttavia nono- stante queste difficoltà esse sono riuscite a ricostituirsi e a riprendere il loro posto, a fianco e talvolta in con- trapposizione alla CRI e alle Misericordie: anche il loro organismo rappresentativo, la Federazione naziona- le, si è ricostituita nel 1946 e dal 1987 ha assunto l’attuale denominazione di Associazione Nazionale Pubbli- che Assistenze o ANPAS [ivi: 3, 120]. In proposito Emmanuele Pavolini, nell’ambito di uno studio su politi- che pubbliche e Terzo Settore negli anni ‘90, ha definito l’ANPAS «Una forma specifica di associazionismo mutualistico […]», ed ha osservato che le Pubbliche Assistenze ad essa aderenti

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in questi ultimi anni hanno progressivamente iniziato a svolgere servizi di carattere socio-assistenziale. Quel-