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5. La storia della CRI nel quadro dello sviluppo del welfare state italiano

5.5. La CRI fra Prima e Seconda Repubblica

La storia degli ultimi quarant’anni del welfare state italiano, e quindi della CRI, si intreccia per un verso con la generale crisi del welfare state in Occidente, e per un altro con le peculiari vicende politiche italiane, sintetizzabili nel pasaggio dalla cosiddetta Prima Repubblica alla Seconda.

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http://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario;jsessionid=Q1sAfJy0iTsDMwpp0KdHIA__. ntc-as5-guri2a?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1978-12-28&atto.codiceRedazionale=078U0833&elenco30giorni=false (ultimo ac- cesso: 16/09/2017). 106 http://www.gazzettaamministrativa.it/opencms/export/sites/default/_gazzetta_amministrativa/amministrazione_trasparente/_ag en- zie_enti_stato/_croce_rossa_italiana/010_dis_gen/020_att_gen/2013/Documenti_1383559450343/1383559451212_anno_1980_dpr_ 613.pdf (ultimo accesso: 03.08.2017).

5.5.1. Il welfare state italiano fra Prima e Seconda Repubblica

In merito al primo aspetto, come è noto, nel corso degli anni ‘70 e ‘80 del XX secolo il welfare state è en- trato in una crisi dovuta a molteplici fattori di ordine politico, economico, sociale e culturale, che «è stata spiegata, ad esempio da Habermas (1975), da Ardigò (1976) e da Luhmann (1983) come disfunzione dei flussi di input-output fra il sotto-sistema economico, quello politico-amministrativo e quello socio-culturale, oltre che all’interno di ciascuno di essi» [Colozzi, Bassi 2003: 226]. Achille Ardigò in particolare non aveva soltanto ravvisato i fattori di crisi, compendiabili in una «esplosione di spesa pubblica […]» [Ardigò 1982: 47], alla lunga insostenibile, e in un eccesso di burocrazia statale alienante [ivi: 48-49], ma aveva anche sa- puto cogliere le nuove aspirazioni e le reazioni dell’opinione pubblica, che nel corso degli anni ‘80 si tradus- sero nella già indicata «aspirazione a passare dal Welfare State alla Welfare society […]» [ivi: 50]. Da ciò è derivata in tutti i Paesi una mobilitazione della società civile, che ha determinato la più volte menzionata cre- scita del Terzo Settore negli ultimi 30 anni, nonché il suo affiancamento sempre più rilevante al welfare sta- te, anche se naturalmente tali sviluppi sono avvenuti in tempi e modi diversi da Paese a Paese: la stessa vi- cenda della CRI, che verrà esposta in questa sede, esemplifica a mio avviso le particolari difficoltà che tale processo ha incontrato in Italia, a maggior ragione considerando i legami strettissimi che la CRI ha avuto con lo Stato.

Nel nostro Paese, infatti, il fenomeno della crisi generale del welfare state si è saldato con il secondo a- spetto accennato, ossia con le dinamiche eminentemente politiche (anche internazionali: la fine della Guerra Fredda) ed istituzionali, ma altresì economiche e sociali, che in ultima analisi hanno portato, fra 1992 e 1994, alla scomparsa dalla scena politica dei vecchi partiti nati all’inizio del Novecento ed all’entrata in scena di nuovi soggetti. Tali dinamiche erano intimamente connesse con le particolari storture particolaristico- clientelari dello stesso sistema politico, già menzionate nel precedente paragrafo e nel primo capitolo, ma de- cisamente non terminate con la Prima Republica. Poiché esse avevano pesanti ricadute sulla politica sociale dello Stato italiano, la crisi del welfare state è stata in questo Paese più forte che altrove, per quanto Maurizio Ferrera abbia ravvisato storture simili «anche se in forma più contenuta» nel welfare state olandese, anch’esso fondato sul compromesso fra forze politiche confessionali e socialiste, ma che «ha potuto evitare i drammatici squilibri finanziari all’italiana principalmente grazie alle royalties sull’estrazione di gas naturale dai propri giacimenti» [Ferrera 1993: 270-271]. Non potendo contare su un analogo escamotage, la classe politica italiana (vecchia e nuova) ha dovuto fronteggiare la crisi del welfare state cercando di razionalizzare le risorse esistenti e aprendolo al contributo del Terzo Settore, sebbene in maniera diversa, talora anche mol- to diversa, a seconda delle propensioni politico-ideologiche dei vari governi. Per questo motivo la politica sociale dello Stato italiano non si è svolta affatto all’insegna di una continuità di linea d’azione e di un ordi- nato incrementalismo, ma piuttosto per fasi ben distinte e caratterizzate da indirizzi differenti, talora perfino contrastanti. Andrea Bassi e Sandro Stanzani, in un loro lavoro del 2012, ne hanno individuate 6, corrispon- denti ad altrettante legislature.

La prima, coincidente con la IX legislatura (12 luglio 1983-28 aprile 1987), viene definita dagli autori «la fase dell’incrementalismo sconnesso», poiché non venne avvertita dalla classe politica la necessità di rego- lamentare in maniera sistematica il rapporto fra servizi sociali pubblici e Terzo Settore emergente, soprattutto negli ambiti dell’assistenza sociale e sanitaria:

Il decennio degli anni Ottanta ha visto le amministrazioni locali attuare una serie di misure ed interventi volti a realizzare un primo nucleo embrionale di servizi alla persona sulla scorta delle linee guida contenute nella leg- ge n. 833/1978 […] che conteneva alcuni riferimenti alla integrazione con il sistema delle prestazioni socio- assistenziali.

In questa fase pionieristica gli enti locali hanno fatto grandemente uso di soggetti non profit per far nascere le prime tipologie di servizi (educatori per il sostegno all’handicap, assistenti di base per l’aiuto agli anziani, educa- tori per il supporto al disagio psichico, ai minori con famiglie disagiate ecc.). La tipologia organizzativa mag- giormente coinvolta è stata quella della cooperativa sociale […] [Bassi, Stanzani 2012: 131].

La necessità di sanare il vuoto normativo esistente spinse tuttavia la classe politica ad emanare alcune norme che tuttora sono basilari per il Terzo Settore, nonché per la CRI. La X Legislatura (2 luglio 1987-2 febbraio 1992), definita «la fase della razionalizzazione selvaggia», vide infatti «una vasta produzione nor- mativa che tocca direttamente o indirettamente il Ts», ed in particolare la legge 266 dell’11 agosto 1991, o legge-quadro sul volontariato (istitutiva delle Organizzazioni di Volontariato o OdV), la legge 381 dell’8 no- vembre dello stesso anno, per la disciplina delle cooperative sociali, e il Decreto Legislativo 502 del 30 di- cembre 1992, o Riforma del SSN [ivi: 132]. Quest’ultimo provvedimento ebbe per il TS conseguenze deci- samente negative, oltre a non rivelarsi foriero di progressi neppure per le istituzioni pubbliche locali:

Da un lato, con lo scioglimento delle Usl e l’istituzione delle Asl (Aziende sanitarie locali), con conseguente riassegnazione ai comuni della gestione dei servizi sociali, si separa nettamente il sociale dal sanitario, creando evidenti problemi budgetari e organizzativi (dovuti alle piccole dimensioni dei Comuni e all’inadeguatezza del personale dipendente di farsi carico della organizzazione dei servizi sociali). Dall’altro, con l’adozione della gara d’appalto (nella versione “al massimo ribasso”) quale procedura tipica per l’acquisizione di servizi all’esterno, che viene applicata meccanicamente anche nel settore dei servizi socio-assistenziali ed educativi, con gravi con- seguenze dal punto di vista della qualità della prestazione per gli utenti finali: i cittadini in stato di bisogno [Bas- si, Stanzani 2012: 132].

Per tali ragioni i due autori identificano questa Legislatura come la fase peggiore del rapporto fra lo Stato italiano ed il Terzo Settore, in quanto basato, all’epoca, essenzialmente sulla sfiducia reciproca [ibidem]. Pe- raltro, come è noto, questa fu anche l’ultima Legislatura guidata da un governo del “Pentapartito”, che termi- nò contemporaneamente all’inizio della cosiddetta “Tangentopoli”, punto d’inizio del sommovimento politi- co epocale già menzionato. Uno degli ultimi atti di questa legislatura ebbe tuttavia un impatto rilevante sulla politica sociale e sulla CRI. La legge 225 del 24 febbraio 1992 sulla creazione della Protezione Civile, che all’articolo 11 menzionò la CRI come sua componente (comma 1-g), accanto, ma non insieme, alle organiz- zazioni di volontariato esistenti nel Paese (comma 1-i)107.

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La legge 225 del 24 febbraio 1992, che ha istituito il Servizio nazionale della protezione civile, sotto la responsabilità dell’omonimo Dipartimento, afferente alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, all’articolo 11 comma 1 indica espressamente la CRI fra le «Strutture operative nazionali del Servizio». Cfr. http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/view_prov.wp?contentId=LEG1602 (ultimo accesso: 03.08.2017).

Il rapporto fra Terzo Settore ed istituzioni pubbliche migliorò nel corso della XIII Legislatura, retta dalla coalizione di centrosinistra nota come “Ulivo” (9 maggio 1996-9 marzo 2001) e definita «la fase di istituzio- nalizzazione del sistema nazionale dei servizi sociali». La legge 328 dell’8 novembre del 2000, infatti, istituì il Servizio sociale nazionale ponendo fine all’assenza di una legge che regolamentasse in maniera sistematica i servizi sociali (l’unico precedente era la già menzionata legge Crispi del 1890), e prevedendo un innovativo coinvolgimento del Terzo Settore nella pianificazione e nella gestione della politica sociale [ivi: 133].

Questa legge è stata attentamente studiata da Annamaria Campanini e Carla Facchini, che nel 2008 hanno condotto una ricerca empirica sui soggetti maggiormente coinvolti dalla sua emanazione: gli assistenti sociali (1.000 intervistati mediante survey, con metodo CATI) ed i responsabili dei servizi sociali (50 intervistati in profondità) [Campanini, Facchini 2012: 154]. I risultati di queste interviste sono stati inequivocabili e con- cordi per le due categorie: sia i mutamenti complessivi dei servizi sociali, sia la legge 328 del 2000, hanno comportato un «sostanziale miglioramento […]» [ivi: 157]. La legge in particolare è stata valutata come «fortemente positiva e innovativa […]» [ivi: 171], anzitutto perché «per la prima volta in Italia si sia cercato di costruire un sistema normativo organico non improntato ad una logica meramente assistenzialistica o di controllo sociale» [ivi: 161]. In secondo luogo per «la rilevanza dell’impianto programmatorio indicato nella 328 come un metodo fondamentale, che deve prevedere l’integrazione delle politiche e degli interventi, il coordinamento interistituzionale, la concertazione, la partecipazione e la valutazione […]» [ibidem]. Infine per «la positività di aver promosso modalità operative che coinvolgono più soggetti in un’ottica di integra- zione tra diversi ambiti di intervento» [ivi: 162]. In proposito, le due studiose hanno giustamente sottolineato che fra i vari soggetti coinvolti «in diversi casi, si evidenzia come elemento specificamente positivo la nuova attenzione prestata al “terzo settore”» [ivi: 163].

La legge 328 sembra dunque aver promosso, almeno sul piano teorico, la valorizzazione di tutte le parti in causa: lo Stato centrale, che ha fatto sentire la sua presenza in maniera organica e sistematica in un ambito del welfare state dove era stato a lungo latitante; le istituzioni locali, che mantengono comunque un ruolo centrale; la società civile nelle sue varie espressioni, in primis il Terzo Settore, coinvolta in maniera inedita. Tuttavia questo quadro così positivo cambia drasticamente quando si passa al giudizio sull’implementazione della norma, che è decisamente «più articolato e più critico» [ivi: 166]. La causa principale di ciò è una rile- vante iniziativa legislativa della stessa XIII Legislatura, ossia l’emanazione della legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre dello stesso anno 2000, anche se la sua pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» è avvenuta circa un anno dopo: si tratta della legge sulle “Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione”, che hanno «avviato la costruzione del federalismo nel nostro paese […]», e che pertanto hanno inevitabilmente avuto un potente impatto sulla sanità e sui servizi sociali [Bassi, Stanzani 2012: 133].

Come osservano Bassi e Stanzani, la legge ha determinato molti mutamenti nel sistema di welfare italia- no: ha anzitutto disciplinato diversamente il diritto alla tutela della salute, oggetto di legislazione concorrente fra Stato e Regioni, e il diritto all’assistenza, rimasto di competenza regionale; le Regioni hanno dunque il pieno diritto di organizzare i propri sistemi sanitari e di servizi sociali, ma i primi devono comunque rispetta- re i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) fissati dallo Stato, come prevedeva la legislazione precedente e

come il nuovo articolo 117 della Costituzione ribadisce. Qualora le Regioni non abbiano risorse sufficienti allo scopo, il nuovo articolo 119 prevede l’intervento dello Stato con risorse aggiuntive, ed il nuovo articolo 120 perfino un intervento diretto e sostitutivo degli organi regionali. L’articolo forse più importante, da un punto di vista sociologico, è il nuovo articolo 118, che ha sancito «l’introduzione del principio di sussidiarie- tà nella nostra carta costituzionale […] con il pieno riconoscimento sia della sua dimensione verticale (rap- porto tra rami della pubblica amministrazione) che di quella orizzontale (rapporto tra cittadini, corpi inter- medi e pubblica amministrazione)» [ivi: 136].

Per quanto concerne specificamente i servizi sociali, tuttavia, la riforma sembra aver avuto conseguenze del tutto negative, in quanto le modifiche al titolo V «hanno infatti reso problematica la possibilità di un’evoluzione omogenea del quadro nazionale […]» [Campanini, Facchini 2012: 166]. Inoltre alla legge 328 è mancata l’essenziale emanazione dei necessari decreti attuativi, in particolare quelli che avrebbero dovuto definire i Livelli Essenziali di Assistenza Sociale (LIVEAS), ossia «quell’insieme di erogazioni di beni e/o servizi appropriati ed esigibili, dimensionati per rispondere a bisogni predefiniti» [ivi: 168]: per questo moti- vo, le due studiose concordano con un intervistato nel valutare in definitiva questa legge come «una grandis- sima intuizione incompiuta» [cit. in ivi: 173]. La XIII Legislatura ha emanato un ultimo provvedimento legi- slativo di notevole rilievo in campo sociale, sia per il Terzo Settore sia, come si vedrà, per la stessa CRI: la legge 383 del 7 dicembre dello stesso anno, «che viene a colmare un vuoto normativo sui soggetti del Ts, an- dando a regolamentare le attività del terzo pilastro del non profit italiano, l’associazionismo, appunto, a fian- co del volontariato e della cooperazione sociale […]» [Bassi, Stanzani 2012: 133].

Le Legislature successive, ossia la XIV (30 maggio 2001-27 aprile 2006), la XV (28 aprile 2006-6 feb- braio 2008) e la XVI (29 aprile 2008-14 marzo 2013), non sono state caratterizzate da una produzione legi- slativa particolarmente rilevante nel campo della politica sociale: si possono tuttavia menzionare alcuni provvedimenti relativi alla nuova figura giuridica dell’impresa sociale [ivi: 133-134], l’introduzione della so- cial card nel campo dell’assistenza sociale nel 2008 [Ascoli, Pavolini 2012: 443] e le politiche di attivazione già menzionate nel primo e nel secondo capitolo, e valutate criticamente sia da Gualmini e Rizza, come os- servato, sia da Ascoli e Pavolini [ivi: 442-443]. L’unica eccezione è costituita dalla significativa, incisiva e molto contestata riforma pensionistica varata dal governo “tecnico” presieduto da Mario Monti, la cosiddetta “riforma Fornero”, che in estrema sintesi ha ripristinato il sistema contributivo sul modello tedesco (un’autentica ortodossia previdenziale bismarckiana), innalzato l’età pensionabile ed aumentato le aliquote contributive dei lavoratori non dipendenti [ivi: 440]. È assai noto che tale riforma è stata emanata in un mo- mento di grave crisi finanziaria dello Stato, e che ha notevolmente contribuito a scongiurarla permettendo un «notevole risparmio di spesa pubblica nel breve, così come nel medio-lungo termine» [ivi: 441]. Più in gene- rale essa si configura dunque come uno dei provvedimenti varati dal governo Monti allo scopo, reale o di- chiarato, di risanare le finanze pubbliche, ossia in nome di quella che era in ultima analisi la mission e la stessa ragion d’essere di tale governo. Si vedrà come tale linea d’azione politica abbia avuto conseguenze di- rette e rilevanti sulla stessa CRI.

In definitiva, l’attuale configurazione del sistema di welfare italiano, per come è emersa dalle riforme de- gli ultimi anni, sembra essere compendiabile nella parola frammentazione. Questa è in particolare l’opinione di Giuseppe Moro e Giovanni Bertin, secondo i quali, in ultima analisi, la frammentazione corrisponde al «“carattere originale” del welfare italiano», dovuto al mix, da sempre imperante su di esso, di tre frammenta- zioni: una istituzionale, ossia la coesistenza di enti diversi e scollegati; una dei target, dovuta al carattere ca- tegoriale, o più esattamente particolaristico-clientelare, del sistema; infine, una territoriale, dovuta sia a ra- gioni storiche, sia alla regionalizzazione iniziata negli anni ‘70 e proseguita con la già menzionata modifica del titolo V della Costituzione [Moro, Bertin 2012: 37-38, 40].

I due sociologi quindi non soltanto si pongono in obiettiva vicinanza con le posizioni di Colombo e Regi- ni, menzionate nel primo capitolo, ma le oltrepassano giungendo a conclusioni più radicali, sostenute da una specifica ricerca empirica. Se infatti per Colombo e Regini l’Italia è genericamente caratterizzata dalla coesi- stenza di più modelli sociali, per Moro e Bertin bisogna anzitutto partire dal presupposto che «20 enti regio- nali hanno dovuto e potuto disegnare i loro assetti di politica sociale senza alcun riferimento guida a livello nazionale» [ivi: 40]. Pertanto non ha senso cercare di inserire il welfare italiano in una delle tipologie elabo- rate da Titmuss o da Esping-Andersen, né tantomeno nel “nuovo” cluster mediterraneo, anche perché «La ricostruzione storico-istituzionale potrebbe farci concludere, invece, che nel nostro sistema di welfare sono presenti importanti tracce istituzionali di tutti i modelli sopra richiamati […]», a seconda degli ambiti che si vogliano conisiderare e delle linee di politica sociale seguite dai vari governi, soprattutto negli ultimi anni [ivi: 42]. Tale ipotesi, per quanto interessante e suggestiva, sarebbe tuttavia da scartare per Moro e Bertin, in quanto «probabilmente, questa visione del mix istituzionale è viziata dal nazionalismo metodologico […] perché continua a pensare allo stato nazionale come unità di analisi fondamentale» [ibidem]. L’attuale realtà italiana può invece essere compresa soltanto assumendo «come focus dell’analisi i sistemi regionali di welfa- re. Sono sistemi che si differenziano fra loro non solo per i differenti livelli di spesa, ma anche […] per i mo- delli di governance […], per gli obiettivi prioritari che perseguono e le conseguenti modalità di distribuzione delle risorse» [ivi: 40].

Partendo da queste premesse, e da precedenti analisi e classificazioni elaborate da altri studiosi nello scor- so decennio [ivi: 43-44], Moro e Bertin hanno quindi sviluppato un’analisi dei vari modelli di governance delle politiche sociali regionali. La ricerca non è stata priva di ostacoli: a causa della «difficoltà di individua- re informazioni valide e attendibili […] Ad oggi [nel 2012], infatti, le ricerche si sono limitate a comparare le realtà regionali dal punto di vista della loro impostazione normativa che poco rappresenta i processi realmen- te attivati nei territori» [ivi: 45]. Questi dati, analizzati in base a 67 indicatori (24 relativi alla titolarità dei servizi, 18 attinenti alla diffusione ed all’universalismo, 25 concernenti il contesto) [ibidem], ed ulteriormen- te elaborati mediante una cluster analysis, hanno portato i due studiosi a riscontrare anzitutto «il carattere principale emerso da quest’analisi, vale a dire la forte differenziazione che induce a ritenere difficile e forzo- so parlare in Italia di un sistema di welfare nazionale», ma altresì che «probabilmente anche la dimensione regionale è troppo ampia per pensare a sistemi di welfare fortemente omogenei» [ivi: 48]. Ciò nonostante, «La cluster analysis evidenzia la presenza di sette tipi di welfare che raggruppano alcune regioni con caratte-

ristiche sufficientemente simili» [ivi: 49], e dunque è possibile tracciare la seguente classificazione (Tabella 5.1.):

Tab. 5.1. Cluster delle Regioni italiane con tipi di welfare simili secondo Moro e Bertin

Tipo di welfare Regioni appartenenti Caratteristiche

1. Welfare universalistico con mix di tipo societario

Valle d’Aosta; Trentino-Alto Adige Mix strutturato ma con dinamiche forti di societario, offerta estesa di servizi tradi- zionali, ma meno attenti alla territorializ- zazione, forte coesione sociale con rischi sociali relativamente bassi

2. Welfare con mix integrato e univer- salistico

Friuli-Venezia Giulia; Toscana; Lombar- dia; Veneto; Emilia-Romagna

Mix strutturato con la presenza di alcuni segnali di orientamento verso il societario, l’offerta estesa di servizi tradizionali e di orientamento verso la territorializzazione, società discretamente coese con rischi so- ciali relativamente bassi

3. Welfare mix strutturato Liguria; Marche; Umbria Mix bilanciato fra dinamiche d’integrazione di mercato, stato e societa- rie. Offerta discretamente diffusa di servizi tradizionali e territoriali, la coesione socia- le è discreta e bassi sono i rischi sociali

4. Welfare consolidato ma poco inno- vativo

Piemonte Mix strutturato ma con pochi segnali di orientamento verso dinamiche di sussidia- rietà, l’offerta di servizi tradizionali è este- sa ma poco orientata alla territorializzazio- ne, coesione e rischi sociali sono relativa- mente bassi

5. Welfare residuale e poco diversifi- cato

Lazio; Abruzzo Il mix è relativamente poco articolato e poco significativi sono i segnali di orien- tamento verso il welfare societario, l’offerta è poco estesa sia di servizi tradi- zionali sia territoriali, la coesione è discre- ta ma alti sono anche i rischi sociali

6. Welfare residuale con propensione al societario

Molise; Baslicata; Sardegna Mix di mercato e stato poco strutturato, ma con alcuni segnali di orientamento verso strutture di tipo societario, l’offerta è poco estesa sia di servizi tradizionali sia territo- riali, la coesione è discreta ma alti sono anche i rischi sociali

7. Welfare minimale ad elevata critici- tà sociale

Puglia; Calabria; Campania; Sicilia Debole la presenza di tutti gli attori (pub- blici e privati) e mancano segnali di orien- tamento verso la sussidiarietà, l’offerta appare complessivamente poco estesa in presenza di rischi sociali elevati

Fonte: Moro, Bertin 2012: 49-51 (rielaborazione mia)

Questa particolarissima configurazione per cluster regionali sembra dunque rendere l’Italia un unicum nel panorama europeo. Benché i due studiosi non lo affermino esplicitamente, tale è a mio avviso la conclusione desumibile dal risultato dell’analisi compiuta e dai rilievi che essi ne traggono, come ad esempio la constata- zione secondo cui il passaggio dal welfare state al welfare mix «In Italia, forse più che in altri paesi, […] si è