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2. Il modello sociale europeo e il paradigma dell’investimento sociale

2.1. Il modello sociale europeo

Una delle prime riflessioni sul concetto di “modello sociale europeo” fu sviluppata da Wolfgang Streeck nel 2000, in un lavoro significativamente intitolato Il modello sociale europeo: dalla redistribuzione alla so- lidarietà competitiva. Si trattava di una concezione ancora prudente, ipotetica e critica, aliena da facili cer- tezze e da ottimismi europeistici. Streeck infatti, riflettendo sulle dinamiche di politica economica e sociale degli Stati dell’Unione Europea degli anni ‘90, affermava fin dall’incipit del suo articolo che «Le principali caratteristiche di quello che sarà il modello sociale dell’Europa unita risultano essere oggi meno chiare di quanto lo fossero dieci o venti anni fa» [Streeck 2000: 3], e proseguiva rilevando che l’integrazione europea non aveva, e non avrebbe cancellato per molto tempo in futuro, il ruolo cruciale dei singoli Stati «in partico- lar modo per quanto riguarda i temi, dell’eguaglianza, della giustizia e della sicurezza sociale» [ibidem], an- che in considerazione del fatto che il contesto economico mondiale era e sarebbe stato caratterizzato da una sempre maggiore competitività [ivi: 4], e che dal canto suo l’Unione Europea, in materia di politica sociale, stava seguendo un approccio definito dallo stesso Streeck «Neo-Volontarismo», in base al quale «le direttive relative alla politica sociale lasciano ai singoli stati membri un ampio margine discrezionale per la loro im- plementazione, con l’Unione che si limita ad emanare delle raccomandazioni che non hanno un carattere le- galmente vincolante» [ivi: 10]. Quella che Streeck identificava era dunque «una tendenza realmente esisten- te» [ivi: 13], comune agli stati membri della UE, e di cui egli tentava di identificare «i principali contorni», ossia i tratti salienti, precisando che tale modello non corrispondeva al suo ideale di ordine sociale, e altresì sottolineando l’impossibilità di asserire con certezza che la sua realizzazione non avrebbe avuto luogo in maniera non conflittuale [ibidem].

I tratti salienti del modello sociale europeo identificati da Streeck erano dunque una decina, qui riportati sinteticamente:

1. una politica del lavoro e sociale all’insegna dell’«“egualitarismo dal lato dell’offerta”, nel quale le risor- se pubbliche sarebbero state indirizzate a migliorare e a rendere ugualmente concorrenziali sul mercato i singoli individui e la loro capacità di competere, piuttosto che essere volte a proteggerli dagli effetti del mercato» [ivi: 14] (Streeck allude qui al paradigma dell’investimento sociale, come si avrà modo di os- servare nel successivo paragrafo);

2. la parallela tendenza «sia alla razionalizzazione dei servizi pubblici sia ad un incremento degli oneri di partecipazione di tutti i tipi […]» [ivi: 15];

3. una strategia di politica economica (e particolarmente industriale) dei vari governi consistente nello spingere «le proprie comunità a specializzarsi in determinate nicchie […]» del mercato, ossia natural- mente quelle in cui detengono già una posizione di forza [ivi: 15];

4. «L’adattamento delle regole […]» dei regimi sociali nella maniera più favorevole alle necessità dell’«infrastruttura economica», con la connessa eliminazione degli assetti istituzionali troppo rigidi, os- sia limitanti e nocivi all’efficienza e alla produttività dell’economia [ivi: 16];

5. «un’interessante nuova configurazione tra settori industriali e regolazione politica territoriale […]» [ivi: 16-17], ossia una politica più attenta agli interessi economici dei singoli territori, qualora questi siano ca- ratterizzati da una produzione industriale particolarmente rilevante e da tutelare, come nel caso dei “di- stretti industriali”;

6. come conseguenza dei precedenti fattori, un prevedibile aumento della diversità fra gli Stati in opposi- zione alla «convergenza internazionale», ossia una sorta di «esternalizzazione della eterogeneità […]», cui fa da contraltare l’aumento della coesione interna alle singole comunità territoriali e produttive degli Stati [ivi: 17];

7. l’acquisizione di una posizione di vantaggio da parte dei Paesi piccoli, in base alla loro maggiore omo- geneità etnica e culturale, spesso congiunta ad una forte specializzazione economica [ivi: 18];

8. le speculari maggiori difficoltà dei Paesi più grandi ed eterogenei, i quali potrebbero rispondere ad esse attuando un maggiore decentramento, che «può dunque essere un modo di ri-territorializzare la gover- nance economica all’interno di un’economia internazionale ormai senza confini […]» [ivi: 19];

9. una conseguente acutizzazione del dibattito «relativo ai doveri delle aree federali, o delle regioni, nei confronti del livello nazionale, e cioè ai doveri che hanno le regioni ricche rispetto a quelle povere» [ivi: 19];

10. la maggiore dipendenza del benessere, su scala sia nazionale sia regionale, dalle conseguenze del libero commercio globale, con tutte le opportunità ed i rischi connessi [ivi: 20-21].

Come si può osservare, ciò che Streeck ipotizzava (senza necessariamente giudicarlo auspicabile) quale modello sociale europeo del XXI secolo era dunque un modello di politica sociale subordinata agli interessi della politica economica e dell’economia propriamente detta, «o meglio di economia come politica sociale» [ivi: 15], in cui si stava operando, e si sarebbe ancor più in futuro operata «una ricostruzione produttivista della solidarietà all’interno delle comunità nazionali e subnazionali […]» [ivi: 21], tendente a rendere gli in-

dividui, le comunità e gli Stati stessi sempre più competitivi e “spendibili” sul mercato globale per accrescere la ricchezza prodotta entro i confini nazionali, mentre la redistribuzione passava decisamente in secondo pia- no rispetto al passato.

Una concezione diversa del modello sociale europeo, decisamente meno “economicista” e “produttivista”, venne espressa due anni dopo da Anton Hemerijck, celebre per essere stato fra gli “inventori” del paradigma dell’investimento sociale, come si vedrà nel prossimo paragrafo. Il sociologo olandese di fatto usava il ter- mine “modello sociale europeo” come sinonimo di “stato sociale europeo”, e la sua opinione in proposito era che esso fosse costituito da alcuni tratti fondamentali comuni, pur nelle differenze fra i singoli Stati («In tutti i paesi europei lo stato sociale è caratterizzato da tre elementi peculiari» [Hemerijck 2002: 191]):

1. «Sotto il profilo normativo sussiste un impegno comune alla realizzazione della giustizia sociale» [ibi- dem];

2. «Sul piano cognitivo, il modello sociale europeo si fonda sul riconoscimento che la giustizia sociale può contribuire all’efficienza economica e al progresso» [ivi: 192];

3. sul piano istituzionale, infine, il modello sociale europeo è caratterizzato da una linea di condotta che predilige il negoziato, «il dialogo tra governo e parti sociali, caratterizzato dalla “fiducia” quale elemento costitutivo […]» [ibidem].

D’altro canto il sociologo olandese era consapevole del fatto che «Con quindici differenti sistemi di wel- fare, e senza dimenticare il possibile allargamento ai dieci paesi candidati, non esiste ovviamente un solo e unico “modello sociale europeo”, su cui gli stati membri possano eventualmente convergere nei prossimi de- cenni […]. È chiaro che il problema non è tanto la subordinazione della politica interna alle direttive europe- e, quanto piuttosto l’apprendimento e il coordinamento congiunto delle politiche» [ivi: 225]. Secondo Heme- rijck, l’ apprendimento ed il coordinamento congiunto stavano effettivamente avendo luogo negli anni ’90 e all’inizio del XXI secolo, e ciò nel rispetto del modello sociale europeo, «tanto dibattuto quanto indefinito […]» [ivi: 225] ma da intendersi, secondo l’accezione dello stesso Hemerijck, come l’insieme dei tre valori indicati. Egli si mostrava quindi ottimista sulla concreta possibilità, per gli Stati europei, di adeguare i loro sistemi di welfare alle sfide del XXI secolo senza aderire alle ricette neoliberiste, attuate con riforme drasti- che e dirompenti. I numerosi casi esposti con dovizia di particolari nel suo studio miravano appunto a illu- strare il metodo peculiare seguito dai governi europei per raggiungere questo scopo. Tale metodo veniva de- finito da Hemerijck «innovazione politica limitata»:

Molti dei mutamenti politici analizzati in questo saggio sono descritti al meglio come esempi di innovazione politica limitata, riforme orientate a conciliare l’evoluzione dei bisogni sociali e le condizioni economiche ester- ne, in linea con le premesse fondamentali del modello sociale europeo, dando voce ai valori della solidarietà, agli orientamenti cognitivi della politica sociale vista come un vincolo benefico e alla preferenza istituzionale di riso- luzione congiunta dei problemi mediante la riflessione e il negoziato [ivi: 227].

Secondo Hemerijck dunque nel 2002 esistevano tutti i presupposti perché i welfare states europei riuscis- sero a coniugare efficienza ed equità, rinnovamento in base alle nuove sfide e tradizionale adesione al valore- cardine della giustizia sociale, il tutto mantenendo le proprie peculiarità nazionali36, ma seguendo al tempo stesso la guida lungimirante dell’Unione Europea. Quest’ultima infatti, nel corso degli anni ’90, attraverso le tappe del trattato di Maastricht (1992), del trattato di Amsterdam (1997), del summit di Lisbona (2000) e del- la Strategia europea per l’occupazione, era giunta a definire un metodo di programmazione di politica sociale in grado di conciliare flessibilità ed incisività: l’Open Method of Coordination37. Pur viziato da punti deboli (la dipendenza dall’autonoma scelta dei politici nazionali, l’assenza di sanzioni [ivi: 227]), tale metodo era, per Hemerijck, la strada giusta e più funzionale per realizzare «il passaggio verso forme di “solidarietà com- petitiva”, per usare un termine di Wolfgang Streeck [come osservato], con l’occupazione retribuita quale fonte cruciale di integrazione e cittadinanza sociale, e con un forte accento sulle politiche di attivazione dal lato dell’offerta» [ivi: 228], ma garantendo al tempo stesso una misura di giustizia in favore delle categorie sociali più deboli.

Diversi anni dopo, in un contesto influenzato da molti altri articoli scientifici nei quali il concetto di “mo- dello sociale europero” era stato usato, gli studiosi Sabrina Colombo e Marino Regini ne hanno fornito una loro definizione, più semplice e chiara rispetto a quella di Hemerijck, ma ad essa molto vicina dal punto di vista sostanziale. Mi riferisco al lavoro dei due studiosi citato nel capitolo precedente, pubblicato nel 200938 a crisi economica già in corso ed eminentemente dedicato al modello di welfare esistente in Italia, come già osservato. Tuttavia, per meglio contestualizzare le loro riflessioni, Colombo e Regini sviluppavano una ri- flessione introduttiva sul contesto europeo, e quindi sul modello sociale del continente, rilevando anzitutto che tale concetto, pur essendo stato più volte menzionato da politici e accademici, «è sempre rimasto piutto- sto vago. È servito più come orientamento normativo che come strumento analitico da specificare empirica- mente: una coperta stretta tirata in molte direzioni, per coprire letti spesso diversi fra loro» [Colombo, Regini 2009: 236]. Successivamente i due studiosi ravvisavano la necessità di chiarirne i «tratti costitutivi essenzia- li», ed osservavano che «In termini generali, solitamente ci si riferisce a una specifica configurazione di poli- tiche sociali, del lavoro e delle relazioni industriali, che presuppone a sua volta una specifica configurazione degli attori rilevanti per queste politiche e dei rapporti fra loro» [ibidem]. Dopo aver elaborato una tale defi- nizione di massima, Colombo e Regini scendevano nello specifico precisando quattro tratti costitutivi della seconda configurazione, a loro giudizio i più rilevanti e pertinenti rispetto alle tematiche trattate nel loro arti- colo:

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Hemerijck nel suo lavoro afferma che in Europa sussistono tre regimi di welfare, «ognuno basato su un profilo piuttosto preci- so e con attributi istituzionali specifici, fondati su aspirazioni nazionali consolidate all’eguaglianza, alla giustizia sociale e alla solida- rietà […]» [Hemerijck 2002: 196]: il modello scandinavo, il modello anglosassone e il modello continentale, quest’ultimo contraddi- stinto fra l’altro «da livelli molto modesti dei servizi sociali pubblici, al di là di sanità e istruzione, e spesso un notevole affidamento al “terzo settore” e alle prestazioni private» [ivi: 197].

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«Si tratta di una procedura per la quale gli attori politici nazionali rispettano le differenze tra gli stati accettando allo stesso tempo linee-guida concordate di comune intesa e prendendo spunto dalle best practices applicate in paesi diversi dal proprio. L’obiettivo non è di per sé il raggiungimento di politiche comuni, bensì piuttosto la condivisione di esperienze e prassi politiche» [i- vi: 225].

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In quello stesso anno Regini ha espresso i medesimi concetti in un contributo intitolato “Ascesa e declino del modello sociale europeo”, pubblicato nel volume miscellaneo Processi e trasformazioni sociali curato da Loredana Sciolla [2009].

a) un regime di protezione sociale sostenuto da livelli relativamente generosi di spesa pubblica e caratterizza-

to da servizi sociali e da prestazioni di welfare non puramente «residuali», cioè non rivolte esclusivamente alle fasce più deboli della popolazione;

b) un tipo di regolazione del mercato del lavoro che cerca di contemperare l’esigenza di flessibilità da parte

delle imprese con istituti di garanzia del lavoro o del reddito di varia natura, ma comunque sempre presenti;

c) un sistema di relazioni industriali istituzionalizzato, che si basa su associazioni di rappresentanza degli in-

teressi tendenzialmente inclusive e riconosciute, nonché su una contrattazione collettiva coordinata quale metodo di regolazione congiunta del lavoro;

d) uno stile di formazione delle principali politiche economiche e sociali che utilizza una qualche forma di

consultazione o coinvolgimento, quantomeno informale, di queste associazioni di rappresentanza degli interessi da parte dei governi [ivi: 236-237].

Come si può osservare, sono molte le analogie fra questi tratti costitutivi del modello sociale europeo ed i tre valori di fondo nei quali esso si articola secondo Hemerijck: il punto a) è la traduzione sul piano concreto della componente normativa indicata dal sociologo olandese, ossia l’impegno alla realizzazione della giusti- zia sociale; il punto b) corrisponde a grandi linee alla componente cognitiva, ossia al valore positivo della giustizia sociale in funzione dell’efficienza economica; i punti c) e d) infine corrispondono perfettamente alla componente istituzionale, ossia al ruolo centrale del negoziato, del dialogo, nei rapporti fra governo e parti sociali. Quest’ultimo aspetto costituisce un elemento di oggettiva, grande vicinanza fra Colombo, Regini ed Hemerijck, tanto più che lo stesso Regini, in un successivo studio del 2012 dedicato alla politica del lavoro su scala internazionale, ha parlato esplicitamente di un modello di regolazione del lavoro squisitamente eu- ropeo, nettamente contrapposto a quello americano:

La soluzione prevalente in Europa è stata quella che, a partire da Dahrendorf (1959), è stata definita della «i- stituzionalizzazione del conflitto di classe». Questa soluzione, pienamente congruente con altri ingredienti fon- damentali del «modello sociale europeo», quali un regime di welfare generoso e tendenzialmente universalistico, si è basata su istituzioni delle relazioni industriali capaci di depotenziare il conflitto distributivo, convogliandolo in un’azione collettiva regolata che produce esiti negoziali controllati [Regini 2012: 78].

Uno Stato solido, che mette la sua forza al servizio dell’ideale della giustizia sociale, in base alla convin- zione diffusa secondo cui ciò non ostacola l’efficienza economica, ma anzi la promuove; uno Stato che cerca di realizzare questo ideale (o quanto meno di avvicinarsi ad esso il più possibile) tramite una politica sociale ed economica caratterizzata dal dialogo con le parti sociali: questa sembra essere in ultima analisi l’essenza del modello sociale europeo per molti sociologi. Fra di essi è forse possibile annoverare anche Marco Ricce- ri, che in un articolo del 2012 ha offerto una sua definizione39, anch’essa chiara e semplice, del concetto di “modello sociale europeo”, molto vicina a quelle di Hemerijck e di Colombo e Regini, in quanto ancora una

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In quello stesso anno anche Ugo Ascoli ed Emmanuele Pavolini si sono pronunciati sul modello sociale europeo, senza tuttavia fornire una propria definizione, ma collegandolo al paradigma dell’investimento sociale e ad altri due concetti che hanno segnato l’evoluzione del welfare negli ultimi 20 anni in Europa: il retrenchment, ossia una politica fatta di interventi tesi a far diminuire la copertura pubblica della spesa sociale, e la “ricalibratura”, ossia «quei cambiamenti che hanno tentato di trasformare e di adattare il welfare alle mutate esigenze degli individui e delle famiglie, così come dell’economia post-fordista europea […]. All’interno di que- sta riflessione sulla ricalibratura ha preso forma l’idea di un welfare come forma di “investimento sociale” […]» [Ascoli, Pavolini 2012: 435]. Dal momento che, per vari motivi attinenti alle modalità di attuazione delle politche sociali, retrenchment e ricalibratura sono difficilmente distinguibili nella concreta attuazione delle politiche sociali, Ascoli e Pavolini rilevano che è difficile interpretare in maniera univoca i contenuti esatti del modello sociale europeo: «Dalla difficoltà di distinguere il retrenchment dalla ricalibratura deriva anche la varietà di interpretazioni in merito alla direzione presa dal modello sociale europeo: da quelle più pessimiste che par- lano di privatizzazione strisciante (ad esempio Streeck e Thelen 2005) a quelle in parte più ottimiste, che vedono spazi di potenziale innovazione e miglioramento nei mutamenti in corso (ad eempio Hemerijk 2012)» [ivi: 436].

volta il principio della concertazione, della collaborazione, della ricerca dell’accordo fra i vari gruppi sociali e portatori di interessi o stakeholders, sembra esserne un elemento costitutivo primario:

Il modello sociale europeo può essere dunque definito come un vero e proprio modello di sviluppo, quasi un sistema di sistemi che unifica in un comune sentire e orientamento le diverse esperienze nazionali. Esso può es- sere interpretato con criteri diversi che fanno riferimento, per esempio: al patrimonio di valori comuni; all’insieme di istituzioni, norme e regole che governano le politiche sociali; alle idee orientative e progetti attua-

tivi finalizzati alla modernizzazione dei sistemi di welfare. In ogni caso, il modello sociale europeo, si caratteriz-

za per la presenza in ogni stato europeo membro della UE: a) di una forte entità statale democratica attiva nella promozione di politiche di sviluppo, secondo il principio della sostenibilità economica, sociale, ambientale; b) del rispetto dell’autonomia della società civile e nella collaborazione con le sue strutture organizzate, secondo il principio della sussidiarietà; c) di un forte impegno di spesa pubblica come quota parte della ricchezza nazionale destinata alla promozione sociale (una media europea mantenuta costante al 27% del PIL, anche nei periodi di forte crisi, come l’attuale) [Ricceri 2012: 25].

Se dunque Streeck, Hemerijck, Colombo e Regini si soffermavano particolarmente sulla politica econo- mica, e parlavano di «parti sociali» alludendo presumibilmente in prima istanza ai sindacati, Ricceri parla in- vece di «società civile» in senso più ampio, alludendo anche al Terzo Settore, ed accostando esplicitamente il concetto già considerato di “sussidiarietà” al concetto di modello sociale europeo. Secondo Ricceri infatti le Chiese e le confessioni religiose, in particolare la Chiesa cattolica, hanno giocato e stanno tuttora giocando un ruolo di primo piano nel promuovere e consolidare tale modello in molte maniere. Anzitutto esse hanno fornito un «sostegno convinto e fattivo al processo di integrazione sulla base del convincimento che la co- struzione di una “casa comune europea” fosse la via più idonea per perseguire il “bene comune” del conti- nente e, come ultimo termine, il “bene del cittadino europeo”» [ivi: 25-26]. In secondo luogo, le Chiese nella storia hanno garantito un apporto alla definizione dei principi costitutivi dell’Unione, in particolare il suddet- to principio di sussidiarietà (menzionato nell’articolo 5 del trattato di Lisbona): uno dei canali di propagazio- ne di questo principio sarebbe consistito, secondo Ricceri, nelle encicliche papali dedicate alla “questione sociale” a partire dalla fine del XIX secolo, che avrebbero esercitato un influsso rilevante su una parte della classe politica europea, unitamente alle iniziative promosse dalle varie Chiese nazionali in conformità ad es- se [ivi: 27-28]. In terzo luogo le Chiese avrebbero costantemente promosso un modello di sviluppo sociale ed economico fondato sui principi etici cristiani, concretizzatosi in particolare nel sostegno alla crescita del Ter- zo Settore: «Quanto alle realizzazioni concrete, non vi è dubbio che il grande sviluppo della cosiddetta eco- nomia del terzo settore, dell’economia non-profit, sempre più diffusa in tutta Europa, debba non poco al con- tinuo impulso delle Chiese cristiane» [ivi: 31]. In merito a quest’ultimo aspetto, Ricceri sottolinea in partico- lare il contributo del Terzo Settore di ispirazione religiosa al sistema di welfare europeo, in base appunto al principio di sussidiarietà:

A causa della difficoltà della crisi, che obbliga tutti i paesi europei ad affrontare profonde riforme del sistema di welfare, molti servizi, per esempio nel settore sanitario, in base al principio della sussidiarietà, potrebbero es- sere forniti da organizzazioni della società civile, incluse quelle del volontariato, a costi inferiori. È questo un grande ambito di azione delle associazioni cristiane che si collega, appunto secondo la sussidiarietà, a una diver- sa impostazione dell’interventismo dello Stato nei servizi sociali [ivi: 31-32].

Nel prossimo capitolo il Terzo Settore ed il suo contributo al welfare verranno considerati più analitica- mente, e si avrà modo di osservare come talune organizzazioni di ispirazione religiosa svolgano un ruolo a- nalogo e concorrenziale a quello della Croce Rossa in molti Paesi. Prima di compiere un tale passo, tuttavia, è opportuno esplorare più approfonditamente un secondo concetto, fortemente connesso al modello sociale europeo e ricco di implicazioni concrete per il ruolo del Terzo Settore nella politica sociale: il paradigma