3. Welfare, Terzo Settore e welfare society
3.1. La riflessione dei sociologi su welfare e Terzo Settore
Nel corso degli anni ‘80 i sociologi, in parallelo rispetto alla riflessione sul welfare state, avviarono anche lo studio teorico ed empirico del Terzo Settore, che in quello stesso periodo, ed in tutto l’Occidente democra- tico, stava sperimentando una forte crescita, proseguita con alterne vicende fino ai giorni nostri. Nell’ambito della categoria, i sociologi italiani si distinguevano ancora una volta per la netta divergenza di opinioni esi- stente fra loro in proposito. Per la precisione, i pionieri dello studio del Terzo Settore furono indubbiamente Achille Ardigò e Pierpaolo Donati: come osservano Andrea Bassi e Sandro Stanzani, infatti, «in sociologia, il terreno è stato dissodato – e il dibattito acceso – da lavori come quelli di Ardigò (1981) e Donati (1978) che, negli anni Ottanta, hanno introdotto termini come privato sociale e terza dimensione» [Bassi, Stanzani 2012: 120]. Ad essi si contrapposero Ugo Ascoli e Massimo Paci, che intervennero in questo campo di studi alcuni anni dopo: la loro divergenza riguardava principalmente il rapporto fra istituzioni pubbliche e Terzo Settore.
3.1.1. I pionieri: Ardigò, Donati, Ascoli e Paci
Achille Ardigò, ad esempio, era favorevole al principio universalistico quale base del welfare state: egli stesso si era personalmente battuto per tale principio, sostenendo in particolare la legge 833 del 1978, che
anche in seguito non avrebbe mai rinnegato45. Tuttavia, all’inizio degli anni ‘80, aveva percepito la crisi del welfare state seguita al termine dei “trenta gloriosi”46, analizzandone ed esponendone le cause, sia in rappor- to alla situazione internazionale sia in rapporto a quella italiana, più peculiare. Senza addentrarsi in una di- samina di tali cause, che esulerebbe dai contenuti del presente lavoro, si può osservare come egli notasse la gravità di fattori quali l’esplosione della spesa pubblica, non corrispondente al grado di efficacia e di effi- cienza raggiunto complessivamente dai servizi pubblici, il persistere di discriminazioni nel trattamento dei cittadini, sia a livello territoriale sia a livello sociale, l’eccesso di burocrazia e di autoreferenzialità degli ap- parati amministrativi e la connessa alienazione dei cittadini utenti [Ardigò 1982: 42-46, 48-49]. Ciò aveva comportato, a partire dalla fine degli anni Settanta, un risveglio della società civile, delle iniziative associa- zionistiche e delle forme di aggregazione, il cui scopo ultimo era partecipare al processo decisionale e alla gestione dei servizi sociali. Ardigò interpretava questa tendenza come una «aspirazione a passare dal Welfare State alla Welfare society […]» [ivi: 50], ossia «una società che riconosca spazi solidaristici non alienati an- che nell’assistenza e nei servizi socio-sanitari» [ivi: 53], e vi ravvisava un’analogia con la lotta del liberali- smo ottocentesco contro le strutture coercitive dello Stato assoluto [ivi: 35-37, 51]. Il suo giudizio comples- sivo su tale tendenza era positivo:
E’ comprensibile allora che emergano, o riemergano, anche accolti in recenti riforme amministrative e legi- slative, orientamenti a favorire l’associazione volontaria, la mutualità, la partecipazione degli utenti e in genere dei cittadini alla gestione di singoli servizi pubblici, la sperimentazione di forme d’autogestione per singoli ser- vizi, la rivalutazione del ruolo del medico di famiglia, delle comunità di base, della famiglia aperta come model- lo di autogoverno nel welfare di autoeducazione sociale e sanitaria anche per la de-ospedalizzazione, ecc. [ivi: 54].
Con ogni evidenza Ardigò alludeva al Terzo Settore, ed anche in seguito egli avrebbe coerentemente ri- vendicato il ruolo positivo di quest’ultimo nell’attenuare, ed anche nel superare, la crisi del welfare state [Monteduro 2015].
Anche Pierpaolo Donati, fin dall’inizio di quel decennio, vedeva nel Terzo Settore la chiave di volta di una delle possibili soluzioni della crisi del welfare state, accanto alle altre due opzioni, opposte fra loro, di un rafforzamento delle strutture pubbliche (in chiave tecnocratica) e del loro smantellamento, che parimenti ve- nivano propugnate in quegli anni:
Un orientamento di mediazione transazionale, certo il più arduo, che da un lato ridimensiona le macrostruttu- re dello stato amministratore e dall’altra fa appello a nuove forme di organizzazione basate su quelle che altrove ho denominato le sfere del “privato sociale” […] con transazioni fra pubblico (statuale) e privato (in senso stret- to) più bilanciate dalla parte delle autonomie ed esperienze associative, fuori quindi sia dalle egemonia burocra- tica che da quella mercantile di dominio dello scambio economico e politico [Donati 1982: 98].
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Ciò risulta ad esempio dal suo lavoro come consigliere presso il CNEL, in cui si batté per riformare il Servizio Sanitario Na- zionale senza abrogare la legge 833, che egli considerava un’imprescindibile conquista di civiltà, in coerente attuazione dei principi della Costituzione [Fabbri 2016: 29-30, 36].
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La definizione, come è noto, è stata coniata dall’eclettico accademico e grand commis francese Jean Fourastié, che ne ha fatto il titolo di una sua monografia [Fourastié 1979].
Donati riconduceva tale opzione alla teoria dello stesso Ardigò (così come le precedenti opzioni alle teo- rie di Niklas Luhmann e di Robert Nozick) [ibidem], ma esplicitamente riconosceva a sua volta la validità del Terzo Settore quale fattore risolutivo della crisi del welfare state:
Ebbene il “privato sociale” deve essere inteso come meccanismo che va al cuore della crisi del W.S. […]. Il privato sociale deve essere inteso come quel meccanismo di mediazione che da un lato commisura e modera le aspettative dei privati verso lo stato (istituzioni pubbliche), e dall’altra controlla il rendiconto dello stato verso i privati, ossia ne verifica costantemente l’azione nel processo stesso di erogazione della spesa sociale [ivi: 102].
Peraltro, Donati si discostava da Ardigò su un punto, ossia il riconoscimento di precedenti storici della mobilitazione del Terzo Settore, o di ciò che altri studiosi definivano in altre maniere:
Si può denominare questo insieme di attività “terzo settore” o “settore cooperativo”, “economia informale” o “economia sommersa”, “settore comunitario” o “settore autonomo” […] a tutti corrisponde una natura di priva-
to-sociale che deve essere intesa non già come sopravvivenza di residui storici, ma piuttosto come il prodotto del
fallimento congiunto del mercato e delle istituzioni pubbliche nell’attuale W.S. [ivi: 101].
La tematica delle radici storiche del Terzo Settore sarebbe riemersa in seguito nel dibattito sociologico, e peraltro è tuttora oggetto di discussione, come si avrà modo di osservare successivamente. In questa sede ba- sti rilevare la differenza di vedute tra i due studiosi, che non ne inficiava la concordanza su alcuni punti fon- damentali: il carattere intrinsecamente universalistico del welfare state, il ruolo primario assunto dallo Stato in esso, la sua crisi, dovuta anche a tale ruolo, e l’importanza del Terzo Settore nella possibile soluzione della crisi stessa.
Diametralmente opposta era, in quegli stessi anni, la tesi di Ugo Ascoli e Massimo Paci: Ascoli in parti- colare osservava anzitutto che «I principali studi empirici sin qui portati a termine sembrano peraltro aver messo in serio dubbio che il Welfare State possa essere ritenuto la principale, o comunque una delle princi- pali cause della crisi economica» [Ascoli 1984: 6], ed in seguito rilevava come, fra gli studiosi, si fosse svi- luppata in quegli stessi anni una tendenza al «recupero analitico del ‘terzo settore’ della protezione sociale, costituito dalle istituzioni solidaristiche e/o volontarie, siano esse “tradizionali” (come la famiglia estesa, la comunità locale, gli ordini religiosi, le corporazioni di mestiere, ecc.) o “moderne” (come la famiglia nuclea- re, le associazioni di mutuo aiuto, il volontariato, ecc...) […]» [ivi: 8-9]. Con ciò, Ascoli riconosceva implici- tamente che almeno una parte del Terzo Settore aveva origini anche molto antiche, laddove invece altre sue componenti erano nate non prima della seconda metà del XIX secolo, oppure erano ancor più recenti: si av- vicinava dunque alla posizione espressa in proposito da Ardigò. Tuttavia, Ascoli tracciava una netta linea di demarcazione rispetto alle concezioni di fondo del sociologo bolognese in merito al Terzo Settore, una linea di demarcazione che connotava chiaramente le rispettive “scuole”, anche in virtù di differenti appartenenze culturali e politiche:
Questo recupero analitico del ‘terzo settore’ viene invocato da più parti ma con intenti diversi: c’è chi vede nella riaffermazione del volontariato e del principio di ‘sussidiarietà’ un modo per recuperare una posizione tra- dizionalmente diffidente verso un eccessivo grado di statalismo e in definitiva per proporre una sorta di ‘neo- spiritualismo sociale’, riconoscendo solo ad alcune comunità autorizzate (individuo, famiglia, chiesa) il compito
di fornire una via d’uscita dalla crisi; c’è chi, invece, partendo da una concezione assai più ampia dell’azione so- lidale che coinvolge anche altre forme di tipo comunitario (vicinato, ‘comuni’, forme nuove di autogestione e di volontariato basate su concezioni diverse dei bisogni e su nuovi ideali di solidarismo) tenta invece di cogliere la possibilità di ridefinire un nuovo mix al cui interno anche l’azione del mercato e l’intervento dello Stato siano profondamente diversi [ivi: 9].
Ascoli precisava ulteriormente il suo pensiero in una successiva monografia del 1987, nella quale rinviava a rilevazioni e studi empirici di colleghi britannici e statunitensi che pure dovevano confrontarsi con una re- altà pesantemente segnata dalle politiche sociali di Margaret Thatcher e Ronald Reagan47: «Da quelle fonti, come da altre opere ancora precedenti […], emergeva una precisa filosofia di collaborazione fra Stato e o.v. [organizzazioni di volontariato], come pure la consapevolezza che mai il Welfare State avrebbe potuto fare a meno di una presenza pubblica forte, centrale e bene organizzata» [Ascoli 1987: 14]. Egli inoltre precisava che con «presenza pubblica» intendeva riferirsi specificamente ad una leva di civil servants ben preparati e dotati di una deontologia che li ponesse al di sopra di ogni rischio di rendersi strumenti di malgoverno e clientelismo: «Solo una burocrazia tecnica pubblica assai forte e autonoma rispetto al potere politico può for- se evitare i rischi della frammentazione, della sovrapposizione e del non coordinamento delle politiche, dell’uso “lottizzato” o della privatizzazione delle risorse pubbliche, come pure di vere e proprie azioni di cor- ruzione […]» [ivi: 16], e concludeva che da tali ricerche sociologiche emergeva «un ruolo prezioso e insosti- tuibile delle o.v. all’interno dei moderni sistemi di Welfare, a patto però che si mantenga la centralità del soggetto pubblico» [ivi: 18].
Ascoli peraltro rimarcava la sua divergenza da Ardigò e da Donati anche su altri piani, non ultimo quello terminologico. Infatti, dopo aver temporaneamente adottato (fra virgolette, ed evidentemente non senza un preciso scopo) il termine “Terzo Settore” nella sua precedente monografia, come osservato, egli passava a criticarne radicalmente l’uso, osservando che «Di “settore” o di “sistema” non si dovrebbe parlare, se non ad un livello molto elevato di astrazione, così come parliamo di “mercato” o di “Stato”» [ivi: 12]. Del pari, egli non riteneva appropriato l’uso di definizioni quali “terza dimensione”, adottata da Ardigò, o “privato socia- le”, adottata da Donati:
Esprimersi in termini di «terza dimensione» significa invece far riferimento ad un termine «equivoco», per- ché utilizzato in chiave soggettiva e con forti connotazioni etiche, ed accomunare inoltre sotto lo stesso ombrello le reti solidaristiche informali (famiglia, parentela, reti amicali e di vicinato) e l’area delle solidarietà associative giuridicamente riconosciute, definite di «privato sociale», la quale si estenderebbe fino a comprendere le asso- ciazioni legalmente costituite, le forme di cooperazione e di mutualità organizzata. Tale operazione ci sembra so- stanzialmente fuorviante: troppo distanti e differenziate risultano le logiche con cui si muovono queste comunità e queste associazioni […] [ivi: 12-13].
Dal canto suo, Ascoli proponeva l’uso del termine “azione volontaria” (già adottato in precedenza da Paci [Paci 1984]), pur esprimendo coerentemente alcune forti riserve connesse, anche in questo caso, alla marcata eterogeneità della realtà sociale di riferimento:
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Occorre peraltro precisare, sulla scorta di quanto in seguito Paul Pierson ha riscontrato in un suo studio, che in quegli anni i
welfare states statunitense e britannico dimostrarono «una capacità di resistenza molto maggiore di quanto ci si sarebbe potuto aspet-
anche qualora restringessimo la nostra attenzione alla sola azione volontaria che si esplica nell’ambito dei si- stemi di Welfare, in realtà verremmo a ricomprendere soggetti che si muovono con finalità e caratteristiche mol- to diverse, la cui indipendenza ed autonomia dal settore pubblico appare sempre meno sostenibile, ed il cui mi- nimo comun denominatore sarebbe una formale estraneità rispetto alla pubblica amministrazione o il non operare secondo motivi di profitto [Ascoli 1987: 12].
Il termine “azione volontaria” è stato quindi adottato da Ascoli, ma soltanto in base al presupposto secon- do cui si tratta di una definizione generica per una realtà estremamente variegata, che può essere efficace- mente studiata solo disaggregandola e «calandosi in ambiti specifici: un conto infatti è analizzare l’azione volontaria nel settore delle politiche culturali o della protezione civile, altro l’occuparsene nell’ambito del comparto socio-sanitario» [ivi: 13].
La concezione di Ascoli, condivisa da Paci e da altri sociologi, costituisce tuttora il punto di riferimento di una corrente di pensiero scientifica che vede nello sviluppo del Terzo Settore un elemento positivo per il consolidamento del welfare, ma a patto che le istituzioni pubbliche mantengano un ruolo guida nelle politi- che sociali, e dunque una preminenza sul mercato e sullo stesso Terzo Settore. In proposito, nel già menzio- nato lavoro del 1999 sulle politiche socio-assistenziali, Ascoli e Pavolini prefigurarono due sviluppi futuri nell’evoluzione del rapporto fra il settore pubblico, il settore privato e il Terzo Settore48
, schierandosi impli- citamente in favore del secondo:
la linea della privatizzazione che ha caratterizzato le politiche socio-assistenziali degli ultimi quindici-venti anni un po’ ovunque in Europa, oltreché aver messo in moto processi importanti di convergenza (nelle politiche verso le organizzazioni di terzo settore, nei mutamenti organizzativi di queste ultime) lascia intravedere due pos- sibili diversi punti di approdo: il modello «unico» americano ad egemonia del privato (commerciale e non pro-
fit), in presenza di un associazionismo (grass-roots) giocato pressoché interamente in azioni di advocacy, o un
modello di welfare mix europeo (di ispirazione «tedesca») imperniato su una fitta trama collaborativa di proget- tazione condivisa fra i soggetti pubblici ed i soggetti del terzo settore, ancora legati alle tensioni della società ci- vile [Ascoli, Pavolini 1999].
In maniera speculare altri scienziati sociali, vicini ad Ardigò, hanno invece rivendicato il diritto del Terzo Settore ad una maggiore autonomia dal controllo statale, enfatizzandone la straordinaria ricchezza e varietà come peculiarità positiva del nostro Paese, forse la maggiore in assoluto nel campo del welfare, quale ideale contraltare rispetto alla peculiarità costituita, in negativo, dal malfunzionamento del nostro welfare state. Ad esempio, già nel 199649, Giovanna Rossi identificava la solidarietà come carattere eminentemente distintivo del Terzo Settore italiano: «Il dibattito teorico italiano tuttavia ha ormai chiaramente puntato il dito sul limite intrinseco della riflessione accreditata in ambito internazionale e cioè il misconoscimento di un fattore che non solo costituisce la chiave per comprendere il fenomeno in Italia, ma che rappresenta anche un elemento discriminante per delimitare con maggiore precisione il tipo di azione che connota il TS in generale: il fattore solidarietà»[Rossi2002:62].La sociologia italiana sembra dunque aver maturato una capacità di analisi e comprensione del Terzo Settore e delle sue peculiarità, sia a livello empirico sia a livello più generale e teo- rico, che si pone all’avanguardia nel panorama della comunità internazionale, dove apparentemente, come si
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Come si può vedere, in questo lavoro Ascoli passa ad utilizzare a sua volta, forse per semplice comodità, il termine “Terzo Set- tore”, abbandonando l’espressione “azione volontaria”.
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Il contributo di Giovanna Rossi qui citato fa parte di un’edizione del 2002 della monografia Sociologia del terzo settore curata da Pierpaolo Donati, ma la prima edizione dell’opera è del 1996.
osserverà, sembra predominare una logica economicistica. In proposito, osservano ancora Bassi e Stanzani, «Nonostante le notevoli differenze disciplinari e di approccio non pare scorretto sostenere che le riflessioni teoriche italiane degli anni novanta hanno trovato una sorta di minimo comun denominatore nell’interpretare il Ts come quella sfera del sociale specializzata nella valorizzazione delle relazioni e del legame sociale» [Bassi, Stanzani 2012: 120].
L’interesse verso il Terzo Settore ha portato quindi non solo ad un fiorire di ricerche empiriche sulle real- tà esistenti nei diversi campi in cui esso esplica la sua attività, ma anche ad un approfondimento delle sue ra- dici storiche, riprendendo il discorso avviato negli anni ‘80 da Ardigò: tali radici sono state dunque ricono- sciute ed accettate da molti studiosi [Colozzi, Bassi 2003: 122], persino al di fuori dell’ambito sociologico o storico. L’economista Stefano Zamagni, ad esempio, pur rifiutando a sua volta la denominazione di “Terzo Settore”, riconosce a questo insieme di realtà sociali un’esistenza plurisecolare, anche sul piano della formu- lazione teorica: lo stesso termine che egli ritiene più appropriato per definire tale insieme, “economia civile”, è stato infatti adottato «recuperando una tradizione di pensiero che risale ad alcuni umanisti italiani del XV secolo (Matteo Palmieri, Leonardo Bruni, S. Bernardino da Siena), e si è sviluppata fino al periodo dell’Illuminismo trovando approfondimenti significativi da parte di autori italiani come Cesare Beccaria, Pie- tro Verri e Antonio Genovesi, oltre che nei ben più noti Adam Ferguson e Adam Smith» [Colozzi, Bassi 2003: 62].
3.1.2. Giovanni Moro: contro il non profit
Tale tesi è stata recentemente criticata in maniera piuttosto decisa e netta (con stile dichiaratamente pole- mico) da Giovanni Moro, secondo cui essa sarebbe eccessivamente temeraria, velatamente nazionalistica e soprattutto funzionalmente inutile per chi voglia studiare le problematiche attuali del Terzo Settore, che lo studioso romano definisce principalmente usando il termine “non profit”: «L’Italia, con le sue radici medie- vali, sarebbe quindi il luogo in cui il non profit è nato. […] Niente da dire, naturalmente, su misericordie e confraternite. Tuttavia, qui stiamo parlando di organizzazioni che sono nate nella stragrande maggioranza dei casi nell’ultimo quarto del XX secolo. Stabilire una continuità con il Medioevo (o con qualunque altro perio- do) è quantomeno temerario […]» [Moro 2014: 70-71]. Egli dunque non nega in se stesse le radici storiche di molte organizzazioni filantropiche e volontarie, arrivando anzi a concordare con chi le rivendica [ivi: 30], ma nega recisamente che tali organizzazioni possano essere considerate una realtà unica ed omogenea insie- me alle realtà nate in tempi molto più recenti e diversissime nelle loro funzioni.
I responsabili di questo forzato accorpamento sarebbero stati, secondo Moro, gli studiosi Lester Salamon ed Helmut Anheier dell’Università Johns Hopkins. Si è fatto un breve cenno a costoro nel primo capitolo: è ora opportuno precisare il loro ruolo nello sviluppo delle ricerche sul Terzo Settore. In breve, come è noto, questi due studiosi hanno acquisito grande fama in qualità di direttori del rinomato Johns Hopkins Compara- tive Nonprofit Sector Project: una grande ricerca comparativa sul Terzo Settore svolta nella prima metà degli
anni ‘90 su 13 Paesi, fra i quali l’Italia [Moro 2014: 18], e culminata nella celebre monografia intitolata The emerging sector. The nonprofit sector in comparative perspective: an overview [Salamon, Anheier 1994], seguita da molte altre nel corso del decennio. Il “torto” dei due studiosi sarebbe consistito nel fatto che, per poter condurre il loro studio comparativo sul Terzo Settore, essi avrebbero considerato organizzazioni estre- mamente differenti per natura, origini, struttura e scopi «per la prima volta come un insieme omogeneo e col- locate sotto la etichetta di “settore non profit” o “terzo settore”. Questa è stata, appunto, una invenzione» [Moro 2014: 30]. Il termine “non profit” sarebbe dunque un’invenzione di Salamon ed Anheier e identifiche- rebbe il criterio-base che per i due studiosi accomuna tutto il Terzo Settore, ossia appunto il fatto di non ge- nerare profitti per gli operatori (non-distribution constraint): secondo Moro si tratta di un criterio inadeguato (soprattutto per la realtà europea), riduttivo e puramente economicistico, che sottintende una concezione di welfare residuale tipicamente statunitense [ivi: 36-39]. Ciò nonostante, tale invenzione concettuale, insieme ai criteri di classificazione utilizzati nello studio, è stata propagandata da Salamon ed Anheier così efficace- mente da essere adottata dalle più svariate istituzioni internazionali, compresa la Divisione Statistica dell’ONU [ivi: 22]: sarebbe stato dunque perpetrato un vero e proprio atto di “colonialismo culturale”.
I due studiosi della Johns Hopkins hanno altresì elaborato un’integrazione della teoria dei tre regimi di welfare state di Esping-Andersen con i risultati da essi conseguiti nei loro studi. In un articolo del 1998 Sa-