2. Il modello sociale europeo e il paradigma dell’investimento sociale
2.2. Il paradigma dell’investimento sociale
Come anticipato, nel corso degli anni ‘90 ebbero inizio l’elaborazione e la diffusione di un nuovo para- digma nell’ambito della sociologia del welfare: l’investimento sociale. Tale processo era collegato ad un più ampio movimento di reazione al paradigma neoliberista, che come è noto aveva fortemente influenzato sia le politiche economiche e sociali (non in tutti i Paesi) sia il dibattito accademico del mondo occidentale nel cor- so degli anni ‘80. Come osserva Maurizio Ferrera, il punto di svolta è da situare all’inizio degli anni ‘90, quando «il clima ideologico iniziò lentamente a cambiare […]» [Ferrera 2013: 7], sia in seno alla classe poli- tica occidentale, ed europea in particolare (ivi comprese le istituzioni comunitarie) [ivi: 13-14, 16-17], sia in seno agli ambienti accademici, in particolare anglo-americani [14-15]:
Pur accettando la sfida della modernizzazione, nel quadro di tali prospettive la riforma del welfare non dove- va essere unicamente ispirata ai criteri dell’efficienza e del contenimento dei costi, ma anche a quelli dell’equità (compresa quella fra i generi), dell’inclusione, della coesione sociale. L’emergere di questo nuovo discorso non fu solo una reazione congiunturale all’egemonia neoliberista, bensì il frutto di una graduale e laboriosa rielabo- razione di altre tradizioni ideologiche europee (come la socialdemocrazia, il liberalismo democratico e sociale e, almeno in una certa misura, il solidarismo cristiano), nonché della crescente influenza culturale del cosiddetto egualitarismo liberale anglosassone, emblematicamente rappresentato da Rawls (1971) [ivi: 8].
La comunità dei sociologi non ha fatto eccezione, ed anzi molti esponenti della disciplina, come è noto, oltre ad abbracciare questa nuova corrente di pensiero hanno anche acquisito un ruolo attivo come consiglieri (o, se si vuole, policy middlemen) della nuova classe politica di “centro-sinistra” a livello mondiale [ivi: 18- 19]. Tuttavia è solo con l’inizio del nuovo millennio che i sociologi del welfare hanno inizato ad analizzare a fondo le concrete conseguenze del nuovo corso sulle politiche sociali e a proporre correttivi per la loro mi- gliore implementazione: emblematici in tal senso sono stati gli studi di un team guidato da Gøsta Esping- Andersen e comprendente Duncan Gallie, Anton Hemerijck40 e John Myles, pubblicati nel volume colletta- neo Why we need a new welfare state, del 2002.
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In questo volume Hemerijck è autore di un capitolo intitolato The self-transformation of the European Social Model(s): si tratta dello stesso lavoro analizzato nel precedente paragrafo (l’autore lo ha ripubblicato sulla rivista «Stato e mercato» in quello stesso an- no, tradotto in italiano).
2.2.1. Investimento sociale: la strada per un nuovo welfare
Come ha scritto più tardi lo stesso Hemerijck, il volume Why we need a new welfare state ha contribuito a dare «more substance» alla «philosophy underpinning the social investment perspective […]», e del resto a tale scopo era stato «commissioned by the Belgian presidency of the EU in 2001 […]» [Hemerijck 2012: 14]: la prefazione all’opera è appunto del belga Frank Vandenbroucke, all’epoca ministro per gli affari socia- li. Il libro non si può tuttavia definire un “manifesto” apologetico e acritico, ed anzi gli autori dimostrano no- tevole equilibrio e prudenza: Esping-Andersen, che di fatto ne è l’anima (è autore di 3 capitoli su 6), precisa fin dall’inizio che nell’opera non viene tracciato il progetto complessivo di un nuovo sistema di welfare, né tanto meno «do we pretend to propose a set of policy panacea that will solve all problems, once and for all» [Esping-Andersen 2002: 6]. Ad esempio, si ammette che manca la trattazione di alcuni comparti importanti del welfare, primo fra tutti la sanità. Tuttavia gli ambiti sui quali il sociologo danese e gli altri autori rifletto- no vengono considerati cruciali nel quadro delle nuove sfide poste al welfare occidentale dalla nuova società globalizzata: per questo motivo tali ambiti e non altri sono oggetto della trattazione, che viene considerata un contributo utile al raggiungimento del duplice scopo di «to outline some of the ingredients that are necessary for a more comprehensive redesign» del welfare europeo, e altresì di «to sound a warning note against some of the sleeping policy formulae that characterize contemporary debate» [ivi: 24].
Indicare quindi le strade giuste e quelle sbagliate per la creazione di un «new and workable welfare model» [ivi: 6] è lo scopo dell’opera, che tratta tematiche fortemente interconnesse e riconducibili, in ultima analisi, allo sviluppo delle potenzialità della persona umana “dalla culla alla tomba”: una buona child care e un sistema di istruzione e formazione di alto livello sono la migliore base per una nuova generazione di cit- tadini europei in grado di inserirsi nel mercato del lavoro del XXI secolo. Al tempo stesso tali misure costi- tuiscono un potente mezzo di alleggerimento dei genitori, e soprattutto delle donne, dalle loro responsabilità, e ciò, unito a misure specificamente dirette a favore delle donne, permette di conciliare famiglia e lavoro con benefici molteplici, primo fra tutti il contrasto al declino demografico. Si insiste poi sulla necessità di garan- tire a lavoratori e lavoratrici una buona vita lavorativa, con forme di flexicurity basate sul mix di adattamento ai bisogni del mercato, formazione e riqualificazione continua e misure forti di protezione sociale; si sottoli- nea infine la necessità di sostenere l’invecchiamento attivo della popolazione anziana, compatibile con l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.
In sintesi per gli autori l’investimento sociale, anche se nel volume non ne viene data una definizione chiara e netta, consiste appunto in una politica sociale improntata a sostenere robustamente la persona in tutte queste fasi della vita, aiutandola a sviluppare le sue potenzialità in ciascuna di essa, sulla base del presuppo- sto, confermato da ricerche empiriche, che tale sostegno produca ricadute positive per la collettività intera. Su questo punto tuttavia Esping-Andersen (e con lui implicitamente gli altri autori) opera alcuni rilevanti di- stinguo: anzitutto ammette che tali cambiamenti sono pensati per fronteggiare sfide nuove e comuni a tutti i Paesi, ma precisa che ogni Paese non può che adattarli al suo vigente regime di welfare, in quanto «The insti- tutional framework of national welfare systems are historically ‘locked in’ and any realistic move towards
common objectives must presume that such, if accepted, will be adapted to national prectice» [ivi: 25]41. In proposito egli ribadisce la sua distinzione fra tre regimi di welfare, ma d’altro canto nella loro esposizione sembra assumere, come di consueto, un atteggiamento più favorevole al regime scandinavo, sul quale espri- me un giudizio quasi acriticamente positivo («No doubt the Scandinavian model is comparatively well posi- tioned to face the exigencies of post-industrial change» [ivi: 14]).
Questa presa di posizione ha due corollari: il primo consiste nel fatto che, a giudizio degli autori, la re- sponsabilità primaria dell’implementazione dell’investimento sociale è e deve essere dello Stato, o più preci- samente del welfare state (da cui il titolo del volume). Esping-Andersen infatti, come già nel 1990, ritiene che la produzione di welfare poggi su tre pilastri, cioè lo Stato stesso, il mercato e la famiglia [ivi: 11], men- tre il ruolo del Terzo Settore viene contemplato solo in una scarna nota a pie’ di pagina (sul cui contenuto molti altri sociologi non concorderebbero, anche se, come vedremo nel capitolo successivo, tocca problema- tiche reali): «The ‘third sector’ is arguably a fourth pillar, but where its role is of decisive importance its fun- ctioning tends to resemble markets or government, all depending on its chief financial underpinnings» [ivi: 12 nota 13].
Il secondo corollario è invece una netta presa di distanza dalla “Terza Via” perseguita dai governi di Tony Blair nel Regno Unito durante il decennio precedente: quest’ultima infatti si è tradotta in una politica sociale fatta di affascinanti annunci e grandi obiettivi, ma anche di «few concrete measures actually introduced […]» [ivi: 4], e in definitiva sarebbe solo «little more than a very belated British discovery of Nordic social demo- cracy», che invece ormai da decenni ha combinato le tradizionali misure di protezione sociale con politiche attive in favore dell’occupabilità dei soggetti [ivi: 5]. A questo proposito anzi gli autori compiono una preci- sazione essenziale, che si traduce in un’ulteriore critica alla Terza Via: «A leading theme in this book, and especially in Chapter 2, is that the min-imization of poverty and income insecurity is a precondition for an effective social investment strategy» [ibidem]. Le tradizionali misure di assistenza sociale, cioè in sintesi i sussidi e le indennità ai bisognosi, non devono quindi essere sostituite, ma piuttosto affiancate dalle nuove misure di investimento sociale, perché anche nel nuovo contesto continuano ad essere utili strumenti di con- trasto alla povertà, al contrario di quanto credono i politici della Terza Via, che su questo punto sembrano fin troppo vicini alle concezioni dei loro avversari neoliberisti [ibidem].
Il volume Why we need a new welfare state ha esercitato una forte influenza sui più recenti sviluppi della sociologia del welfare, spingendo la comunità scientifica a prendere posizione sul tema dell’investimento so- ciale e stimolando quindi la produzione di un nuovo filone di studi e ricerche ad esso dedicati. Uno dei primi fra questi è stato ad esempio un articolo dello stesso Esping-Andersen, significativamente intitolato Le nuove sfide per le politiche sociali del XXI secolo e posteriore di tre anni al volume stesso, particolarmente rilevan- te perché vi viene fornita una delle prime definizioni del concetto di investimento sociale, al tempo stesso chiara ed articolata. Nel testo il sociologo danese esordisce riflettendo nuovamente sulla natura esatta del
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Questa concezione statica dei tre regimi contrasta a mio avviso con quella, più fluida, che Esping-Andersen ne aveva dato ap- pena tre anni prima, quando aveva presentato l’evoluzione del welfare state inglese quale esempio dell’eventualità sempre possibile di un cambio di regime, come si è osservato nel precedente capitolo.
mutamento epocale che la politica sociale dell’Occidente, e dell’Europa in particolare, sta attraversando da alcuni anni:
I nostri sistemi di protezione sociale stanno attraversando un processo di rapida trasformazione, nel quale a mutare radicalmente è in primo luogo l’idea di come un sistema di protezione sociale debba funzionare: da un approccio convenzionale di sostegno passivo del reddito si passa ad uno sempre più fondato sui servizi e sui pro- cessi di «attivazione». Un approccio di questo tipo alla spesa sociale implica la consapevolezza del fatto che una quota crescente di questa spesa sociale avrà inevitabilmente carattere di investimento, nel senso che un interven- to in un dato momento – in servizi sociali e in attività di attivazione – può comportare dividendi nel lungo perio- do per gli individui e per la società nel suo complesso. La sfida consiste nel distinguere la spesa per investimenti
sociali dalla spesa per consumi sociali. Su questa sfida, come vedremo, il fattore «donne» assume un peso cen-
trale [Esping-Andersen 2005: 183].
Esping-Andersen dunque ribadise che una delle forme concrete in cui l’investimento sociale può declinar- si con maggior vantaggio per il benessere generale consiste nel garantire alle donne la conciliazione fra lavo- ro e maternità [ivi: 190]. Ciò infatti, egli argomenta, pone le famiglie maggiormente al riparo dal rischio del- la povertà [ivi: 190], garantisce l’incremento demografico [ivi: 196], garantisce a figli e figlie una crescita più equilibrata e robusta dal punto di vista sia cognitivo sia motivazionale [ivi: 186, 189], diminuisce la disu- guaglianza sociale [ivi: 196-197], «rappresenta, di per sé, un importante moltiplicatore di lavoro nell’economia dei servizi» [ivi: 197] e, last but not least, garantisce allo Stato maggiori entrate fiscali che ri- pagano pienamente la spesa (o meglio l’investimento) sostenuta nell’erogazione di servizi pubblici per l’infanzia, ossia lo strumento principe della conciliazione anzidetta [ivi: 194]. In proposito infatti Esping- Andersen è molto netto: il miglior erogatore di tali servizi sociali è il soggetto pubblico, l’unico che possa garantire prezzi accessibili a tutte le coppie [ivi: 204]. Questa tesi viene sostenuta da un’accurata simulazione dei costi e dei benefici del sostegno pubblico garantito ad una madre lavoratrice tramite l’erogazione di ser- vizi di cura [ivi: 203], basata tuttavia sul caso della Danimarca in quanto «La Danimarca rappresenta proba- bilmente il miglior riferimento possibile, poiché offre di fatto servizi a prezzi accessibili a tutte le famiglie» [ivi: 202]. In proposito è anzi significativo che il sociologo danese rimarchi più volte la superiorità del suo Paese, e della Scandinavia in generale, per quanto attiene a questo genere di servizi sociali [ivi: 199-200], sottolineando invece altrettanto fortemente la precaria situazione italiana42: «Maternità e partecipazione al mercato del lavoro sono tuttavia difficilmente conciliabili, in particolare in paesi come l’Italia, dove l’offerta di servizi di cura di qualità a costi sostenibili per una famiglia è scarsa e dove la precarietà occupazionale si concentra soprattutto tra le donne» [ivi: 195]. È quasi superfluo osservare che i rilievi di Esping-Andersen sono fortemente giustificati (nel 2005 come oggigiorno), ma occorre anche aggiungere che egli non prende in considerazione il contributo che il Terzo Settore ha dato e sta dando in questo campo, sia nel nostro sia in altri Paesi. Egli infatti non nomina mai le organizzazioni non profit, evidentemente non ritenendole soggetti capaci di affiancare l’azione dello Stato nell’alleggerimento dei carichi delle madri lavoratrici: «In termini
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Alcuni anni dopo Chiara Saraceno ha espresso in proposito un giudizio parzialmente differente: la sociologa infatti riconosce che «Il sostegno pubblico copre larga parte dei bisogni di cura quotidiani dei bambini fino a 3 anni tramite congedi adeguatamente compensati e/o una offerta di servizi sufficiente solo in Danimarca […]», mentre in Polonia, Grecia, Spagna, Italia, Irlanda e Porto- gallo «la cura dei bambini piccoli è lasciata in larga misura alle risorse della famiglia» [Saraceno 2009: 12]. D’altro canto però Sara- ceno rileva che «i tassi di copertura da parte dei servizi per l’infanzia, in particolare per i bambini tra gli 0 e i 3 anni sono molto di-
semplici, il nostro “pacchetto” complessivo di welfare deriva da tre fonti: il governo, il mercato, la famiglia» [ivi: 191]. Si tratta certamente di una posizione condivisibile, ma solo a patto che se ne illustrino le ragioni, tanto più se si considera che Esping-Andersen utilizza nel suo studio un buon numero di contributi scientifici di sociologi italiani [ivi: 205-206].
Il sociologo danese nel 2005 era dunque ragionevolmente ottimista sulle prospettive della nuova politica sociale basata sul social investment, purché tale paradigma si declinasse in primo luogo nella maniera anzi- detta. Egli tuttavia esprimeva anche alcune riserve sulla capacità dimostrata fino a quel momento dagli scienziati sociali nel determinare accuratamente la natura delle nuove politiche [ivi: 193], ossia nel distingue- re «le spese sociali che hanno le caratteristiche di un investimento dalle spese sociali orientate ai consumi» [ivi: 192], ma soprattutto, nelle sue conclusioni esprimeva forti riserve sull’effettiva volontà della classe poli- tica europea di implementarle, al di là degli slogan di facciata: «In buona misura, tuttavia, i governi hanno una visione miope del bilancio pubblico, poiché restano legati ad un sistema contabile che rappresenta il pas- sato del welfare state» [ivi: 205].
2.2.2. I sociologi italiani e l’investimento sociale
Un ragionevole ottimismo è stato espresso l’anno successivo anche dal sociologo italiano Gianluca Busi- lacchi, in un contributo che ha molti punti di contatto sostanziali con quelli di Hemerijck e di Esping- Andersen circa l’avvio di un cambiamento radicale del welfare state, addirittura «una vera e propria trasfor- mazione “paradigmatica” […]» [Busilacchi 2006: 91], per quanto la terminologia usata sia leggermente di- versa:
In particolare, nell’ultimo decennio sono cambiati in modo significativo alcuni principi di fondo alla base delle politiche di welfare e l’enfasi dell’intervento statale si è spostata su misure di attivazione del beneficiario, che consentono alle politiche sociali di massimizzare la loro efficienza con una discreta riduzione dei costi. Ma alla base del principio di attivazione non c’è solo l’aspetto della riduzione della spesa: […]. L’attenzione a sti- molare la responsabilità individuale di tali soggetti da un lato, e le possibilità di una loro autorealizzazione dall’altro, si pongono dunque come le caratteristiche principali di questo nuovo meccanismo che è stato definito
active welfare state […] [ivi: 99-100].
Busilacchi certamente concorda anche sul fatto che il processo di integrazione europea abbia fornito uno stimolo alla diffusione di questa nuova tipologia di welfare state, esplicitamente citato fra le conclusioni del summit di Lisbona [ivi: 100] e in quanto parte integrante del già menzionato «modello sociale europeo» [ivi: 110], ma d’altro canto osserva che «il contesto socio-economico e di politica sociale in cui la nuova filosofia del welfare attivo viene calata influisce notevolmente nel modellarne le caratteristiche principali […]» [ivi: 102-103]. Il contesto di applicazione dell’active welfare state è dunque fondamentale nel determinarne la concreta fisionomia nei singoli casi, come Busilacchi ripete più volte [ivi: 104, 107, 122], e ciò anche in con- siderazione del fatto che esso non è la panacea di tutti i mali sociali: «l’esperienza nordica sulle politiche at-
versi in Europa e solo in parte questa diversità corrisponde a quella nel tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro. C’è
tive ha infatti insegnato che le misure di inserimento hanno una piena efficacia per un terzo dei beneficiari, un effetto parziale per un altro terzo e nessun effetto per gli altri […]» [ivi: 102]. Su questo punto dunque Busilacchi mostra una ragionevole prudenza, asserendo che «In realtà, le nuove politiche di attivazione, più che rimpiazzare le tradizionali prestazioni monetarie, dovrebbero affiancarsi ad esse potenziandone gli effet- ti, non solo dal punto di vista dell’efficacia, ma anche in termini di benessere dei beneficiari […]» [ibidem]. In altre parole, il “nuovo” welfare state può dunque funzionare bene soprattutto laddove già funzionava bene il “vecchio”, e non senza assumere connotati influenzati da esso: nei paesi anglosassoni quindi, osserva Busi- lacchi, a causa dell’imperante cultura neoliberista esso «assumerà piuttosto la fisionomia efficientista del workfare […]» [ivi: 103], che esige dai beneficiari delle prestazioni una «controprestazione» sotto forma di disponibilità pronta e rapida a rientrare nel mercato del lavoro [ivi: 111], mentre «laddove è maggiormente radicata l’attenzione alla solidarietà sociale e ad un approccio universalistico – come nei paesi scandinavi – il welfare attivo avrà una funzione di investimento sociale orientata allo sviluppo umano […]» [ibidem].
Busilacchi ritiene dunque che solo laddove il welfare state vanti una lunga e consolidata tradizione uni- versalistica, che ne innerva l’identità, esso possa assumere la veste dell’investimento sociale, una volta che su di esso venga innestato il nuovo paradigma dell’attivazione. Al contrario i quattro Paesi dell’Europa medi- terranea, ossia Grecia, Italia, Spagna e Portogallo, sono assai lontani da raggiungere questo traguardo: «Que- sto gruppo di paesi spende inoltre molto poco per le politiche più innovative, anche perché è in ritardo pure sulle politiche più tradizionali (si pensi all’assenza in alcuni di essi dei sistemi di reddito minimo) e ciò si ri- flette in una scarsa progettualità sui temi più avanzati» [ivi: 119]. Busilacchi del resto non nasconde le diffi- coltà che comporta l’implementazione di questa nuova tipologia di welfare state: a parte il cambio di menta- lità, di filosofia e di orientamento valoriale di fondo (cioè appunto un cambio di paradigma), e a parte l’aspetto economico («Il nuovo active welfare state, quindi, non è necessariamente più costoso del welfare tradizionale […]»), il problema è soprattutto organizzativo e relativo al know-how degli operatori, nonché al tessuto sociale su cui si deve agire: «La difficoltà aggiuntiva è che ciò richiede una maggiore attenzione alle modalità di erogazione dei servizi, come la preparazione degli operatori e l’esistenza di un sistema sociale integrato, adatto ad essere terreno su cui offrire una risposta complessa (un tessuto di associazionismo, pre- senza di capitale sociale ecc.)» [ivi: 110]. Si può dunque notare qui l’unica, fugace menzione del Terzo Set- tore (o meglio di una sua componente) e del contributo che può dare all’implementazione dell’active welfare state: tuttavia, non si può non rilevare che anche per Busilacchi, come per i suoi colleghi nordici, l’attore principale di questa nuova politica sociale è e resta lo Stato, chiamato in conclusione a cogliere l’opportunità offerta dal nuovo paradigma, che il sociologo italiano, nonostante le riserve espresse, considera una concreta opportunità per coniugare «efficienza ed equità […]» nell’attuazione delle sue politiche sociali [ivi: 123].
Il punto toccato da Busilacchi circa i meriti del “vecchio” welfare state nella sua declinazione universali- stica è riemerso successivamente nelle riflessioni di altri sociologi italiani, peraltro non critici nei confronti