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5. La storia della CRI nel quadro dello sviluppo del welfare state italiano

5.2. La CRI dalla Grande Guerra al Fascismo

Anche la Grande Guerra viene considerata in maniera differente dagli studiosi in merito al suo ruolo nel condizionare lo sviluppo del welfare state italiano. Paci non ne fa menzione, mentre Ferrera asserisce, piutto- sto superficialmente, che «gli anni di guerra imposero (in tutta Europa) una pausa all’evoluzione previden- ziale […]» [Ferrera 1984: 32]. Al contrario, Colozzi osserva giustamente che «Con la guerra, specie dopo la disfatta di Caporetto, sembra invece affermarsi un nuovo orientamento favorevole all’attuazione di misure di W.S.», ed aggiunge che «Ciò conferma la tesi secondo cui storicamente c’è un rapporto costante fra espan- sione del W.S. e stato di guerra» [Colozzi 1982: 305]. Tale tesi viene fatta risalire da Colozzi allo storico bri- tannico Asa Briggs, che la formulò nel suo articolo The Welfare State in Historical Perspective [Briggs 1961], ma in effetti anche Richard Titmuss, nel suo saggio del 1955 Guerra e politica sociale92, aveva osser- vato una «tendenza del tempo di guerra verso l’universalizzazione della soddisfazione di certi bisogni essen- ziali […]» [Titmuss 1986: 84]. Titmuss si riferiva naturalmente al secondo conflitto mondiale, ma la storica Giovanna Procacci, nella sua recente monografia Warfare-welfare. Intervento dello Stato e diritti dei cittadi- ni (1914-1918), ne ha dimostrato la validità anche in relazione alla Grande Guerra93 [Procacci 2013: 46], sebbene in misura diversa da Stato a Stato a seconda delle scelte politiche delle rispettive classi dirigenti. In Gran Bretagna infatti l’establishment scelse di equilibrare le risorse destinate alle necessità militari e quelle destinate alla popolazione civile, a cui non mancarono né approvvigionamento alimentare né assistenza so- ciale e sanitaria, tanto che le aspettative di vita delle classi inferiori addirittura migliorarono [ivi: 48]; vice- versa, «dove – come in Germania e in Italia – gli investimenti furono rivolti eminentemente a favore dell’apparato militare […] le difficoltà materiali della popolazione civile risultarono più marcate, con eviden- ti ripercussioni sulla resistenza del paese» [ivi: 47].

Più precisamente, in Italia l’allora Presidente del Consiglio Antonio Salandra, avversario politico di Gio- litti e tenace assertore del ritorno ad una politica sociale basata sul laissez faire, rifiutò coscientemente di far assumere allo Stato un ruolo rilevante e diretto nella gestione dell’assistenza, affidata «agli enti privati – ope- re pie, società di mutuo soccorso, cooperative, associazioni patriottiche e benefiche […]» [ivi: 57], mentre al contrario non pose obiezioni all’aumento di potere delle autorità militari; egli peraltro era coadiuvato dal Mi- nistro degli Esteri Sidney Sonnino, che ne condivideva appieno la linea politica. Solo dopo le dimissioni di Salandra, e soprattutto dopo Caporetto, venne istituito un nuovo governo presieduto da Vittorio Emanuele

PIL nel 1900 al 14,7% nel 1913 […]» [Ferrera 1984: 30-31]. In proposito si veda anche Procacci, che tuttavia sottolinea la limitatez- za di questi provvedimenti [2013: 34-35]

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Lo scritto di Titmuss in questione è stato raccolto insieme ad altri nella sua celebre miscellanea Saggi sul «Welfare State» [1986].

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La tesi in effetti sembra essere ormai largamente condivisa da storici, sociologi e politologi: si considerino infatti anche Jytte Klausen, autrice dello studio monografico War and Welfare [2001] (la prima edizione è del 1998), nonché della stessa espressione

Orlando, in cui il democratico Francesco Saverio Nitti aveva un ruolo preminente, e si inaugurò «purtroppo spesso con ritardo – una politica razionalizzatrice» [ivi: 55]. Fu così che vennero istituiti nuovi enti pubblici e Ministeri per gestire ed erogare l’assistenza sociale in maniera uniforme sul territorio nazionale94

, alcuni organismi preposti alla tutela dei lavoratori industriali (dalla scarsa efficacia) [ivi: 63-64] e soprattutto alcuni interventi legislativi che ampliarono le categorie di lavoratori coperte da assicurazione obbligatoria95.

In questo contesto, l’azione assistenziale della CRI assunse dimensioni assolutamente inedite, sia per il numero di persone mobilitate, sia per la quantità delle risorse in materiali e denaro che vennero investite, sia per la qualità e l’intensità dell’impegno profuso, che si tradusse fra l’altro nella perdita di numerose vite u- mane. Le cifre delle pubblicazioni ufficiali della stessa CRI dimostrano che l’entità dello sforzo fu notevole, tanto da integrare proficuamente l’opera della Sanità Militare propriamente detta96

. In proposito, non è inop- portuno aggiungere che dopo la guerra la qualità della preparazione e della dotazione del personale medico della suddetta Sanità Militare fu aspramente criticata al cospetto di una Commissione parlamentare da due testimoni d’eccezione: il «deputato Pietro Borromeo, professore universitario prestato all’Ospedale militare del Celio» e «il senatore Alessandro Lustig, responsabile della clinica di patologia generale dell’università di Firenze e al fronte per oltre tre anni» [Bartoloni 2002: 345]. La CRI riuscì dunque a supplire all’insufficienza quantitativa e qualitativa degli apparati assistenziali statali per tutti i tre anni e mezzo di durata della guerra, costituendo la salvezza per decine di migliaia di soldati feriti e malati e sopportando la perdita di ben 448 vi- te umane, fra morti e dispersi (la stragrande maggioranza dei morti fu in verità dovuta a malattie, e non a fatti d’armi) [Croce Rossa Italiana Comitato Centrale 1920: 10-11].

Tuttavia il suo intervento non si limitò alle sole truppe combattenti. Infatti occorre anche considerare i soccorsi prestati dalla Commissione Prigionieri, presieduta dal Senatore Giuseppe Frascara, in favore dei 600.000 prigionieri di guerra italiani internati in campi di concentramento in Austria-Ungheria e, dopo Capo- retto, in Germania. È stato infatti dimostrato che la loro prigionia fu resa particolarmente dura dalla decisione della classe dirigente politica e militare di non rifornirli di viveri e di vestiario, pur nella consapevolezza del fatto che gli Imperi Centrali, a causa del blocco navale alleato, non potevano nutrire convenientemente né la loro popolazione né le loro truppe, e quindi neppure i prigionieri affidati alla loro custodia, nonostante ciò fosse prescritto dall’articolo 7 della Convenzione dell’Aja del 1907, da essi sottoscritta [Procacci 2000: 177]. Le autorità italiane erano del resto anche a conoscenza della scelta opposta compiuta dai governi inglese e francese, i quali, a partire dalla primavera del 1916, avevano accettato di nutrire a proprie spese i loro prigio-

«from warfare to welfare», e Gianni Silei, che ha osservato come «Il primo conflitto mondiale, come del resto il secondo, rappresentò uno straordinario acceleratore dell’interventismo statale in campo sociale […]» [Silei 2012: 129].

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Si trattò, nell’ordine, del Comitato nazionale per la protezione e l’assistenza degli orfani di guerra, dell’Opera Nazionale per gli Invalidi di Guerra, del Ministero per l’Assistenza militare e le Pensioni di guerra, dell’Opera Nazionale Combattenti e del Ministero per l’Assistenza Civile, tutti creati a partire dall’agosto del 1916, e cioè dopo le dimissioni di Salandra [Procacci 2013: 58].

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Si trattò per la precisione di due decreti legislativi, entrambi promulgati nel 1917: il primo per l’assicurazione obbligatoria di tutti i lavoratori agricoli contro gli infortuni, e il secondo per l’iscrizione obbligatoria alla Cassa nazionale di previdenza invalidità e vecchiaia di tutti i lavoratori di ambo i sessi occupati preso stabilimenti ausiliari. Un terzo decreto istituì un fondo speciale contro la disoccupazione involontaria [ivi: 65-67].

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La pubblicazione ufficiale L’opera della Croce Rossa Italiana nella guerra 1915-1918 menziona, nell’ordine: 1.205.754 mala- ti e feriti ospitalizzati; 21.262.601 giornate di degenza; 1.975.477 cure ambulatorie; 4.365.000 infermi trasportati; la mobilitazione di 3.487 ufficiali (medici, farmacisti, amministrativi), 349 cappellani, 8.400 infermiere, 14.650 sottufficiali e militi e 4.122 borghesi aggregati, con una spesa di 51 milioni di lire dell’epoca solo per il funzionamento degli ospedali [Croce Rossa Italiana Comitato Centrale 1920: 17].

nieri ed anche quelli dei numerosi Stati alleati (russi, serbi, rumeni, montenegrini, belgi), inviando convogli speciali di derrate sotto la scorta di rappresentanti di Stati neutrali che i tedeschi rispettavano scrupolosamen- te [ivi: 179-180]. Si può dunque concludere che la scelta delle autorità italiane fu deliberatamente punitiva verso i soldati arresisi, e fu altresì finalizzata a scoraggiare le diserzioni nelle unità combattenti, alle quali si faceva invece credere che le condizioni di prigionia dei loro commilitoni fossero dovute al sadismo e alla crudeltà del nemico. In proposito Giovanna Procacci asserisce categoricamente che «La morte in massa dei soldati prigionieri fu provocata, e addirittura in larga parte voluta, dal governo italiano, e soprattutto dal CS [Comando Supremo del Regio Esercito]» [ivi: 174-175].

La Commissione Prigionieri della CRI ebbe dunque un ruolo fondamentale, poiché, a fronte del volonta- rio disimpegno dello Stato, «fu infatti costretta a dilatare enormemente le proprie funzioni […]», divenendo di fatto «il punto di riferimento del rapporto tra prigionieri e madrepatria» [ivi: 185-186]. L’imperativo della salvaguardia della sopravvivenza dei prigionieri portò infatti la Commissione, ed in particolare Frascara, ad assumersi fin dall’aprile del 1916 l’onere di esercitare molteplici pressioni, purtroppo insufficienti, affinché il governo italiano seguisse l’esempio anglo-francese, arrivando talvolta a scontri anche duri con le autorità militari e civili, o più precisamente con Sonnino, che rimase Ministro degli Esteri per tutto il conflitto e si oppose sempre a questa soluzione [ivi: 198-199, 202-203, 208-209, 217-219]. Questo aspetto dell’operato della CRI merita di essere sottolineato, perché di fatto la pose davanti al difficile compito di conciliare la fe- deltà ai propri valori umanitari con quella allo Stato italiano, a cui era ormai fortemente legata al pari delle sue consorelle, come osservato in precedenza97: a fronte degli sforzi compiuti da Frascara (che in seguito a- vrebbe guidato brevemente l’intera Associazione) e dai suoi collaboratori, si può asserire che in questa occa- sione l’umanitarismo prevalse sul lealismo, pur senza assumere i connotati di una protesta eclatante o di un dissenso pubblicamente espresso. Ad ogni modo, accanto a tale iniziativa, la CRI si impegnò a fornire viveri ai prigionieri insieme alle loro famiglie e ad altri Comitati umanitari, diventando progressivamente il canale principale per l’invio di tali aiuti: «Complessivamente, durante tutta la guerra, transitarono dall’Italia per la Svizzera, diretti in Austria o in Germania 18 milioni di pacchi» [ivi: 189]. Ciò tuttavia non impedì che ben 100.000 prigionieri morissero di fame, di tubercolosi o di altre patologie favorite dagli stenti, soprattutto nell’ultimo anno di guerra, il più duro [ivi: 168-169].

I sacrifici sostenuti dalle truppe combattenti, dai prigionieri e dalla popolazione civile si tradussero, nell’immediato dopoguerra, in una forte mobilitazione sindacale e politica e in un altrettanto forte aumento dei consensi per il Partito Socialista ed il Partito Popolare, i primi partiti di massa emersi in seno alla società italiana. Anche nella vecchia classe dirigente liberale le componenti più progressiste e democratiche, rappre- sentate da Giolitti e soprattutto da Nitti, assunsero un atteggiamento più favorevole ad una politica attiva del- lo Stato in campo sociale, tanto che Giovanna Procacci ha parlato di un «clima, destinato a sfumare rapida- mente, di euforia programmatica […]» [Procacci 2013: 87].

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In proposito è anzi significativo che uno dei primi sociologi italiani, il professor Enrico Catellani dell’Università di Padova, nel suo articolo Fattori ed effetti sociologici della Grande Guerra pubblicato su un numero della «Rivista Italiana di Sociologia» del 1915, annoverasse fra le azioni antipatriottiche che venivano denunciate alla polizia, nei vari Paesi impegnati nel conflitto, il non contribuire abbastanza «ad una sottoscrizione volontaria iniziata da un privato o da un comitato spontaneamente costituito da privati

Fra i sociologi, Paci non contempla e non analizza questo breve ma intenso periodo, mentre Colozzi e Ferrera menzionano adeguatamente sia le iniziative legislative che nel 1919 poterono essere realizzate98, sia i due rilevanti progetti che vennero elaborati da apposite Commissioni parlamentari, e che secondo Ferrera nella loro globalità «si configuravano per molti aspetti come una sorta di “piano Beveridge” italiano ante lit- teram» [Ferrera 1993: 219]. Il primo progetto, di carattere previdenziale, consisteva in «uno schema di legge che prevedeva la costruzione di un sistema integrale e integranto [sic] di assicurazioni sociali, comprensivo oltre che dell’assicurazione contro le malattie di quelle per l’inabilità, invalidità, morte, infortuni sul lavoro, disoccupazione e maternità, da attuarsi anche col consenso dello stato» [Colozzi 1982: 305-306]. Il secondo progetto, relativo all’assistenza sanitaria, prevedeva invece «una profonda ristrutturazione del settore ospeda- liero (sottoponendolo al controllo pubblico) ed una vasta pubblicizzazione della medicina, in una sorta di servizio sanitario nazionale ante litteram» [Ferrara 1984: 32].

In proposito Ferrera ha analizzato dettagliatamente sia i due progetti, sia le particolari circostanze politi- che ed economico-sociali che ne determinarono la genesi. Egli infatti ritiene di poter asserire che fra il 1917 ed il 1920 si verificarono condizioni tali da rendere possibile un passaggio del welfare state italiano all’universalismo in base alla sua teoria dei tre fattori [Ferrera 1993: 222]. Più precisamente, in primo luogo l’ambiente economico-sociale fu caratterizzato da un fortissimo «deterioramento dell’igiene e della sanità pubblica […]», che causò «un aumento generalizzato della morbilità, con un’allarmante recrudescenza della tubercolosi […]» e che rivelò tutta l’inadeguatezza del sistema socio-sanitario e socio-assistenziale italiano [ivi: 218-219], mentre al tempo stesso le condizioni economiche della piccola borghesia peggiorarono, avvi- cinandosi a quelle del proletariato agricolo ed industriale e «creando le condizioni per una possibile coalizio- ne universalistica estesa non solo “orizzontalmente” dagli operai industriali ai salariati agricoli, ma anche “verticalmente” alle classi medie» [ivi: 226].

In secondo luogo, l’ambiente di politica pubblica mutò fortemente perché almeno una parte della classe dirigente prese coscienza del fortissimo malcontento che stava montando, sia fra le truppe sia fra la popola- zione civile e soprattutto a seguito di Caporetto, e cercò di porvi rimedio avviando una nuova politica sociale basata su «tre nuovi princìpi in merito alla protezione sociale pubblica: obbligatorietà, globalità, onni- inclusività» [ivi: 223], ossia in una parola sull’universalismo, appunto la logica di fondo dei due progetti menzionati.

Infine, l’arena della competizione politica si configurò in modo tale da rendere possibile, sia pure per bre- ve tempo, «una convergenza centripeta fra liberali democratici, socialisti riformisti e cattolici di centro, non solo nell’arena parlamentare ma anche in quella governativa. L’obiettivo era quello di costituire un blocco di centro-sinistra, capace di arrestare l’estremizzazione massimalista della lotta politica e di governare in dire- zione democratico-riformista i gravissimi problemi economici e sociali del paese. La realizzazione di ampie riforme sociali, come appunto quelle raccomandate dalle due Commissioni parlamentari, costituiva uno degli

cittadini per un fine di interesse pubblico, come la sorveglianza e preparazione civile, o i soccorsi alla Croce Rossa […]» [Catellani 1915: 495-496].

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Si trattò per la precisione dell’estensione dell’assicurazione pensionistica obbligatoria a tutte le categorie di lavoratori dipen- denti (19 aprile 1919), che determinò la trasformazione della Cassa Nazionale di Previdenza per la vecchiaia e l’invalidità in Cassa

ingredienti più qualificanti di questo disegno […]» [ivi: 228]. La persona che riuscì brevemente a costituire un tale blocco fu Nitti, «un liberale da sempre attento al rapporto con le sinistre e alle tematiche sociali (compresa la questione meridionale) […]», il quale diede vita ad un breve governo (23 giugno 1919 – 15 giugno 1920) «nel quale entrarono due popolari e al quale molti parlamentari socialisti riformisti promisero un sostegno indiretto» [ivi: 229]. Giustamente Ferrera sottolinea in particolare le potenzialità del progetto di riforma previdenziale nel creare un’inedita «alleanza interclassista», esplicitamente raccomandata dalla commissione parlamentare proponente (la cosiddetta “Commissione Rava”), che sarebbe stata cementata dall’inclusione della piccola borghesia, ed in particolare dei lavoratori autonomi (piccoli proprietari terrieri, commercianti ed artigiani), nel nuovo sistema assicurativo obbligatorio, unitamente alla concessione di «una serie di agevolazioni fiscali e creditizie» [ivi: 227]. Nitti era talmente consapevole dell’importanza di tale progetto da istituire, verso la fine del suo mandato, un apposito «Ministero del lavoro e della previdenza so- ciale, affidato ad Arturo Labriola, con il compito, fra l’altro di supervisionare l’attuazione del sistema assicu- rativo globale» [ivi: 230].

Ad ogni modo nessuno dei due progetti riuscì anche soltanto ad arrivare alla discussione in Parlamento, essenzialmente per la caduta del governo Nitti. I fattori di tale caduta furono molteplici, sia politici (la forza e l’intransigenza acquisite dagli estremismi di destra e di sinistra, lo speculare indebolimento delle forze che sostenevano Nitti, ed anche le «incapacità mediatorie dello stesso Nitti»), sia economico-sociali (l’eccessiva durezza delle condizioni di vita) [ivi: 230-231]. Il progresso del welfare state italiano rimase dunque limitato alle poche migliorie previdenziali di cui si è fatto cenno, mentre in ambito sanitario, come osserva Giovanna Procacci, a causa del fallimento del secondo progetto «Il cittadino dovette perciò proseguire a rivolgersi all’assistenza privata, a quella fornita dalle società di mutuo soccorso, dalle opere pie, o da altri enti morali» [Procacci 2013: 89].

Fra gli enti morali si mise particolarmente in luce la CRI, perché i suoi presidenti Giuseppe Frascara (1918-1919) e Giovanni Ciraolo (1919-1922) dispiegarono un’azione di assistenza socio-sanitaria rilevantis- sima, tesa in particolare a combattere la malaria e, ancor più, la tubercolosi. In verità già durante l’ultimo an- no di guerra la dirigenza della CRI aveva intuito che le privazioni materiali della popolazione civile e il con- centramento delle risorse sanitarie a favore dell’esercito avrebbero determinato la recrudescenza di tali ma- lattie sociali, ed infatti già il 20 gennaio 1918 era stato istituito

uno speciale “Ufficio Provvidenze sanitarie-sociali” affidato alla direzione del Ten. Col. Medico Prof. Cesare Baduel, allo scopo soprattutto di preparare per il dopoguerra un vasto campo di lavoro nella lotta contro le malat- tie sociali, specialmente la tubercolosi, con l’attuazione di un programma di assistenza sanitaria alle classi più umili della popolazione e nelle regioni meno fortunate, con la diffusione nel paese delle conoscenze igieniche, con l’intensificazione e l’estensione della profilassi antimalarica [Frezza 1956: 140].

Frascara, Ciraolo, Baduel e i loro collaboratori dimostrarono dunque maggiore lungimiranza e maggiore umanitarismo rispetto alla classe dirigente liberale che in quegli stessi anni reggeva lo Stato, esclusa la pa- rentesi di Nitti, e dispiegarono un impegno tale da supplire all’insufficiente intervento statale in campo so-

Nazionale per le Assicurazioni Sociali, e dell’introduzione dell’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria per i

cio-sanitario. Soprattutto Ciraolo, che non a caso era politicamente «molto vicino a Nitti […]» [Procacci 2000: 183 nota 30], si dimostrò al tempo stesso innovatore ed avveduto, in quanto riuscì a bilanciare la rea- lizzazione di importanti iniziative come i sanatori antitubercolari, le colonie profilattiche e i dispensari con il risanamento del bilancio dell’Associazione99

[Croce Rossa Italiana Comitato Centrale 1922: 22-29, 91]. La popolarità che la CRI seppe guadagnarsi presso l’opinione pubblica per tutte le sue iniziative nel campo del welfare, sia in tempo di guerra che in tempo di pace, fu testimoniata dal vertiginoso aumento del numero dei soci, saliti durante la guerra da 32.000 a 300.000 e in seguito scesi, ma stabilizzati attorno ai 200.000 nel 1922 [ivi: 12-13].