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Come osservato in precedenza, l’avvio di un filone di ricerca concernente i welfare states dei Paesi medi- terranei fu stimolato dal disinteresse di Esping-Andersen nei loro confronti, motivabile in base al fatto che nella sua monografia del 1990 egli aveva scelto di concentrarsi sullo studio delle maggiori economie dell’Occidente democratico, fra le quali all’epoca l’unico Paese propriamente mediterraneo era l’Italia. Tut- tavia il mutato quadro politico, economico e sociale di Grecia, Portogallo e Spagna, e le evidenti similitudini che collegavano questi Paesi all’Italia, iniziarono ad esercitare un richiamo su alcuni studiosi, spingendoli a riflettere sull’eventualità dell’esistenza di una tipologia di welfare state tipicamente mediterranea.

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Si tratta rispettivamente di: residualità della politica sociale e ruolo del mercato nei regimi liberali [ivi: 133-134]; universali- smo e ruolo secondario del mercato nel regime socialdemocratico [ivi: 139-140]; corporativismo, settarismo e familismo nel regime conservatore [Esping-Andersen 2000: 144-145].

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Nove anni fa Miroslav Beblavý ha elaborato una sua classificazione dei regimi di welfare vigenti nei Paesi dell’Europa Orien- tale e balcanica, basata su 5 tipologie: “Invisible”, “Liberal light”, “Uncertain middle”, “Conservative light” e “Nearly conservative” [Beblavý 2008: 17]. È una classificazione interessante e curiosa, poiché di fatto non introduce nessuna tipologia veramente “nuova”, ma propriamente delle “sotto-tipologie” di due delle tre tipologie di Esping-Andersen. In tal senso sarebbe utile scoprire eventuali valutazioni di quest’ultimo sulla classificazione di Beblavý.

1.3.1. I primi studi sui welfare states mediterranei

Il primo studioso ad inoltrarsi su questa via fu il tedesco Stephan Leibfried, in un suo contributo del 1992: più precisamente, egli sostenne l’esistenza di un regime di welfare state proprio dei paesi del Latin Rim, la cui caratteristica essenziale sarebbe l’essere «rudimentary» [Leibfried 1992: 253]. In seguito il già citato so- ciologo australiano Francis G. Castles dedicò a sua volta al tema due articoli, nel primo sottolineando l’influenza del cattolicesimo [Castles 1994], e nel secondo considerando invece il familismo che permeereb- be in profondità la società di questi Paesi [Castles 1995]. Anche Maurizio Ferrera prese in considerazione la questione, ed in un suo breve ma denso articolo del 1996 analizzò a fondo i casi italiano, greco, spagnolo e portoghese, considerando studi ad essi dedicati e statistiche comparate riferite ai paesi allora facenti parte dell’Unione Europea. Basandosi su queste fonti Ferrera giunse a sua volta a riconoscere l’esistenza di un ve- ro e proprio cluster di paesi accomunati da uno specifico regime di welfare state, le cui peculiarità sarebbero compendiate essenzialmente in 4 caratteristiche:

Come spiegare la specificità del modello di welfare dell’Europa meridionale? Se l’analisi dei precedenti pa- ragrafi è corretta, l’attenzione esplicativa deve concentrarsi in particolare su quattro caratteristiche: 1) gli squili- bri del sistema di garanzia del reddito (eccessi di generosità accompagnati da vistose lacune di protezione); 2) l’abbandono del solco occupazionale e della frammentazione corporativa nel campo della sanità e l’istituzione (per quanto incompleta) di servizi sanitari nazionali basati sul principio della copertura universale e standardiz- zata; 3) il basso grado di penetrazione statale della sfera del welfare, in senso lato, e la peculiare commistione di attori e strutture pubbliche e private; 4) la persistenza di rapporti clientelari e la formazione – in alcuni casi – di vere e proprie «macchine» istituzionali per la distribuzione particolaristica di sussidi monetari.

Queste quattro caratteristiche non esauriscono di certo il catalogo delle specificità sud-europee. Esse configu- rano tuttavia un primo, provvisorio insieme di explananda fra loro plausibilmente collegati, intorno al quale me- rita senz’altro avviare una discussione teorica [Ferrera 1996: 89].

A ciò Ferrera aggiunge che l’Italia in questo cluster rappresenta comunque un’eccezione, e non certo per motivi commendevoli: ricollegandosi alle valutazioni di Ascoli e Paci, che ancora una volta implicitamente condivide, lo studioso torinese osserva infatti che «Certo in Italia il clientelismo assistenziale ha raggiunto livelli di diffusione e sofisticazione più elevati che negli altri tre paesi. E lo stesso si può dire riguardo alle dimensioni quantitative del fenomeno […]. Il caso italiano è dunque fuori norma anche all’interno dell’area europeo-meridionale, vuoi per la presenza di alcune ulteriori specificità, vuoi per la sua maggiore “matura- zione”, anche solo in termini di età del sistema. Ma l’affinità resta […]» [ivi: 87]. Quali cause di questo stato di cose Ferrera prende in considerazione non solo «i “classici” fattori di natura socio-economica, politica e culturale […]» [ivi: 89], come familismo («amorale», osserva citando Banfield33

), forza della Chiesa cattoli-

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È infatti appena il caso di menzionare Le basi morali di una società arretrata [1958], opera con cui Edward Banfield coniò l’espressione «familismo amorale». Il termine indicava l’eccessivo attaccamento all’interesse immediato del proprio nucleo famigliare: Banfield attribuì a tale fattore culturale la mancanza di azione collettiva dei meridionali italiani. Allo stesso modo è appena il caso di menzionare gli studi di David Putnam [1993] e Francis Fukuyama [1995] sul senso civico, che si pongono sostanzialmente sulla scia di Banfield per spiegare l’arretratezza del Meridione. È invece degno di nota un recente articolo di Emanuele Ferragina, Il fantasma di Banfield, nel quale l’autore affronta con un’accurata analisi statistica la questione del familismo amorale, sottoponendo così la teoria di Banfield a verifica empirica. I risultati sono interessanti: a livello generale la teoria viene in parte confermata: «Il familismo amorale è, dopo il livello di scolarizzazione, il più importante fattore interpretativo del livello di azione collettiva» [Ferragina 2011: 303]. Tuttavia l’importanza primaria della scolarizzazione sposta la priorità dei fattori sul versante socio-economico, e in merito a ciò Ferragina rileva che mediamente i meridionali italiani sembrano essere meno familisti amorali dei settentrionali, e perfino di altri popoli europei [ivi: 299, 304]. Di conseguenza, la centralità della famiglia nel nostro Meridione sarebbe da spiegare con lo stato di necessità, e non con un habitus culturale scevro da condizionamenti socio-economici:

ca, arretratezza economica (con fortissime differenze territoriali), debolezza delle sinistre e solida tradizione corporativa, ma anche e soprattutto fattori squisitamente politico-istituzionali. Uno di essi sarebbe la debo- lezza dello Stato e delle sue istituzioni, che si manifesta in particolare con «l’assenza di burocrazie “Webe- riane” […]» [ivi: 90], impermeabili alle pressioni delle élites locali, spesso rappresentate da partiti politici sin troppo preminenti («un elemento connesso sia alla tradizionale atrofia della società civile in quest’area del continente sia alle specifiche modalità di transizione dall’autoritarismo alla democrazia» [ivi: 91]); un altro fattore politico-istituzionale sarebbe invece «la polarizzazione ideologica ed in particolare la presenza di una sinistra radical-massimalista e internamente divisa» [ibidem].

Le considerazioni di Ferrera sono senz’altro solide e ben circostanziate, ma proprio per questo risulta dif- ficilmente comprensibile il fatto che, nel suddetto articolo o in successivi studi, egli non abbia preso spunto dall’individuazione di tale cluster di paesi dal welfare state tipicamente mediterraneo per rivedere la sua pre- cedente classificazione del 1993, nella quale l’Italia, come osservato, era collocata insieme ad Irlanda, Olan- da e Svizzera. Ciò nondimeno, la nuova configurazione dei cluster di paesi elaborata dal sociologo torinese è stata da tempo assunta da Ugo Ascoli, il quale già nello stesso anno 1996 osservò che

Non tutti sono d’accordo su questa tipologia: alcuni, ad esempio, sottolineano come non esistano elementi sufficienti per sostenere la tipicità del modello sud-europeo rispetto a quello che caratterizzerebbe paesi quali la Germania, la Francia, l’Austria o il Belgio (Esping-Andersen, 1995). Noi riteniamo, invece, che in questa fase del dibattito possa essere utile assumere come ipotesi di lavoro l’esistenza di un modello di welfare sud-europeo (Ferrera, 1996), salvo poi riscontrarne l’inconsistenza allorché la ricerca comparata avrà accumulato molti più dati di conoscenza rispetto a oggi34 [Ascoli 1996: 23].

In seguito, nel 1999, insieme ad Emmanuele Pavolini Ascoli ribadì la sua convergenza con Ferrera in me- rito all’esistenza di uno specifico modello mediterraneo di welfare mix accanto ad altri 3 modelli, ossia uno anglosassone, uno scandinavo ed uno europeo continentale, caratterizzati sia da peculiarità (più nel loro pas- sato) sia da somiglianze (più nel loro presente) nell’evoluzione delle rispettive organizzazioni di Terzo Setto- re operanti nell’ambito socio-assistenziale dall”800 agli anni ’90 del XX secolo [Ascoli, Pavolini 1999: 447; Ascoli, Pavolini 2012: 434]. Più precisamente, nei contesti anglosassone e scandinavo l’evoluzione del Terzo Settore era stata caratterizzata dall’imposizione dello Stato sulla Chiesa fin dal tempo della Riforma prote- stante: le organizzazioni socio-assistenziali di ispirazione religiosa erano state dunque poste nella condizione di dover collaborare con le istituzioni pubbliche in subalternità [Ascoli, Pavolini 1999: 448]; nei Paesi euro- pei continentali come la Germania e l’Olanda, invece, la contrapposizione fra le Chiese e con lo Stato portò ad una «“battaglia culturale” […] per il predominio o per il mantenimento delle sfere di influenza fra confes- sioni diverse» [ivi: 450], una battaglia che consolidò il radicamento sociale e la professionalità dei singoli en-

«Nel meridione il nucleo familiare è la sola istituzione che supporta gli individui per l’intero arco della vita, è una forma di solidarietà “obbligata” (solidarity by default), lì dove tutto il resto manca» [ivi: 304]. Di conseguenza, la spiegazione che Ferragina propone per l’arretratezza del Mezzogiorno è un mix di vari fattori: «L’assenza di azione collettiva tra i meridionali deve essere spiegata rivolgendosi in modo olistico a fattori socio-economici, culturali e storici, partendo dal livello di scolarizzazione e le discriminazioni di genere. Questo risultato rafforza la conclusione che la teoria di Banfield non è applicabile al contesto per la quale fu originariamente messa a punto» [ibidem].

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In questo articolo Ascoli osserva anche che il sociologo spagnolo Sebastian Sarasa, in un suo studio del 1995, ha sostenuto l’appartenenza della Francia al cluster (o modello, o “famiglia”) dei welfare states mediterranei. Al contrario, Ascoli concorda con Ferrera nel comprendere in tale gruppo soltanto l’Italia, la Grecia, il Portogallo e la Spagna [Ascoli 1996: 31].

ti, ed inoltre stimolò la nascita di organizzazioni di secondo livello (dette anche “organizzazioni ombrello”), in grado di svolgere funzioni di rappresentanza e di tutela per molte realtà più piccole e deboli [ivi: 450]; al contrario, «A questi fenomeni di “battaglia culturale” sfuggì in buona parte il mondo mediterraneo, dove du- rante il ‘900 e fino agli anni ’60 rimase incontrastato il ruolo delle organizzazioni di terzo settore di stampo cattolico, le quali però, proprio per via di questa scarsa rivalità, non ebbero bisogno di sviluppare forme di integrazione e strutturazione, rimanendo invece “frammentate” sul territorio» [ibidem]. Questo predominio sarebbe stato spezzato soltanto a partire dagli anni ‘60 grazie alla secolarizzazione e allo sviluppo dei movi- menti sociali [ivi: 457], nonché grazie ad un connesso cambiamento profondo e radicale (addirittura nella “filosofia” di fondo) del ruolo dello Stato, tendente ad esempio all’universalità anziché alla selettività come in passato [ivi. 459]: ciò avrebbe favorito sia l’aumento numerico delle organizzazioni, sia la loro diversifi- cazione culturale, in quanto «Crebbe fortemente il numero di organizzazioni di terzo settore che operavano con modalità e filosofie nuove in campo socio-assistenziale» [ivi: 461]. Tuttavia, nel corso degli anni ‘80, la prevalente cultura economica e politica neoliberista, portando la classe politica ad orientarsi sia alla privatiz- zazione di molti servizi socio-assistenziali pubblici, sia alla gestione di molti altri con criteri aziendali (la co- siddetta “aziendalizzazione”) [ivi: 465], avrebbe determinato in tutti i 4 contesti l’instaurazione di un rappor- to molto più stretto che in passato fra istituzioni pubbliche e organizzazioni di Terzo Settore, «in parte più conflittuale nei meccanismi di controllo e selezione, più collaborativo in quelli di policy making» [ivi: 466]. Tutto ciò avrebbe determinato un inedito avvicinamento fra i Paesi che seguono i 4 modelli di welfare, in parte connesso alla formazione del già menzionato “modello sociale europeo”, ma reso più difficoltoso per i Paesi mediterranei dalla già menzionata, storica debolezza ed inefficienza della pubblica amministrazione, incapace di garantire controlli accurati e di sfuggire alle pressioni del notabilato locale e della classe politica:

I processi di privatizzazione che hanno investito nell’ultimo ventennio i welfare state dell’area scandinava, così come quelli mediterranei e dell’area anglosassone, hanno indubbiamente ridotto le distanze fra i diversi mo- delli europei: dalle politiche pensionistiche a quelle sanitarie e socio-assistenziali, il trend di gran lunga preva- lente è stato quello della convergenza, anche se le differenze e le specificità sono rimaste e rendono affatto ra- gionevole continuare a parlare di «quattro Europe sociali».

Nell’ambito delle politiche socio-assistenziali le conseguenze della crescente importanza delle organizzazioni di terzo settore appaiono di gran lunga più problematiche nei sistemi di welfare sud-europei […] [ivi: 470].

1.3.2. Il ruolo della famiglia nei welfare states mediterranei

Le suggestioni del lavoro di Ascoli e Pavolini sono state e sono tuttora importanti, toccando tematiche di grande attualità e problematicità in tutti i Paesi europei, ed in particolare in quelli mediterranei. Tuttavia, nel descrivere l’evoluzione del welfare di questi ultimi, i due autori non menzionarono una sua componente cen- trale, anche nello specifico ambito delle attività socio-assistenziali, a cui invece Ferrera aveva accennato nel suo studio. Oltre che al familismo propriamente detto, egli aveva fatto riferimento anche alla peculiarità della “famiglia latina” ed al suo ruolo essenziale nel tenere in piedi un sistema di welfare obiettivamente carente: secondo lo studioso torinese infatti essa consiste in «un sistema di relazioni parentali che ancora opera, in

buona misura, come cassa di compensazione sociale, tesa a mediare i difficili rapporti fra mercati del lavoro fortemente segmentati e sistemi istituzionali di protezione del reddito ancor più variegati» [ivi: 77]. Anche il sociologo spagnolo Luis Moreno Fernandéz, come altri suoi colleghi dei paesi del Latin Rim, si confrontò in quegli anni con questo tema e, in un suo articolo intitolato The Spanish development of Southern welfare, sottolineò a sua volta il peso della famiglia nel determinare la configurazione dei welfare states mediterranei, sia dal punto di vista culturale-valoriale, sia dal punto di vista politico-istituzionale:

As concerns the cultural-axiological dimension of welfare development, a self-perception of differentiated needs and lifestyles is observable (intra-familial pooling of resources, home ownership, heterogeneity of social reproduction), with a compelling household solidarity and a pre-eminence of values of family inclusion and life- cycle redistribution (gift mechanisms, processes of age emancipation, proliferation of family companies and jobs). Moreover, cultural choices and practices have structured their civil societies in a characteristic mode (so- cial networking, patronage, clientelism, group predation).

On analysing politico-institutional development the pivotal role of the family in social protection cannot be over-emphasised. In Southern Europe the welfare state is to a large extent the Mediterranean welfare family. In- tra-familial transfers are both material and immaterial. Concerning the latter, the involvement of women to both elderly and children care is crucial. However, the increasing participation of female workers in the labour force, coupled with new burdens for family formation and expansion, raise big questions as whether Mediterranean welfare can survive as we know it at present [Moreno Fernandéz 1997: 2].

Questa tematica è stata approfonditamente studiata da Manuela Naldini in una sua monografia del 2003, dedicata all’analisi comparata dei welfare states italiano e spagnolo da una particolare prospettiva, ossia il ruolo che la famiglia ha avuto ed ha in essi. Un punto centrale della ricerca della studiosa è stato proprio il concetto stesso di “famiglia”, che nei due Paesi, i più importanti del gruppo mediterraneo, assume un signifi- cato specifico: Naldini infatti distingue 3 modelli di famiglia esistenti nel mondo occidentale, ossia il male breadwinner model, tipico dei Paesi con welfare state liberale o conservatore, il dual earner model, tipico dei Paesi con welfare state socialdemocratico, e il family/kinship solidarity model, che è stato tradotto come “modello delle solidarietà familiari e parentali” [Naldini 2003: 31]. Quest’ultimo modello è per l’appunto ti- pico dei Paesi mediterranei, in primis Italia e Spagna, per una serie di fattori sia economico-sociali sia cultu- rali in senso lato: entrambi i Paesi sono stati infatti caratterizzati da una società rurale, da un’economia agri- cola con sviluppo dell’industria tardivo e non uniforme geograficamente, da una cultura contadina tradizio- nalista e dall’egemonia fortissima della Chiesa cattolica. Non si è dunque imposto il male breadwinner model, intrinsecamente legato ad una società industrializzata ed urbanizzata, quale era quella di Paesi per al- tri versi diversissimi fra loro, ma sotto questo aspetto simili già alla fine dell’Ottocento, come Gran Bretagna e Germania. In essi il cardine della società era l’operaio qualificato, residente in città, all’occorrenza richia- mabile nell’esercito ed a capo di una famiglia nucleare in cui la moglie casalinga si occupava di tutti i lavori attinenti alla cura dei figli (child care). La famiglia mediterranea invece è rimasta fondamentalmente diffe- rente fin quasi alla metà del XX secolo in Italia, e fino agli anni ‘60 in Spagna: essa prevedeva una rete am- pia di più nuclei famigliari collaterali, uniti da vincoli di sangue e di solidarietà. Naldini osserva che una sif- fatta tipologia di famiglia deve essere studiata tenendo conto sia dei rapporti fra i sessi, sia dei rapporti fra i parenti (nel senso più ampio del termine), sia dei rapporti intergenerazionali [ivi: 204-205]. Questa tipologia di famiglia, con la sua rete di solidarietà interna, è stata tradizionalmente la prima fonte di “servizi sociali” e

in entrambi i Paesi è stata considerata anche dalla legislazione (in Italia, ad esempio, dal codice civile Rocco del 1942) quale modello in base a cui codificare il concetto stesso di “famiglia” [ivi: 50, 60-62, 72-73, 78-79, 91-93]. Partendo da queste basi, di per sé comunque peculiari, la vera e propria differenziazione tipologica dei welfare states italiano e spagnolo rispetto agli altri del continente europeo si è prodotta durante le due dit- tature, quella fascista e quella franchista (non a caso molto simili fra loro), per via di una ben precisa politica sociale da esse perseguita, con particolarissime conseguenze rispetto alla famiglia:

A unique characteristic of the Italian and Spanish cases is that state policies ‘stretched’ public support to the male breadwinner beyond the dependent wife and children to include parents, siblings and other relatives. Ho- wever, it must be kept in mind that this extended concept of family responsibilities corresponded to the persistent notion of legal kin obligations, which dated back to the nineteenth century in Italian and Spanish law.

The experience of fascism is important because it marked a clear shift in state policies towards family re- sponsibilities. For the first time in their histories, Italy and Spain introduced an all-encompassing system of family policy having strong pro-natalist aims. The legal definition of family relations and the traditional family law systems were not changed much […]. What really changed with the advent of the two dictatorships were the conceptualizations of the family as an institution and the development of family policies. The family was regar- ded as an institution organically linked to the state, of which it was both an instrument and a costitutive element [ivi: 203-204].

La politica sociale fascista e franchista ha quindi mescolato, nel suo approccio alla famiglia, elementi tra- dizionali (l’idea stessa di famiglia allargata, a cui sono stati “estesi” provvedimenti che in altri Paesi erano stati pensati per famiglie nucleari) ed elementi innovativi (le politiche nataliste, naturalmente tarate su un ti- po di famiglia tradizionale). Ma dopo la caduta delle dittature, in entrambi i Paesi, una serie di fattori ha reso più facile abbandonare questi ultimi, piuttosto che gli elementi tradizionali: le politiche nataliste sono state abolite, mentre la concezione di famiglia allargata è stata faticosamente modificata nel diritto e, a detta di Naldini, ancora non è scomparsa nell’immaginario collettivo. Le responsabilità principali sembrano essere delle forze politiche, per «incapacity and/or unwillingness» [ivi: 211]: in Italia come in Spagna, i partiti di centro-destra non hanno attivato nuove politiche nataliste per non venire accusate di contiguità con i passati regimi, ed anche per vicinanza ideologica alla Chiesa cattolica, da sempre ostile ad un ruolo attivo dello Sta- to in questi campi, mentre per lo stesso motivo hanno cercato di mantenere in vigore una concezione di fa- miglia tradizionale. Dal canto loro, i partiti di sinistra non si sono eccessivamente impegnati in questi ambiti sia per sostanziale opportunismo politico, sia perché concentrati su altre questioni sociali; un ragionamento simile può valere anche per i sindacati [ivi: 209-210].