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5. La storia della CRI nel quadro dello sviluppo del welfare state italiano

5.4. La CRI nell’Italia repubblicana: i “30 gloriosi” all’italiana

La ricostruzione postbellica non determinò un immediato mutamento radicale nella politica sociale del nuovo Stato repubblicano. Tutti gli studiosi, infatti, concordano sul fatto che almeno fino al 1962

il sistema mutualistico-previdenziale rimase la struttura portante dell’intero assetto organizzativo della prote- zione sociale mentre l’assistenza pubblica, limitata ai soli cittadini in condizioni di povertà ed emarginazione, mantenne un carattere di residualità. […] In questi anni, è dunque il sistema residuale di W.S. che viene poten- ziato attraverso una serie di “leggine” che, senza alcun disegno organico, tendono a beneficare vecchie e nuove categorie di assistiti e ad allargare la costellazione degli enti assistenziali [Colozzi 1982: 312-313].

A partire dal 1962, tuttavia, secondo Colozzi si configurò un mutamento formale e sostanziale della poli- tica sociale dello Stato. Il punto di svolta sarebbe stato la “Nota aggiuntiva” presentata in quell’anno al Par- lamento da Ugo La Malfa, allora Ministro del Bilancio e della programmazione economica, in quanto si trat- tò di un documento che «sposa decisamente il principio dell’universalità delle prestazioni, optando per l’introduzione, attraverso le ipotizzate riforme, di un modello istituzionale di W.S.» [ivi: 314]. Questo ed al- tri documenti ufficiali avrebbero quindi determinato la già menzionata “svolta” di carattere keynesiano dello Stato italiano, culminata con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale nel 1978 [ivi: 317].

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Con “enti parastatali” intendo, seguendo la definizione del Vocabolario Treccani, «enti di diritto pubblico, a carattere naziona- le, non gestiti direttamente dallo stato ma da esso istituiti e controllati, con compiti e servizî di pubblica utilità (per es., gli enti che gestiscono le assicurazioni sociali)». cfr. http://www.treccani.it/vocabolario/parastatale/ (ultimo accesso: 16/09/2017).

Secondo Ferrera invece l’assetto previdenziale pre-bellico «sarebbe rimasto pressoché inalterato, nella sua struttura portante, per almeno due decenni» [Ferrera 1984: 37], ossia fino al 1968, in quanto il periodo del Centro-Sinistra fu caratterizzato da poche attuazioni concrete. L’unica fu l’istituzione di un Fondo Socia- le nell’ambito dell’INPS, in parziale attuazione di una riforma pensionistica elaborata dal CNEL nel 1963 [ivi: 40-41; Ferrera 1993: 247]. Al contrario il decennio successivo determinò alcuni mutamenti veramente sostanziali, soprattutto grazie alla mobilitazione politica e sociale di sindacati, gruppi e movimenti collettivi e, in subordine, dei partiti di sinistra: l’istituzione del regime pensionistico “retributivo” per i lavoratori di- pendenti (si rimase dunque nel solco del sistema bismarckiano “ad accumulazione”, sia pure in forma spu- ria), una serie di provvedimenti a tutela della disoccupazione e della maternità, la legge Lauricella sull’edilizia sociale (1971) e il decentramento amministrativo, con il trasferimento di rilevanti competenze di politica sociale alle Regioni [Ferrera 1984: 41-43].

Il decennio 1968-1978 è soprattutto da ricordare per la svolta definitiva della sanità italiana verso un re- gime di welfare state universalistico. Le sue principali tappe sono state:

a) la riforma ospedaliera disposta dalla legge 132 del 12 febbraio 1968, che «sancì, fra l’altro, l’estensione a tutti i cittadini del diritto a questo livello di assistenza sanitaria»;

b) il trasferimento delle competenze in questo stesso campo alle neo istituite Regioni tramite la legge 386 del 17 agosto 1974 [Ferrera 1993: 252];

c) la già menzionata, epocale istituzione del SSN mediante la legge 833 del 23 dicembre 1978, con cui «I settori precedentemente separati e dispersi della sanità e dell’assistenza sono stati sostituiti da un sistema di servizi (almeno de iure) integrato ed unitario» [Ferrera 1984: 43].

Tale svolta, nelle sue fasi salienti e nelle sue cause profonde, è stata attentamente analizzata da diversi studiosi del welfare, tra i quali Maurizio Ferrera, che vi ha ravvisato ulteriori conferme della sua teoria sulla formazione dei gruppi di welfare states e sulle circostanze che rendono possibile il passaggio di un Paese da un gruppo ad un altro, già esposta nel primo capitolo. In estrema sintesi, le cause politico-istituzionali che resero possibile la svolta furono diverse, e scaglionate nel tempo. Anzitutto lo stesso articolo 32 della Costi- tuzione, per come era formulato, legittimava le istanze dei sostenitori di «un obbligo implicito ad una coper- tura universalistica da parte dello stato» [Ferrera 1993: 253]; in seguito, alla fine degli anni ‘50, si ebbe la creazione di «due agguerriti nemici istituzionali delle mutue categoriali: le Regioni a statuto speciale e il Mi- nistero della sanità», che si sarebbero enormemente rafforzati a livello istituzionale con l’istituzione di un Servizio Sanitario Nazionale «supervisionato dal Ministero e decentrato operativamente alle regioni (secon- do il dettato costituzionale)»; naturalmente ad essi si aggiunsero dal 1968 le Regioni a statuto ordinario [ivi: 256]. Le Regioni a statuto speciale «cominciarono ad erodere con proprie iniziative (di programmazione, i- giene pubblica, prevenzione ecc.) la giurisdizione delle mutue sul loro territorio», mentre «il nuovo Ministe- ro (diretto negli anni sessanta dal PSI) ingaggiò una battaglia contro l’INAM (controllato dalla DC) per sot- trargli competenze e guadagnarne a vigilanza» [ibidem]; d’altro canto, le Regioni a statuto ordinario inizia-

rono logicamente a reclamare l’adempimento dell’«obbligo formale al trasferimento delle competenze in te- ma di assistenza sanitaria […]» a loro favore, che la loro stessa istituzione aveva fatto scattare [ivi: 268].

Dal punto di vista sociale ed economico, invece, il fattore che rese conveniente la svolta universalistica fu essenzialmente l’esplosione della spesa sanitaria: «tra il 1954 e il 1967 la spesa media reale per assicurato crebbe di più di tre volte nel settore mutualistico, mentre crebbe di poco più di due nel settore pensionistico», a causa di un mix di fattori fra i quali meritano di essere ricordati «la continua crescita dei consumi sanitari per assistibile, dovuta a quel processo di medicalizzazione della salute che prese avvio anche nel nostro pae- se a partire dagli anni cinquanta […]», nonché «il rapido aumento dei costi unitari per prestazione, soprattut- to dei ricoveri ospedalieri, a seguito dell’introduzione di nuove tecnologie, del fenomeno dei “prezzi relativi” nonché della elevata inefficienza degli istituti di cura del nostro paese» [ivi: 259]. A causa di tali dinamiche, le mutue si trovarono in una continua situazione di deficit, «a cominciare ovviamente dall’INAM, che dovet- te essere più volte soccorso tramite il trasferimento di parte degli avanzi INPS», accumulando debiti nei con- fronti degli ospedali per 500 miliardi di lire nel 1967. «Data questa situazione, nessuna categoria aveva ov- viamente interesse a battersi in difesa dello status quo […] emerse anzi una convenienza diffusa a rinunciare all’autonomia ed appoggiarsi allo stato» [ivi: 260].

Dal punto di vista politico, infine, si ebbe una convergenza politico-ideologica fra il PCI, il PSI e la sini- stra DC. Il PCI e la CGIL avevano sostenuto l’universalismo in ambito sanitario (all’opposto della loro linea rigidamente “lavoristica” sul piano previdenziale [ivi: 251, 262-264]) già con progetti di legge presentati alla fine degli anni Cinquanta [ivi: 253]. Il PSI era a sua volta ideologicamente favorevole al principio universali- stico, anche per le affinità con i laburisti inglesi e i socialdemocratici svedesi. La DC era invece combattuta fra i sostenitori dell’universalismo, che in linea di principio era accettato dal partito, e coloro che temevano di perdere sia il tradizionale consenso politico e sociale delle «categorie mediche», nemiche del SSN, sia «importanti risorse di sottogoverno: soprattutto se, come insisteva la sinistra, la nuova gestione unica nazio- nale fosse stata decentrata a regioni, province e comuni» [ivi: 268]. Queste correnti riuscirono a ritardare la riforma, ma alla fine vennero sconfitte dal prevalere delle correnti favorevoli al compromesso storico con il PCI. Non a caso, osserva Ferrera, «Gli anni settanta furono il decennio delle larghe intese cattolico- comuniste e la riforma sanitaria del 1978, approvata allo zenith della solidarietà nazionale, fu una di queste» [ivi: 268], tanto più che all’interno della stessa DC, come di tutti gli altri partiti, in quegli anni era emersa «una nutrita schiera di leaders politici regionali […]» logicamente interessati all’attuazione concreta del de- centramento sanitario [ivi: 269].

Anche Massimo Paci considera i primi 25 anni di vita della Repubblica improntati ad una sostanziale con- tinuità [Paci 1984: 315], concordando con Ferrera sul fatto che «Nel corso degli anni ’70, si mette in moto un processo di tendenziale trasformazione in senso “ugualitario-universalistico” del sistema di Welfare italiano» [ivi: 316], culminato con l’istituzione del SSN e con servizi socio-sanitari democratizzati e decentrati sul ter- ritorio [ivi: 317]. La causa principale di tale cambiamento viene identificata nella mobilitazione dei nuovi movimenti e dei sindacati, considerata da Paci «il primo importante segno di risveglio della società civile sul terreno della protezione e del benessere sociale» [ibidem]. Tuttavia egli sottolinea anche che molto presto la

combinazione di due fattori politici, ossia il declino dei movimenti e l’assunzione del controllo degli organi amministrativi e dei servizi sociali decentrati da parte dei partiti, «ha sortito un effetto di mantenimento, se non di potenziamento della logica “particolaristica” di dipendenza partitica-clientelare) che aveva caratteriz- zato fino ad allora il nostro sistema di Welfare» [ivi: 318].

La trasformazione del welfare state italiano in senso universalistico sarebbe dunque sostanzialmente falli- ta, nonostante le affermazioni di principio, e si sarebbe tradotta nei primi anni ‘80 in un aumento incontrolla- to della spesa non compensato da un aumento degli standard qualitativi dei servizi pubblici, con poche ecce- zioni [ivi: 320]. Su questo punto, come osservato, ha concordato anche Ferrera, sia nel suo lavoro contempo- raneo al contributo di Paci [1984], sia nella monografia pubblicata nove anni dopo, nella quale il giudizio, corroborato dall’osservazione delle vicende di tutti gli anni ‘80, è rimasto fortemente critico: «si è avuta un’applicazione distorta dell’universalismo […], sia sotto il profilo dei rendimenti qualitativi, sia sotto il pro- filo dei moduli organizzativi e delle procedure di gestione […]. Universalistico in termini di copertura, il no- stro sistema sanitario (proprio come il nostro sistema pensionistico) è rimasto “particolaristico-clientelare” nel suo funzionamento» [Ferrera 1993: 270].

Anche per la CRI il primo ventennio postbellico non fu un periodo di innovazioni radicali (con alcune ec- cezioni), ma piuttosto di necessaria ricostruzione, resa più difficile dalla perdita di credibilità interna ed in- ternazionale dovuta alla passata vicinanza al regime. Sul piano interno essa determinò infatti una certa ostili- tà dell’opinione pubblica, in particolare dei membri e dei sostenitori delle ricostituite Croci “policrome”, che peraltro, come osservato, ben poco riuscirono a riottenere dei beni incamerati dalla CRI sotto il fascismo: ne derivò una notevole lentezza nell’incremento del numero dei soci [Mariani 2006: 271]. Sul piano internazio- nale, invece, la dirigenza della CRI dovette recuperare prestigio partecipando a missioni all’estero (come du- rante la Guerra di Corea) e a conferenze insieme alle consorelle [ivi: 275-277]. Fu tuttavia necessario ed op- portuno venire incontro alla richiesta di maggiore democrazia interna (ad esempio ripristinando convegni e dibattiti [ivi: 271]), attuare le leggi sull’epurazione degli elementi compromessi con il fascismo (di fatto ri- masti in pochi) [ivi: 256-258] e proclamare nuovamente l’apoliticità dell’Associazione in occasione delle prime elezioni libere [ivi: 277]. Naturalmente le risorse vennero ricostituite mentre si prestava assistenza ai reduci, ai profughi e ad altre vittime del conflitto [ivi. 263-264], nonché alle fasce più povere della popola- zione, all’infanzia ed alle vittime delle calamità naturali, come l’alluvione del Polesine del 1951 [ivi: 279- 281].

Nonostante tali difficoltà ed emergenze, ed anzi anche per fronteggiarle, alcune importanti innovazioni nell’organizzazione interna vennero tuttavia effettivamente avviate: si trattò della creazione dei Corpi dei Volontari del Soccorso, dei Pionieri e dei Donatori del Sangue, tuttora esistenti come componenti di grande rilievo della CRI. Il primo di essi nacque allo scopo di incrementare il servizio di pronto soccorso, che la guerra aveva reso ancora più necessario: si trattava cioè di istituire formalmente «un corpo di volontari, ad- detti a tale servizio, appositamente addestrati e forniti delle cognizioni sanitarie elementari» [ivi: 269]. Era un’idea accarezzata già dalla vecchia dirigenza fascista, e alcuni Comitati Provinciali erano anche riusciti a metterla in pratica a livello embrionale, ma fu solo con la nuova dirigenza democratica che, all’indomani del-

la liberazione di Roma (5 giugno 1944), venne «posto allo studio e portato a compimento il regolamento per la costituzione del nuovo Corpo dei Volontari del soccorso, aderendo al quale chiunque poteva accedere e partecipare direttamente all’attività dell’Associazione» [ibidem]. Gli altri due Corpi videro invece la luce al- cuni anni dopo, nel 1947, in un momento ricco di iniziative e di riconoscimenti. In primavera infatti venne costituito dapprima il Corpo dei “Pionieri della Fraternità”, che rifondava la vecchia Croce Rossa Italiana Giovanile, nata nel 1922 [ivi: 164, 273], e che in seguito ha mantenuto solo il nome “Pionieri” o “Giovani”. In autunno venne invece emanato un importante atto normativo dello Stato che fu di grande aiuto alla riorga- nizzazione della CRI: si trattò del Decreto Legislativo del Capo Provvisorio dello Stato n. 1256 del 13 no- vembre, con il quale, in 5 semplici articoli, si disciplinavano chiaramente i compiti dell’Associazione in tempo di pace, fra i quali veniva per la prima volta stabilito il mandato di «organizzare il servizio della tra- sfusione del sangue su piano nazionale, istituendo un Centro nazionale [...]», e facendo obbligo, a tutti gli en- ti desiderosi di avviare iniziative in tale campo, di coordinarsi con la stessa CRI (articolo 2, comma C)103.

Tutti questi compiti vennero affrontati dai primi presidenti della CRI della nuova Italia: il celebre archeo- logo ed antifascista Umberto Zanotti-Bianco (1944-1949), ideatore dei tre Corpi anzidetti; il deputato social- democratico e a sua volta antifascista Mario Longhena (1949-1957); il generale Guido Ferri (1957-1964). Nessuno di loro cercò una particolare vicinanza allo Stato in generale o ai partiti di governo in particolare, ed anzi ognuno di essi tentò di perseguire un difficile equilibrio fra ricerca di autonomia e necessità di un soste- gno economico ed istituzionale, pagando prezzi personali elevati: Zanotti-Bianco si dimise per dissensi con il Presidente del Consiglio De Gasperi [ivi: 277-278], Longhena polemizzò con il Ministro del Tesoro Giusep- pe Pella per ottenere uno stanziamento economico [ivi: 282-283], mentre Ferri si suicidò il 25 giugno del 1964 a causa del discredito gettato sull’Associazione da una vicenda di presunti favori illeciti al genero di Fernando Tambroni, rivelatisi poi inconsistenti [ivi: 297-300].

Nonostante queste difficoltà, anno dopo anno il bilancio poté essere risanato, il materiale ricostituito ed ampliato, le attività aumentate e il numero dei soci accresciuto [ivi: 290-291], a evidente dimostrazione di un progressivo recupero di credibilità e popolarità. La morte di Ferri segnò tuttavia l’inizio di una “politicizza- zione” del vertice dell’Associazione. A sostituire il defunto generale venne infatti chiamato per la prima vol- ta un commissario, il Consigliere di Stato Giuseppe Potenza, nominato dal Presidente della Repubblica ma vicino al Ministro della Sanità, il socialista Luigi Mariotti [ivi: 300-301]. Si può dunque asserire che il perio- do del Centro-Sinistra fu caratterizzato da pesanti influenze dei partiti di governo, ed in particolare del PSI, sull’Associazione:

Con l’avvento del centrosinistra al governo e il succedersi di esponenti socialisti alla guida del ministero del- la Sanità, si era dato l’avvio a una politica finalizzata soprattutto alla gestione pubblica della salute dei cittadini (con la riforma ospedaliera prima e con quella sanitaria dopo), quindi per nulla favorevole alla Croce Rossa; una politica che, mentre da un lato impone alla direzione generale uomini di partito quali l’ex barbiere nonché ex se- natore socialista Secondo Pessi e, pochi mesi dopo, un Carlo Ricca, già conduttore di caldaie a vapore e in pos- sesso di sola licenza elementare, anch’egli ex parlamentare del PSI, dall’altro esalta il ruolo del sindacato (in via

Toscana [sede del Comitato centrale CRI all’epoca], fino allora, pressoché inesistente) puntando soprattutto a potenziarne talune componenti e favorendo il passaggio allo status di civili di buona parte dei militari già occu- pati nel pronto soccorso stradale onde crearsi nuove basi di consenso.

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È in questo periodo che si ricorre all’assunzione di centinaia di persone «segnalate» dal partito e, soprattutto, si accentua la tendenza di Carlo Ricca a liberarsi di quante più attività possibili, trasferendo servizi alle nascenti

USL e cedendo istituti e ospedali […] [Mariani 2006: 303-304].

Dunque la già menzionata riforma ospedaliera del 1968, voluta appunto dal ministro Mariotti, si tradusse per la CRI in un aggravio di doveri e di responsabilità, unito ad una perdita consistente di patrimonio immo- biliare. La CRI infatti, per ottemperare alla “legge Mariotti”, dovette cedere alcune delle sue strutture ospe- daliere [ivi: 307] e dotare le rimanenti di un pronto soccorso, oltre a fornire agli stessi ospedali pubblici uo- mini e mezzi necessari «con apposite convenzioni locali […]» [ivi: 337]. Accanto a tali difficoltà materiali, la politicizzazione determinò un aumento della conflittualità sia fra le componenti della CRI (dipendenti con- tro volontari del soccorso, ad esempio), sia all’interno di esse (fra le Infermiere Volontarie) [ivi: 321-322], il tutto mentre la natura di ente parastatale dell’Associazione veniva ribadita esplicitamente ed ufficialmente. La legge 70 del 20 marzo 1975, deputata al «riordinamento degli enti pubblici [non economici]», comprese infatti in questa categoria anche la CRI, menzionata nella tabella riassuntiva in calce al provvedimento nella II sotto-categoria, ossia quella degli «enti di assistenza generica»104. In proposito, sono circostanze assai si- gnificative sia il fatto che il presidente della CRI in carica dal 20 febbraio di quello stesso anno, Carlo Alber- to Masini, fosse stato in precedenza direttore generale dell’INPS, sia il fatto che in seguito egli fu cooptato in una commissione istituita appunto con la suddetta legge [ibidem].

Ciò nonostante, la CRI continuò a svolgere la sua attività in linea con i tradizionali ambiti di intervento come le emergenze (il terremoto del Friuli nel 1976, o quello dell’Irpinia nel 1980) [ivi: 322, 329, 340-341], ma senza trascurare le nuove problematiche sociali, in primis la tossicodipendenza, con la creazione di un primo centro di recupero a Roma, sempre nel 1976, su iniziativa dell’allora dirigente Massimo Barra [ivi: 322, 332-333], o il consolidamento del servizio di donazione del sangue [ivi: 328-329]. Su questa realtà dell’Associazione, tutt’altro che armonica ma ancora in grado di compiere sforzi notevoli, calò tuttavia la legge istitutiva del SSN, che per la sua stessa natura fortemente innovativa non poteva non determinare note- voli mutamenti anche per la stessa CRI. Il punto cruciale fu l’articolo 70:

Art. 70.

(Scorporo dei servizi sanitari della Croce Rossa italiana - CRI – e riordinamento dell’Associazione) Con effetto dal 1 gennaio 1980, con decreto del Ministro della sanità, sentito il Consiglio sanitario nazionale, sono trasferiti ai comuni competenti per territorio per essere destinati alle unità sanitarie locali i servizi di assi- stenza sanitaria dell’Associazione della Croce rossa italiana (CRI), non connessi direttamente alle sue originarie finalità, nonché i beni mobili ed immobili destinati ai predetti servizi ed il personale ad essi adibito, previa indi- viduazione del relativo contingente.

Per il trasferimento dei beni e del personale si adottano in quanto applicabili le disposizioni di cui agli articoli 65 e 67.

Il Governo, entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge, è delegato ad emanare, su proposta del Ministro della sanità, di concerto con il Ministro della difesa, uno o più decreti aventi valore di legge ordinaria per il riordinamento della Associazione della Croce rossa italiana con l’osservanza dei seguenti criteri direttivi:

1) l’organizzazione dell’Associazione dovrà essere ristrutturata in conformità del principio volontaristico del- la Associazione stessa;

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2) i compiti dell’Associazione dovranno essere rideterminati in relazione alle finalità statutarie ed agli adem- pimenti commessi dalle vigenti convenzioni e risoluzioni internazionali e dagli organi della Croce rossa interna- zionale alle società di Croce rossa nazionali;

3) le strutture dell’Associazione, pur conservando l’unitarietà del sodalizio, dovranno essere articolate su ba- se regionale;

4) le cariche dovranno essere gratuite e dovrà esserne prevista l’elettività da parte dei soci qualificati per atti- ve prestazioni volontarie nell’ambito dell’Associazione105.

Il decreto venne emanato più di un anno dopo: si trattò del DPR 613 del 31 luglio 1980, che ridefinì anzi- tutto la natura giuridica dell’Associazione, divenuta un «ente dotato di personalità giuridica di diritto pubbli- co e, in quanto tale, è soggetta alla disciplina normativa e giuridica degli enti pubblici»106. Vennero tuttavia ridefiniti anche il principio volontaristico, i compiti, l’organizzazione, gli obblighi verso la pubblica ammini- strazione, le convenzioni, la rappresentanza di interessi e la condizione del personale, ossia gli altri aspetti fondamentali dell’identità e dell’operatività della CRI [ivi: 334]. Tutto ciò avveniva, si badi, mentre era an- cora in vigore lo Statuto promulgato dal presidente Cremonesi nel 1929.

L’intento del governo era quindi, come osserva Mario Mariani, quello di ridurre i compiti di assistenza socio-sanitaria della CRI in tempo di pace ed in condizioni “normali”, laddove il suo ruolo di intervento in