Secondo una periodizzazione della storia del Novecento am- piamente diffusa – la cui formulazione più nota è sicuramen- te quella di Eric Hobsbawm –, dai primi anni Cinquanta fino al 1973 il capitalismo visse la sua «età dell’oro»: tassi di cre- scita particolarmente elevati, bassissimi livelli di disoccupa- zione, economie integrate in un sistema internazionale re- golato dalla leadership statunitense. A partire dagli anni Ses- santa, poi, con tempi e modalità fortemente differenziate da
un paese all’altro, crebbero anche i salari e furono ampliate le politiche di welfare, conseguenza sia del conflitto sociale accesosi in Europa occidentale e negli Stati Uniti dalla metà del decennio sia della «sfida» portata al capitalismo dal so- cialismo reale. Convenzionalmente si individua la fine di questa fase nel 1973, quando ebbe inizio una crisi economica internazionale di notevole intensità e diffusione, che si tra- scinò per circa dieci anni. All’inizio del decennio vennero infatti meno tre fondamentali condizioni su cui si era retta l’«età dell’oro»: un ordine internazionale stabile a guida Usa, il basso costo delle materie prime e il contenimento di salari e conflitto sociale.
Nel 1971, la proclamazione da parte del presidente americano Nixon della sospensione della convertibilità del dollaro pose fine al sistema monetario internazionale basato sui cambi fissi e, soprattutto, rese ormai evidente l’indebolimento della leadership economica degli Stati Uniti.
Nel 1973, nell’autunno, i paesi esportatori di petrolio radunati nell’Opec – per ritorsione contro il sostegno occidentale a Israe- le nella guerra dello Yom Kippur – deliberarono una serie di aumenti che in pochi mesi portarono il prezzo del greggio a quadruplicare, trascinando verso l’alto i prezzi delle altre ma-
Vincent van Gogh, La Haye. Paesi Bassi (1882), Collezione privata.
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TUDIterie prime. A cavallo dei due decenni infine – ed è questa la causa forse più profonda della crisi – Europa occidentale e Stati Uniti furono investiti (con caratteristiche e tempi estremamente diversificati da una nazione all’altra) da un’ondata di conflittualità operaia che mise in discussione l’equilibrio basato sui bassi salari. In alcune nazioni del- l’Europa occidentale, come Italia e Francia, la “riottosità” del lavoro comportò non sol- tanto una riduzione dei profitti ma anche l’in- cepparsi del processo produttivo e, più in ge- nerale, una radicale crisi di legittimazione del- l’ordine capitalistico.
Le aree più avanzate del mondo occidentale furono investite dal calo del prodotto e dell’occupazione in misura rilevante, anche se inferiore agli anni Trenta. A differenza delle esperienze del passato, la crisi non si accompagnò alla caduta dei prezzi, ma, al contrario, si unì a un’inflazione molto ele- vata (la cosiddetta «stagflazione»). Proprio il combinarsi di disoccupazione – che intaccava profondamente la capacità contrattuale della classe operaia – e di in- flazione – che erodeva il potere di acquisto dei salari – finì con il rappresentare di fatto un attacco alla forza acquisita dai lavoratori e creò le premesse, nella seconda metà degli anni Settanta, per un integrale ribaltamento nei rapporti di forza tra capitale e lavoro.
La ripresa degli anni Ottanta sarebbe avvenuta, in tutto il mondo occidentale, proprio nel segno di un pieno recupero di libertà di iniziativa e di egemonia da parte delle imprese e dei detentori di capitali.
In questo senso, la crisi degli anni Settanta presenta una si- gnificativa analogia con quella degli anni Trenta: entrambe – anche se con modalità neanche minimamente comparabili – crearono le condizioni per la sconfitta politica della classe operaia e del movimento socialista e comunista, accompa- gnandone la marginalizzazione. Analogamente – e anche in questo caso si tratta di analogia e non di identità – come a fine Ottocento, anche negli anni Settanta la crisi economica si sovrappose a una crisi della leadership nel sistema eco- nomico internazionale. In tutti e tre i casi, infine, le politiche economiche adottate dai governi nazionali ebbero un ruolo decisivo nell'orientare l'andamento della crisi e nel definire “vincitori” e “vinti”.
Queste ultime osservazioni suggeriscono una considerazione conclusiva: le crisi più profonde e prolungate – alle quali possiamo molto probabilmente affiancare quella in corso – hanno sempre costituito un momento di riorganizzazione del capitalismo e di ridefinizione delle sue gerarchie interne, su scala nazionale e sovranazionale. Un ruolo ri- levante, in questo senso, è stato costituito dalle politiche eco- nomiche praticate dagli Stati e dal sistema delle relazioni internazionali. Soprattutto, ogni crisi conserva, dietro il fun- zionamento apparentemente automatico e «naturale» dei mercati, una profonda dimensione politica, inerente ai rap- porti tra le classi e alle modalità di sviluppo e di risoluzione del conflitto sociale.
Alessio Gagliardi Università di Bologna Vincent van Gogh, Les Alyscamps (1888), Collezione privata.
Nuova Secondaria - n. 7 2013 - Anno XXX
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ono passati cinque anni da quando, nell’agosto del 2007, sono comparsi i primi sintomi della crisi attuale. La responsabilità di quei titoli tossici che erano stati emessi, e dispersi nel mondo, al fine di sostenere l’ondata di indebitamento ipotecario della famiglie statunitensi, è stata individuata subito. Si parlava allora di una crisi dei subprime, senza percepire però la profondità del fenomeno.Le grandi istituzioni finanziarie negli USA ne sono state du- ramente colpite, l’una dopo l’altra. Si è scoperta allora la por- tata dei meccanismi finanziari che stavano dietro l’indebi- tamento delle famiglie, in particolare l’assicurazione (nego- ziata dalle istituzioni finanziarie sui mercati dei derivati, al- tamente speculativi) contro le variazioni dei tassi di interesse e contro la mancata restituzione dei prestiti da parte delle famiglie. Il prolungarsi della crisi finì presto con lo svelare l’ampiezza dei processi di espansione delle operazioni finan- ziarie, e dell’apogeo degli anni della finanziarizzazione neo- liberista, che esplosero nel corso degli anni Duemila. La gra- vità della crisi fu confermata dalla dimensione straordinaria del sostegno che avevano dato le autorità monetarie alla fi- nanza. Questa prima fase della crisi, propriamente finanziaria, culminò nell’autunno del 2008, quando tre grandi istituzioni fecero fallimento o furono salvate per un pelo. La crisi prese allora una dimensione mondiale e le principali economie en- trarono in recessione.
I tassi di disoccupazione presero il volo. Persino le economie più dinamiche della periferia ne furono temporaneamente destabilizzate.
La crisi non ha spiegazioni semplici. Non si tratta né di una crisi della profittabilità come negli anni Settanta, né da sot- toconsumo (al contrario, vi fu un sovraconsumo da parte dei ceti più abbienti). La sua ragione rinvia a meccanismi tanto finanziari quanto reali (consumo, commercio con l’este- ro, e così via). È stato l’esito di un tentativo con il quale le classi dominanti, i capitalisti e i quadri superiori loro alleati hanno trasformato radicalmente l’economia mondiale al fine di accrescere il loro reddito e i loro patrimoni. Un ten- tativo portato avanti fino a che è divenuto insostenibile, un comportamento da apprendista stregone. Negli Stati Uniti questa impresa ha preso la forma di una serie di squilibri cu-
mulativi: disavanzi nel commercio estero, indebitamento esterno (nei confronti di stranieri) e indebitamento interno (delle famiglie, prima della crisi). Nel contesto dell’esplosione dei meccanismi finanziari, la crisi si è diffusa nel mondo a partire dagli Stati Uniti. Tutto coerente: il debito interno de- rivava dalla necessità di stimolare l’attività, il debito esterno discendeva dal disavanzo nel commercio esterno; ad essere in questione non è soltanto la finanziarizzazione ma anche, direttamente, la mondializzazione.
La crisi, a cui alcuni attribuiscono virtù purificatrici (“è do- lorosa ma raddrizzerà la situazione”), non corregge affatto questi squilibri. Simili squilibri sono apparsi in molti altri paesi, e in particolare in Europa, ma principalmente dopo la crisi. Non sono stati la “causa” della crisi: semmai la crisi ne ha esacerbato le conseguenze.
Negli Stati Uniti il fondo della recessione fu raggiunto nel secondo trimestre del 2009. Gli economisti cominciarono al- lora a parlare della crisi al passato, tanto più che molti paesi emergenti andavano ritrovando una crescita forte. I massicci crediti erogati e i disavanzi di bilancio pubblico avevano pro- dotto i risultati attesi. “Viva Keynes!”, proclamavano alcuni, e altri lo pensavano senza dirlo.
Ciò non di meno, nel corso dell’estate del 2011 fece capolino l’ipotesi di una ricaduta nella crisi. Come il primo episodio della crisi era stato incomprensibile ai teorici dell’economia dominante, così quello in cui entravano allora le economie del vecchio centro (Stati Uniti ed Europa) rimaneva loro pa- rimenti incomprensibile.
“Normalmente”, secondo la norma keynesiana, le politiche statali di sostegno dell’attività avrebbero dovuto permettere alle economie di ritrovare un potenziale autonomo di crescita, ovvero di progredire o, almeno, di stabilizzarsi senza il sostegno dei disavanzi pubblici. Invece ora accadeva che, pur col passare del tempo, questo potenziale non si era affatto ristabilito. Le conseguenze di questo stato di cose sono ben note. Un disavanzo, cui segue un disavanzo, e poi un altro ancora... risultato, l’accumularsi del debito degli Stati.