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Una crisi a episodi Gérard Duménil

1. G. Duménil, D. Lévy, The Crisis of Neoliberalism, Harvard University Press, Cam-

bridge Ma. 2011.

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TUDI

Se politiche del genere vengono perseguite continuativamente, la crescita dell’indebitamento non conosce confini. Ed è in questa situazione che ci ritroviamo dai due lati del- l’Atlantico.

Negli Stati Uniti, dall’autunno del 2010 la Federal Reserve ha dato il cambio ai “mercati” (le istituzioni finanziarie) nel fi- nanziare il debito pubblico, impegnandosi in sostegno diretto (il cosiddetto “stampare moneta”, ribattezzato piace- volmente come quantitative easing); in Europa, sotto la spinta dei fatti, la Banca Centrale Europea ha dovuto mettere da parte le sue resistenze e avventurarsi sulla medesima strada, benché con più ritrosia. Il richiamo al keynesismo ha avuto un ulteriore prolungamento: ma per quanto tempo? Non la ripresa ma una nuova recessione provocata dall’austerità è dietro l’angolo. Le agenzie di rating fanno il loro lavoro, e paesi come l’Italia e la Francia perdono la massima valutazione (AAA).

È impressionante la perseveranza di cui fanno mostra i governi nel condurre politiche che hanno tutta l’apparenza di affron- tare la crisi ma che hanno come scopo quello di preservare l’ordine sociale neoliberista. Oggi, tuttavia, siamo giunti al ter- mine del gomitolo. Nella prima fase della crisi, nel 2008, la

memoria della crisi finanziaria del 1932 era nella testa di tutti. Salvare le istituzioni finanziarie significava salvare l’economia e l’occupazione. Quando la crisi ha preso la forma di una con- trazione della produzione, alla fine del 2008, i disavanzi pubblici sono stati tollerati a dispetto dei principi e delle regole. Il ricordo degli anni Trenta è intervenuto una seconda volta, con forza. La gestione dell’episodio successivo della crisi, quello in cui essa è ormai entrata, è un rompicapo. Incapaci di porre ri- medio alle cause del male, i governi provano a contenerne gli effetti tagliando le spese statali. Chi propone le politiche deflazionistiche ignora, o fa finta di ignorare, la lezione che aveva dato il primo episodio, ovvero l’imminenza di una nuo- va recessione. Così, le politiche odierne non possono che con- durre a una ricaduta della produzione.

Par di sognare quando si sente l’agenzia Standard&Poors stig- matizzare il ricorso unico alle politiche di austerità: “Pensiamo che un processo di riforma che si basi esclusiva- mente sul pilastro dell’austerità di bilancio rischia di rivelarsi autodistruttivo, a causa della caduta della domanda che deriva dalla crescente incertezza delle famiglie in merito alla sicurezza dell’occupazione e al reddito disponibile, il che pro- voca la caduta delle entrate fiscali.”

John French Sloan, La City vista da Greenwich Village (1922).

Nuova Secondaria - n. 7 2013 - Anno XXX

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cratici. Cosa dice Obama ai parlamentari? Il tema centrale è quello che in Europa verrebbe definito delle “politiche industriali”. Il Presidente esalta la fierezza del cittadino: “Vi ricordate dello Sputnik? Alcuni ne furono scoraggiati. Noi ab- biamo affrontato la sfida. Là, sulla Luna, siamo stati i primi. Ce la faremo di nuovo. Sì, possiamo farcela”. Ne faccio una caricatura, ma non di molto. Traduzione: “Sa- remo all’altezza della sfida industriale, quella dell’innovazione tecnologica verde”.

Si è così aperto un nuovo campo, quello della reindustria- lizzazione dei paesi del centro a fronte della delocalizzazione della produzione industriale. Ha un vantaggio elettorale si- curo, dà l’impressione di preoccuparsi seriamente delle oc- cupazioni dei lavoratori del centro. Il nodo principale è, d’altra parte, il costo del lavoro.

Il Presidente Obama fa peraltro allusione, in questo discorso, al fatto che in alcune aree della nazione il costo del lavoro sta tornando concorrenziale rispetto alla produzione delo- calizzata in Cina. In Europa il miracolo industriale tedesco è oggetto dell’ammirazione di tutti. È noto anche qui il ruolo rilevante che vi ha avuto la caduta del salario.

A parte le fasce alte delle gerarchie, in questi paesi è andato avanti un processo di compressione dei costi salariali. Ed è importante legare queste pressioni al decentramento nel- le filiere a basso costo del lavoro, in particolare dell’Europa Orientale. Si realizza così il grande sogno della mondializ- zazione neoliberale: il trascinamento verso il basso della con- dizione delle grandi masse dei salariati.

Gli Stati Uniti e l’Europa entrano così nel terzo episodio della crisi. Per rispondere alla prima, era possibile impiegare le ri- cette keynesiane. La seconda ha imposto il ritorno alle vecchie ricette della destra. La terza pone un problema ben più acuto. Si tratta di mettere le mani nelle intoccabili regole del neo- liberismo. A meno che la crisi faccia il gioco dell’estrema de- stra o che le sinistre ritrovino la loro identità.

Gérard Duménil Centre National de la Recherche Scientifique, Parigi (traduzione di Riccardo Bellofiore)

Ogni memoria è selettiva. Quello che oggi viene rimosso non è nient’altro che la lezione essenziale che si dovrebbe tirare dell’esperienza tra le due guerre, è che la depressione degli anni Trenta non fu superata se non al prezzo di riforme ra- dicali. Delle barriere furono elevate contro le derive finan- ziarie: furono costruiti, e definiti in modo compiuto dopo il secondo conflitto mondiale, nuovi meccanismi di funzio- namento, un nuovo compromesso sociale. È al prezzo di tra- sformazioni del genere che poté aver luogo la dinamica di crescita successiva alla guerra. Il contrasto con l’oggi è fla- grante. Non si è messo in moto nessuno dei mutamenti ri- chiesti. Le politiche sembrano mirare esclusivamente a rin- forzare le tendenze neoliberiste. Negli Stati Uniti è stata votata una legge importante, il Dodd-Frank Act, che vuole regolare i meccanismi finanziari, ma i repubblicani ne bloccano l’at- tuazione. Su altri terreni, come quello dei paradisi fiscali, del commercio internazionale, o dell’investimento all’estero, non si è pensato a nulla di serio.

Che fare? Protezionismo, fine del libero scambio o della mo- bilità internazionale dei capitali? Ve lo immaginate? Il potere delle società trans-nazionali e i redditi che ne ri- cavano i loro proprietari vengono dal libero dispiegarsi di queste società sull’intero pianeta. La parola magica è ricon- quistare la “competitività”. Non sarà facile, perché i settori industriali del centro perdono velocità, e sono in caduta li- bera. Lo Stato dovrà intervenire. Non approfondiremo qui i caratteri ben poco neoliberisti di un tale intervento pub- blico. Ma non bisogna confondere la realtà (la prosperità del- le transnazionali) e i principi (il rispetto del “libero merca- to”). Due pesi, due misure. Ed è in questa scissura dell’ideo- logia neoliberista che si è impegnato il Presidente Obama. Il 25 gennaio 2012 Obama ha fatto il suo discorso sullo Stato

dell’Unione davanti al Congresso, nel contesto sfavorevole

segnato dalla perdita della maggioranza da parte dei demo-

John French Sloan,

Tramonto, West Twenty-Third Street (1905).

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Olga Rozanova (1886-1918), La città.

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na crisi finanziaria avviene quando una persona giu- ridica (sia essa un individuo, un’impresa o un go- verno) si ritrova nella condizione di non poter re- golare i propri impegni finanziari, come il pagamento degli interessi o la restituzione dei debiti, entro i termini stabiliti per questi pagamenti. Nei paesi in cui il credito è regolato dal diritto commerciale, la persona o l’impresa insolvente è portata in tribunale e le sue proprietà sono espropriate e vendute per ripagare il debito. Questa pratica è considerata una modalità più civile di affrontare il problema dei debiti non pagati, quantomeno rispetto ai metodi brutali che do- minano altrove.

Finché le crisi di questo genere rimangono economicamente marginali possono essere tollerate in quanto elemento strutturale del sistema capitalistico di mercato, all’interno del quale vi saranno anche delle vittime, dei ‘per- denti’, ma gli affari e il sistema nel suo com- plesso comunque procedono e addirittura prosperano. Tuttavia, se troppi individui, o troppe attività economiche, si trovano in que- ste condizioni, allora c’è la possibilità che si manifesti una situazione di deflazione da de- bito. La deflazione da debito avviene quando individui, imprese o governi riducono i loro investimenti perché i loro redditi non sono sufficienti a mantenere il regime di spesa e, contemporaneamente, rispettare gli impegni di pagamento dei debiti contratti.

Con una spesa ridotta, anche la domanda sui mercati si abbassa. Imprese e famiglie, le cui entrate dipendono dalla domanda dei mer- cati, si trovano con un reddito falcidiato. Così, quegli agenti sono costretti a ridurre la loro spesa e non possono rispettare gli impegni di pagamento. Se la deflazione da debito si dif- fonde, l’economia entra in una fase di depres- sione che colpisce tanto il commercio quanto l’industria.

Le imprese licenziano i lavoratori al fine di ri-

durre i costi e risparmiare denaro sufficiente per pagare i debiti. Di norma le imprese non rimpiazzano i lavoratori che lasciano a casa o che si ritirano, facendo così aumentare drasticamente la disoccupazione, in modo particolarmente drammatico tra i giovani, i quali in condizioni normali pren- derebbero il posto di quei lavoratori.

La situazione è complicata dalla diseguaglianza nella distri- buzione del reddito e dalla stratificazione sociale tipica del capitalismo moderno. Di solito i lavoratori meno pagati non contraggono molti debiti.

La crisi finanziaria