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La storia si conclude qui, con la sconfitta “punitiva” della nonna autoritaria, co- stretta ad accusare il colpo, e il trionfo della piccola, precocemente affrancata dalla soggezione10, giovanissima nemesi

vendicatrice dei soprusi subiti dalla madre. L’esito del racconto, d’altronde, non è scontato, in quanto il finale irri- verente – che obbliga a schierarsi – in- duce a riflettere anche sul compito della letteratura, che non deve necessariamen- te accarezzare il cuore e magari riservare un’attenzione speciale agli struggimenti degli affetti familiari, allorquando sia

nello specifico. Cfr. C. Fabbri – G. Mantovani – L. Mirri, Incontro con l’autore 1993: Gina Lagorio, Assessorato alla cultura e Biblioteca comunale, Terranuova Braccio- lini 1993 (in particolare pp. 7-8).

10. Note interessanti in proposito si possono leggere

nel paragrafo dedicato agli schemi compositivi ricor- renti nell’opera della Lagorio in D. Maffia, Forme espres- sive e radici nella narrativa di Gina Lagorio, cit. p. 84. Fra le ripetute indagini che Ilaria Bonomi ha dedicato all’opera della Lagorio si consiglia I. Bonomi, Un esempio di scrit-

tura femminile: Gina Lagorio, in A. Nesi – N. Maraschio, Discorsi di lingua e letteratura italiana per Teresa Poggi Salani, Pacini, Pisa 2008.

11. Nel libretto commemorativo di un incontro con la

scrittrice appare illuminante la spiegazione che la La- gorio fa dell’“istituto della scrittura” in genere e della sua

frutto della penna di una donna, che per di più ama declinare al femminile le sue storie. Gina Lagorio, infatti, come nu- merose altre scrittrici del nostro nove- cento (una per tutte, Maria Messina di

Casa paterna), non si uniforma al pre-

sunto stereotipo di una scrittura di ge- nere11e sceglie di narrare un rapporto

sofferto e ambiguo tra nonna e nipote, in un microcosmo parentale in cui si an- nidano malcelati rancori, mascherati da parte delle nuore con l’acquiescenza ver- so la suocera, chiaramente più forte, solo per ignavia o per difetto di coraggio nell’aspirazione a liberarsi dal giogo. Giacinta è raffigurata con le caratteri- stiche di una figura votata al comando, continuamente impegnata a consolidare il suo prestigio in seno alla famiglia, in grazia dei «beni al sole» e dell’altra arma vincente che le ha consentito il raggiun- gimento dell’attuale potere: una sana co- stituzione, sorretta da un aspetto ancora piacente e a suo modo curato. Ella di- sprezza «gli straccioni» e i malati, e si vanta di non aver fatto mai ricorso ai medici, neppure per partorire. È proba- bile che «a odiarla tranquillamente» non sia soltanto la nipotina ribelle, ma sua madre e tutte le nuore che, pur mai com- parendo in scena, fanno sentire appena il loro «ridacchiare» sommesso, partecipi del riscatto concesso loro dalla ribellione della piccola che osa sfidarla, che osa pungerla nel punto più vulnerabile per ogni donna che vede sfiorire la propria giovinezza: l’età, che incombe pesante- mente sull’autostima perfino di una donna pugnace come Giacinta, la quale preferisce essere chiamata madrina an- ziché nonna, per poter barare ancora su un’anagrafe impietosa.

Alla prevaricazione maschile, la Lagorio sostituisce quella più sottile ma non meno gravosa esercitata da una donna di potere, una matriarca dispotica; al consueto conflitto uomo-donna, fa su- bentrare quello perfino più perverso tra sole donne, allenate fin dall’infanzia alle schermaglie e alle conflittualità. E mentre asseconda il suo bisogno di scandagliare profondità solo apparente- mente superficiali o banali, registrando- ne l’imponderabile ripetitività, la Lagorio

recupera «lo spessore del quotidiano»12,

assegnandogli valore di simbolo. La nonna dai capelli bianchi come l’al- bume montato, infatti, descritta agli antipodi dell’altra, rappresenta l’anco- raggio saldo nelle incertezze della vita, la grande madre terra che tutti i suoi figli nutre e protegge, l’approdo sicuro nei momenti di tempesta.

Amedeo Modigliani,

L’amazzone (1909),

Collezione privata.

12. D. Maffia, Forme espressive e radici nella narrativa di

Gina Lagorio, cit., p. 8.

Nuova Secondaria - n. 7 2013 - Anno XXX

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Di lei povera ha invidia la nonna ricca, per l’affetto esclusivo e l’ammirazione che la bimba le porta; è a lei che viene delegato il ruolo di “supplente” di quella madre lontana e soccombente in cui la giovanissima protagonista non può identificarsi, poiché si tratta di una donna che, «se talvolta cantava, con una voce ch’era stata bella, s’interrompeva subito, come se la felicità non potesse durarle dentro più di un attimo, senza spegnersi»; sarà lei a dare forza e inspe- rate certezze alla nipotina d’adozione, in crisi di identità. L’intero racconto, come si è detto, è giocato su questo dua- lismo, ma va precisato che la bambina, pur attratta dalla nonna buona, non è del tutto impermeabile alle strane sedu- zioni di nonna Giacinta.

Sulla figura della bambina si concentra- no le attenzioni del narratore esterno, sempre pronto a calarsi nei sui panni, a coglierne il respiro, scegliendo la foca- lizzazione su di lei, che diviene perciò la lente attraverso la quale il lettore conosce gli avvenimenti, distilla i giudizi. Il narratore insiste quasi ossessivamente sullo sguardo, con un vezzo cinemato- grafico del quale riferiremo solo i mo- menti più interessanti: i primi occhi che si aprono sono, com’era prevedibile, quelli «innocenti» della protagonista, poi quelli «arrossati» dal pianto di sua ma- dre, poi di nuovo quelli della bambina, che non vediamo, perché ci viene mo- strato, invece, in soggettiva, l’oggetto del- la visione: prima «le galline [che] sempre abbassano la coda quando chi le chiama ha una voce imperiosa» e, subito dopo, «il sole [che sparisce] dietro le montagne viola».

È la volta quindi dei «piccoli occhi obliqui» della nonna, che scintillano in- quietanti nell’accesso d’ira incontrollata, alla scoperta della sortita trasgressiva della nipote; poi ancora quelli «sgranati» della piccola, intenta a decifrare il mi-

stero costituito da questa nonna che, dopo averla percossa, una volta sbollita la collera vuole rappacificarsi e le si av- vicina per darle un bacio di riconcilia- zione, mentre lei già «sentiva il ribrezzo correrle lungo il filo della schiena», pronta a cancellare, con «la mano rapi- da» passata sulla guancia, quel bacio che paradossalmente vive come una nuova violenza, una nuova coercizione. Bale- nano solo per un attimo «occhi malizio- si», questa volta di un estraneo al nucleo familiare allargato che ci è stato presen- tato: sono quelli di una figura maschile che fa da comparsa, un contadino am- miccante che rivolge un qualche pesante complimento (la bimba non afferra le parole) alla nonna ancora in grado di solleticare desideri non casti. Si impri- mono, invece, nella memoria quelli «velati di malinconia» della zia defunta, mentre non può non rimarcarsi ancora una volta quella pennellata di surreali- smo dell’«occhio dentro l’occhio», oltre- tutto moltiplicato dalla presenza allusiva dello specchio, in un gioco del doppio elevato di potenza (le due nature che convivono nella protagonista, il suo essere ancora bambina e insieme donna

in fieri).

Il narratore nega al lettore di sapere il co- lore di questi occhi, in quanto il «bianco azzurrino» in cui campeggia l’iride dalla gigantesca pupilla potrebbe appar- tenere sia a occhi scurissimi, che volgono al blu, sia a occhi chiarissimi, che si ri- flettono nello spazio celeste dintorno. Ciò che si arguisce, però, è che sono co- munque occhi straordinariamente belli, se fanno esclamare alla signora del mercato un apprezzamento che indi- spettisce la nonna, gelosa di una bellezza troppo diversa dalla sua perché voglia goderne: «E che occhi ha!».

Questi occhi che risplendono, dunque, se è vero l’adagio che sono specchio dell’anima, appartengono a una creatura

sveglia, di notevole vivacità intellettiva ma anche profondità, la quale, difatti, si pone già problemi “da grande”. Alla fine della storia si mostra cresciuta d’un colpo, più forte e sicura, pronta a com- petere con l’odiata nonna e a surclassarla con astuzia e intenzionalità (non è un caso che il narratore parli nuovamente degli occhi, questa volta definiti «irrive- renti», e saettanti in un visetto che è tutto «un riso di malizia»): la giovanissima protagonista ritiene di aver trovato final- mente il suo modello di riferimento, al- meno estetico, nella mamma, alla quale assomiglia tanto fisicamente, e ora sa che diventerà bella come lei, se non di più. Il biglietto d’ingresso nel mondo le è sta- to garantito da un’ereditarietà che soster- rà la sua aspirazione a conquistarsi un posto ambito in società, come moglie (l’orizzonte era questo, nel microcosmo contadino descritto), forse anche come madre, di sicuro come «padrona», ma la piccola non si rende ancora conto che, se nell’aspetto riprende indubbiamente la madre, nel temperamento, nell’ardi- mento e nel bisogno di affermazione è proprio alla nonna che assomiglia più di chiunque altra in famiglia. Ed è a lei che nonna Giacinta, la nonna altera e di po- tere, molto probabilmente passerà il testimone.

Rossana Cavaliere Liceo Scientifico “Gramsci-Keynes”, Prato

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ERCORSI DIDATTICI

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olo una lettura epidermica può indurre al convincimento che Beatrice sia l’unica figura dante- sca capace di sintetizzare il mondo delle donne e chiamata a declinarne la femminilità.

Molte altre presenze femminili affiorano nella comedìa dantesca: sintomo, questo, di una curiosità sentimentale, di una sensibilità verso l’universo femminile che la Divina Commedia suggella in al- cune figure femminili memorabili. È sempre meno credibile l’ossessiva, estenuante e malinconica ricerca di Beatrice che Dante realizzerebbe ad ogni piè sospinto nella sua comedìa e che induce Borges ad affermare: «Penso che Dante abbia edificato il miglior libro della letteratura per introdurvi alcuni in- contri con l’irrecuperabile Beatrice. O meglio, i cerchi del castigo e il Purgatorio australe e le nove sfere concentriche e Francesca e la sirena e il grifone e Ber- trand de Born sono elementi aggiuntivi; un sorriso e una voce, che lui sa perduti, sono il fatto fondamentale. All’inizio della Vita Nuova si legge che una volta elencò in un’epistola sessanta nomi di donna per insinuarvi, segreto, il nome di Beatrice. Penso che nella Commedia abbia ripetuto quel malinconico gioco»1.

Beatrice è una tappa, certamente impor-

tante, di quella bildung che, nella Divina

Commedia, fa della femminilità (meglio:

di una certa femminilità) il paradigma di una nuova antropologia; la proposta di un nuovo umanesimo che nella don- na per eccellenza, la Madre di Dio, trova la sua sintesi perfetta e l’espressio- ne più compiuta.

La presenza femminile scandisce in modo decisivo la comedìa dantesca, sino a ritmarne l’economia interna: ri- tengo non casuale che, in quest’ottica, il viaggio del peregrinus Dante sia, ine- quivocabilmente, compreso tra l’inter- vento di Beatrice (If II) e l’invocazione alla Vergine (Pd XXXIII).

Francesca

Le vicende che riguardano Francesca da Polenta, Pia de’ Tolomei e Piccarda Donati raccontano ugualmente di don- ne offese nella loro dignità e tradite da «uomini … a mal più ch’a bene usi» (Pd III, 106), irretite dalle logiche del pre- ponderante mondo maschile.

Così succede, per esempio, a Francesca di dover soccombere a quella legge per cui le unioni, sin dalla culla, erano pre- disposte dalle famiglie. Scrive, in propo- sito, Regine Pernoud: «Nelle famiglie nobili, ovvero regali, tali disposizioni fa- cevano senz’altro parte, in certo senso,