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Crisi senza fine? Riccardo Bellofiore

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a crisi in corso sembra non avere fine. Come ricorda Duménil, essa è scoppiata come crisi di un segmento del mercato finanziario statunitense, quello dei subpri-

me, nell’estate del 2007. Si trattava, ricorda questo autore, del-

l’apogeo del neoliberismo.

Di che si tratta? All’inizio degli anni Ottanta, reagendo alla grande inflazione degli anni Settanta, venivano messe in vi- gore, prima dal governatore della Federal Reserve Volcker, e poi da Reagan e Thatcher, delle politiche ‘monetariste’. Controllando rigidamente l’offerta di moneta, e facendo schiz- zare verso l’alto i tassi di interesse nominali e reali (cioè de- purati dal tasso d’inflazione), si pensava di porre un freno al- l’aumento dei prezzi. Il risultato fu raggiunto, ma l’alto prezzo del denaro fece sì che crollassero gli investimenti privati. In- tanto, la spesa pubblica, soprattutto sociale, veniva compressa, le condizioni del lavoro peggioravano, e dunque cadevano sa- lari e domanda di consumi.

Tornava lo spettro di una grande crisi per insufficienza di do- manda effettiva, come negli anni Trenta. Con il paradosso che intanto gli alti tassi di interesse iniziavano a far esplodere l’in- debitamento pubblico, visto che i governi erano costretti a trovare i fondi per la propria spesa in disavanzo emettendo titoli sul mercato.

Lo stesso Reagan, nel secondo mandato della sua presidenza, provvide a bloccare questa deriva fornendo domanda all’in- terno grazie a un balzo verso l’alto della spesa militare, il che produsse un aumento del deficit dello Stato. Intanto, la bilancia commerciale degli Stati andava in passivo nei confronti del resto del mondo, fornendo così domanda a quei paesi neo- mercantilisti che – come Giappone, Asia dell’Est, Germania e Nord Europa – ottenevano profitti grazie ad esportazioni di merci in eccesso rispetto alle importazioni (a questi paesi si è oggi aggiunta la Cina). Il monetarismo duro dei primi tempi si andava mutando in una sorta di ‘keynesismo mili- tarizzato’. Pochi anni dopo, dal 1987, quando Greenspan so- stituì Volcker alla testa della Fed, le cose cambiarono nuova- mente. Sui mercati finanziari iniziò una lunga corsa verso l’alto dei prezzi delle attività finanziarie. L’inflazione del prezzo dei

capital asset fu dovuta al costituirsi di un ‘capitalismo dei fondi’

– un money manager capitalism, come lo ha definito Hyman

P. Minsky. Le famiglie vennero incluse in modo subordinato nei mercati finanziari, e i loro risparmi affidati a dei gestori dei ‘soldi degli altri’, che imponevano alle imprese rendimenti elevati nel breve termine, e dunque una ristrutturazione con- tinua. Le condizioni del lavoro peggiorarono (andava costi- tuendosi la figura del ‘lavoratore traumatizzato’) e la grande impresa verticalmente integrata fu sostituita da unità produt- tive connesse in rete. I risparmiatori videro crescere, apparen- temente senza limiti, il valore della loro ricchezza. Questa fase ‘maniacale’ del risparmiatore consentì alle famiglie di inde- bitarsi con le banche: la figura del consumatore indebitato spie- ga molto della crescita del capitalismo degli anni Novanta e degli anni Duemila.

Parte dell’Europa (in cui potremmo includere alcune regioni italiane) procedeva secondo un diverso modello.

La Germania e i suoi ‘satelliti’ (essenzialmente, Olanda, Belgio, Austria, Svizzera, Finlandia) godevano di esportazioni nette, in gran parte verso il Sud Europa. Negli anni recenti que- sta dinamica si è rinforzata, e ha consentito il superamento del disavanzo strutturale nei confronti della Cina e il ridursi degli sbocchi negli Stati Uniti. Ciò ha richiesto che gli altri paesi europei fossero ‘legati’ o da un accordo di cambio che impe- disse svalutazioni competitive (il Sistema Monetario Europeo) o dalla partecipazione alla moneta unica. Le aree dell’Europa meridionale hanno visto così aumentare i disavanzi pubblici per sostenere il reddito e l’occupazione.

La crescita trainata dalle bolle finanziarie si è rivelata inso- stenibile. Una prima grave crisi è scoppiata nel 2000 quando si è sgonfiata la internet economy. Nel 2007 veniva a termine la bolla del mercato immobiliare statunitense.

Dopo la crisi finanziaria che va da metà 2007 a metà 2008, si ha la crisi reale: crolla l’attività produttiva, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Germania all’Italia, e così via. Lo spettro del Grande Crollo degli anni Trenta (si veda a questo proposito il contributo di Gagliardi) spinge a politiche ‘keynesiane’: le banche centrali inondano l’economia di liquidità, e quasi ovun- que i bilanci dello Stato vanno sempre più in rosso. Questa fase termina a metà 2009, quando si intravedono ‘germogli di ripresa’. La priorità diviene ora la stretta fiscale, le politiche restrittive. È una scelta suicida. Come ricorda Toporowski,

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quando la crisi scoppia, il risparmiatore passa dalla fase ‘ma- niacale’ a quella ‘depressiva’, deve spendere meno per uscire dal debito. Lo stesso fanno le imprese, che si trovano all’im- provviso anch’esse indebitate. È la deflazione da debiti: nessuno spende, dunque i redditi cadono, e l’atteso risparmio non si materializza. Lo Stato potrebbe evitare questo destino, ma invece di stimolare l’economia con disavanzi ‘buoni’ che producono valori d’uso per la collettività e aumento dei salari, contribuisce alla depressione con l’austerità.

Vertova segnala come la crisi abbia dato l’impressione di fa- vorire il genere femminile (i settori più colpiti erano a occu- pazione prevalentemente maschile), ma è sempre più chiaro che gli impieghi che si aprono sono poco qualificati, precari o part-time. Sulle donne si scaricheranno i costi della riduzione del welfare e della ristrutturazione del pubblico im- piego. Dal Lago rende noto il dibattito negli Stati Uniti dove la crisi ha portato a rimettere in questione le condizioni con- trattuali e il sindacato, e la stessa scuola pubblica.

Rimane da dire dell’Europa. La crisi è venuta dall’esterno. Il debito privato si è trasformato in debito pubblico. Lo stato della finanza pubblica europea non è certo più pre- occupante di quella statunitense, inglese o giapponese.

L’unico paese che aveva dei seri problemi di finanza pubblica era la Grecia, forse il Portogallo. Negli anni della bolla immo- biliare, Irlanda e Spagna erano modelli di finanza ‘sana’. Sono le politiche europee, i parametri arbitrari di Maastricht e i vin- coli che la Banca Centrale Europea ha ad agire come prestatore di ultima istanza e finanziatore dei governi (così come avviene altrove) a impedire di bloccare la spirale depressiva. Trattare la propria moneta come se fosse una valuta straniera, regolata da poteri esterni, o pretendere che tra le regioni di una medesima area monetaria (dove gli squilibri commerciali tra regioni interne non possono che essere la norma) non vi siano trasferimenti compensativi, non può che preludere al disastro. L’esistenza della moneta unica è in dubbio, e la sua soprav- vivenza rischia di essere conquistata nel segno di una stagna- zione prolungata. Intanto, la crisi procede ‘oggettivamente’ con ‘svalorizzazione’ della forza-lavoro, centralizzazione dei capitali, ristrutturazione dei processi produttivi, ‘snellimento’ del pubblico. Che così la crisi non divenga permanente è tutto da dimostrare. Un’inversione di rotta può essere imposta solo dalla politica e dalla società.

Riccardo Bellofiore Università di Bergamo Umberto Boccioni,

Visioni simultanee (1912),

Wuppertal, Von der Heydt Museum.

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utti conoscono, o quantomeno hanno sentito parlare, della crisi dei primi anni Trenta del Novecento; molti ricordano quella degli anni Settanta del Novecento; qualcuno avrà letto della crisi apertasi negli anni Settanta dell’Ottocento. I più attenti, magari, ricorderanno il crollo delle borse del 1987, la crisi che colpì le economie asiatiche dieci anni dopo o la recessione dell’inizio degli anni Duemila. E chi ha maggiore dimestichezza con la storia co- noscerà sicuramente la crisi del 1846-47, che contribuì a ina- sprire la situazione delle popolazioni europee alla vigilia del fatidico 1848, e quella del 1857, che investì le banche inglesi e americane. Queste, tuttavia, sono soltanto le più rilevanti e le più note fasi di recessione vissute dalle nazioni indu- strializzate nell’età contemporanea. Molte altre, di estensione, durata e intensità più ridotte, hanno segnato l’economia ca- pitalistica dalla rivoluzione industriale inglese a oggi. Fare la storia del capitalismo industriale significa infatti, per molti aspetti, fare la storia delle crisi che esso ha attraversato negli ultimi due secoli.

Naturalmente, le fasi di depressione economica non sono state semplici ripetizioni l’una dell’altra. Pur se prodotte da una dinamica generale comune, esse si sono differenziate profondamente per le cause immediate, l’andamento, l’estensione, la durata e l’intensità. Nell’età contemporanea, secondo una periodizzazione canonica, vengono general- mente individuate tre grandi crisi di sistema, capaci di in- vestire la totalità o quasi del mondo industrializzato, con con- seguenze sociali drammatiche; tre crisi che di fatto chiusero una fase dello sviluppo capitalistico aprendone una nuova.