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A SEMPRE IL VIAGGIO E LA DONNA SONO LE METAFORE PIÙ FERTILI PER RACCONTARE L

ESPLORAZIONE INTERIORE

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ANTE I DUE TEMI SI INTRECCIANO CON RECIPROCA INTENSIFICAZIONE SEMANTICA

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degli oneri di nascita, perché un matri- monio fra i due eredi a un feudo o ad un regno era considerato come il mezzo mi- gliore di suggellare un trattato di pace o di assicurare l’amicizia reciproca, prov- vedendo inoltre a future vantaggiose ere- dità»2.

Proprio per mettere a tacere antichi contrasti, due potenti famiglie guelfe di Romagna, Polenta da Ravenna e Mala- testa da Rimini, stipulano un’alleanza da ratificarsi con un’unione sponsale. Il ma- trimonio avviene per procura: tramite è Paolo, fratello minore di Gianciotto, il promesso sposo. Quello a cui si assiste è il pericoloso triangolo, dal ben noto esi- to. Nella vicenda narrata da Dante, Francesca è due volte tradita e vittima. La prima volta per mano dello stesso Paolo che, secondo Guglielmo Gorni, si comporta come «tentatore e corruttore», disposto a sacrificare la «vittima» Fran- cesca al suo «impeto» di «donnaiolo»3.

È sintomatico che Dante condanni Paolo all’anonimato e all’afasia. L’amante dal «cor gentile», supposto tale

1. J.L. Borges, Nove saggi danteschi (1996), a cura di T.

Scarano, Adelphi, Milano 2001, pp. 101-102.

2. R. Pernoud, Medioevo un secolare pregiudizio (1977),

tr. it. M. Bianchi, Bompiani, Milano 1983, p.107.

3. Per le citazioni cfr. G. Gorni, Francesca e Paolo: la voce

di lui, in «Intersezioni», 2 (1996), XVI, p. 386.

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da Francesca, è, in realtà, un cavaliere ignaro di cosa sia la cortesia in amore: «È come se Dante operasse una sorta di contrappasso letterario incentrato sulla scena del bacio: Lancillotto si svela e riacquista la sua identità, mentre il Malatesta perde nome e capacità di parola, nascondendosi per sempre nel cono d’ombra della donna»4. La secon-

da, per mano di Gianciotto che, scoperti i due amanti, li trucida. Per chi è stato autore di quel gesto, Francesca, mostran- do di condividere in pieno la logica della legge del maschio, reclama una vendetta compensativa, mascherata da spietata «delicatezza» (A.M. Chiavacci Leonardi): «Caina attende chi a vita ci spense» (If V, 107).

È la logica della morte. È la medesima logica, non filtrata, di quel mondo che informa la coscienza e il linguaggio di Francesca, e che farcito, emblematica- mente, di «disiato riso basciato da co- tanto amante» (If V,133-134) e poi di «amor ch’al cor gentil ratto s’apprende» (If V, 100), che «a nullo amato amar per- dona» (If V,103), cioè dei luoghi comuni della cultura egemone, è capace di pro-

durre, appunto, solo morte e distruzio- ne: «amor condusse noi ad una morte» (If V,104).

Quella di Francesca, insomma, è ancora una femminilità virile. Francesca non è se stessa. Non è, cioè, donna: incapace, com’è, di liberarsi del fardello di quel pa- trimonio letterario espressione di un po- tere maschile, che ha finito per negarne la femminilità e a cui ha sacrificato l’ori- ginalità della sua ontologia.

Pia

È nel dopo Francesca che la presenza femminile nella comedìa diviene icona di una antropologia nuova.

Nella prospettazione di una diversa femminilità risiede la chiave di un umanesimo più pieno, la nuova via al- l’uomo, che il «raznocinec» (O. Mandel- stam) Dante, tormentato e ramingo, alla ricerca di una nuova identità di uomo e poeta, intende indicare.

La storia di Pia de’ Tolomei, narrata nel quinto canto del Purgatorio, è lontano riverbero della vicenda di Francesca: epi- sodio, come quello, di morte violenta ed improvvisa che accomuna due «fragili

vittime della spietata volontà altrui»5.

Della famiglia dei Tolomei di Siena, moglie di Nello dei Pannocchieschi, Pia fu uccisa dal marito che la fece precipi- tare da una finestra del suo castello della Pietra in Maremma: non è dato sa- pere se per passare a nuove nozze con Margherita degli Aldobrandeschi o per punirla di una presunta infedeltà, riferita dal meschino Ghino, amico di Nello, che in questo modo, forse, volle vendicarsi del rifiuto di Pia ai suoi approcci, mentre Nello era in guerra.

Una storia, insomma, in cui si saldano, nelle differenti ipotesi, tradimento, ge- losia e sospetto, stato di guerra latente tra l’uomo e la donna, tale che basta un nulla a scatenare l’odio e la vendetta. Pia, però, trova il coraggio di arginare la forza distruttiva del conflitto e della ri-

4. M. Santagata, Cognati e amanti. Francesca e Paolo nel

V dell’Inferno, in «Romanistisches Jahrbuch» 48 (1997), pp. 120-156. Ora in versione digitalizzata su www.ita- lica.it, Francesca e Paolo: lettura del V canto dell’Inferno – 14 – La gentilezza d’animo secondo Francesca.

5. U. Bosco, Introduzione al canto XI, in la Divina Comme-

dia, Paradiso, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Le Monnier, Firenze 1979, p. 80.

Gustave Doré, Paolo e Francesca (Inf. V); Pia (Purg. V); Beatrice (Par. XIV).

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valsa: è una donna pacificata con gli uo- mini e con se stessa, perché capace di perdonare.

Non accusa. Presentandosi a Dante, non insiste, come fa Francesca, sul pro- prio dolore, accentuando la colpa di chi ne è stato artefice; anzi, nelle sue parole la figura dell’assassino si dissolve in quel- la dello sposo: «Siena mi fé, disfecemi Maremma: salsi colui che ‘nnanellata pria disposando m’avea con la sua gem- ma» (Pg V, 134-136). Il ricordo del marito colpevole trasmuta nella memo- ria del più bel giorno della sua vita, quel- lo del matrimonio. È il segnale di un “ol- tre” che, inspiegabilmente secondo lo- gica umana, vede il bene caparbiamente anteposto al male.

Come l’eroina ravennate, anche Pia si presenta a Dante come donna “cortese”: quanto diversa, però, la sua cortesia nella quale non traspare più la carica erotica della passione fatale, dell’eloquio sup- ponente; ma già i tratti della squisitezza e della dolcezza tutta materna: «Deh, quando tu sarai tornato al mondo e ri- posato della lunga via» (Pg V, 130- 131); la discrezione di una perorazione

misurata, scevra di retorica, che va fa- cendosi preghiera: «ricorditi di me, che son la Pia» (Pg V, 133).

Piccarda

Il mondo che con Piccarda Donati si af- faccia nel terzo canto del Paradiso è, in- vece, quello delle contrapposte fazioni che ammorbavano Firenze verso la fine del 1200, dello scontro violento e san- guinoso, della feroce lotta partigiana nel- la «città partita», della discordia che «non è più giustificata dalla tradizionale divisione tra Guelfi e Ghibellini, ma si è concentrata, in seno al partito guelfo, attorno a due famiglie, a due nomi, i Cerchi e i Donati. Nel giro di alcuni anni la rivalità familiare si trasforma in lotta senza quartiere tra due partiti, lotta de- stinata a dividere e insanguinare la città intera»6.

Quella storia di sete di potere, fatta di violenze e rancori, così spesso evocata nella Divina Commedia (ce la racconta lo stesso Dante, per esempio, nell’epi- sodio di Farinata), Dante ce la rappre- senta, questa volta, da una prospettiva tutta femminile, con esiti del tutto ori-

ginali. Piccarda è sorella di Forese e Cor- so, capo della parte Nera, il quale la strappò con forza dal monastero di santa Chiara a Firenze, per darla in sposa a Rossellino della Tosa, uno dei capi facinorosi del suo partito. Ancora una volta su una donna si abbatte la mannaia della sopraffazione, che obbe- disce alle leggi del potere. Ancora una volta, a quella logica, un’altra femmini- lità, quella di Piccarda, è sacrificata. Nella vicenda di Piccarda, con pochi e si- gnificativi tratti, Dante disegna una femminilità “in fuga” dalle passioni istintive dei partiti maschi: «dal mondo, per seguirla, giovinetta fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi» (Pd III, 103-104), dalla vita di sangue e di risse dei clan cittadini, verso una nuova “parte” («e promisi la via della sua setta», Pd III, 104), per ele- varsi nella scelta contemplativa che pri- vilegia la cura interiore come scelta di pace e di civiltà; una scelta di «libertà e di distanza, rispetto all’istinto, che rende

6. J. Risset, Dante una vita (1995), tr. it. di Margherita

Botto, Rizzoli, Milano 1995, p. 99.

Dante Gabriel Rossetti, Il saluto di Beatrice (1859).

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possibile il raccoglimento e la riflessio- ne»7. Scelta, questa, che può essere

giustificata con un atteggiamento più generale, proprio del Duecento, desi- gnato come socratismo cristiano: «Tem- peramenti assai diversi, quali Abelardo, san Bernardo e Ugo di san Vittore, han- no condiviso la convinzione che, per co- noscere il cielo e la terra, bisogna innan- zi tutto conoscere se stessi… L’introspe- zione, lungi dal rappresentare una de- viazione, appare ormai come una ne- cessità per chiunque aspiri ad elevarsi al di sopra della vita dell’istinto»8.

La stabilitas cordis et mentis, alla quale Piccarda si vota, è connaturata alla scelta monastica. Dante, giova ricordar- lo, profondo conoscitore della spiritua- lità monastica e frequentatore degli eremi benedettini di Camaldoli, S. Be- nedetto dell’Alpe e Fonte Avellana, mostra di privilegiare in pieno questo aspetto del monaco, quando, nel canto ventiduesimo del Paradiso, mette in bocca a Benedetto da Norcia le seguenti parole: «Qui è Macario, qui è Romoal- do, qui son li frati miei che dentro ai chiostri fermar li piedi e tennero il cor saldo» (Pd XXII, 50-51). Si tratta di uno star saldi e fermi non solo fisico, ma spe- cificatamente della mente e del cuore. Nota divina per eccellenza, la stabilità

non appartiene all’uomo. Quella della scelta monacale è, come scelta di unirsi a Dio, la sfida che Dante prospetta in Piccarda Donati e che la stessa Piccarda lancia alle consuetudini del suo tempo: un segnale di ricomprensione della vi- cenda umana che, per esprimere il rapporto di intimità dell’uomo con Dio, introduce il simbolo sponsale e as- socia verginità e sponsalità, in una prospettiva psico-fisica e spirituale unitaria.

Al tema della monaca come sposa di Cri- sto, «caratteristica peculiare del mona- chesimo femminile presente nella lette- ratura e nell’iconografia con continuità e con una certa bellezza anche poetica»9,

Dante fa esplicito riferimento proprio nel racconto che mette in bocca a Piccarda, che così ricorda la sua adesione all’ordine fondato da un’altra donna fuggita gio- vinetta di casa, Chiara d’Assisi: «a la cui norma nel vostro mondo giù si veste e vela, perché fino al morir si vegghi e dor- ma con quello sposo c’ogne voto accetta che caritate a suo piacer conforma» (Pd III, 98-102).

Quell’amore stesso che è chiamata a spie- gare al peregrinus Dante, e che è legge del Paradiso, è fondamento della sua fem- minilità: uniformarsi al volere divino, si- gnifica, per Piccarda, essere in carità.

All’icona femminile Francesca da Rimini era dato nella Comedìa spiegare la feno- menologia dell’eros; ad altra femminilità, quella di Piccarda Donati, è dato chia- rire, ora, le dinamiche dell’altro amore, inteso come agape cristiano.