La mappa «anticipa il territorio» suggeriva Jean Baudrillard (1979) e, come abbiamo visto nei precedenti paragrafi, quelle derivanti dai processi di crowdmapping possono rivelare non solo gli elementi, le forme, le strutture, ma anche ciò che viene tracciato dalla partecipazione, dalle azioni e dalle esperienze svolte dai cittadini in un territorio. Funzioni non previste tempo fa, rivelate dalle potenzialità interattive delle tecnologie digitali del web associate alla georeferenziazione, una condizione abilitante che permette di “scrivere storie nelle geografie”.
Non si tratta di utilizzi inediti della cartografia: le riflessioni sul crowdmapping fanno da eco ai
67 L’acronimo FLOSS (Free/Libre/Open Source Software), identifica l’insieme delle applicazioni create liberamente da una
comunità on-line di programmatori, caratterizzata da un’organizzazione informale del lavoro e dal contributo volontario dei partecipanti. Con il termine FLOSS, si richiama contemporaneamente il software libero (free software) e il software a sorgente aperto (open source).
68 Il CSS (Cascading Style Sheets, in italiano fogli di stile a cascata), in informatica, è un linguaggio usato per definire la
45
dibattiti, a cui si assiste negli ultimi decenni nel campo della geografia culturale, che riguardano le implicazioni politiche della partecipazione pubblica in cartografia. L'emergere dei GIS durante gli anni '80 ha accompagnato la retorica della rappresentazione oggettiva, innescando importanti dibattiti nel campo della geografia (Schuurman, 2006): si riferivano a ciò che una mappa è, come le persone possono o dovrebbero partecipare nella rappresentazione geospaziale, e il posto della tecnologia nella cartografia (Crampton, 2010).
Brian Harley è stato una delle primi voci a sottolineare la necessità di “decostruire” la mappa. Ispirandosi al lavoro di Jacques Derrida e Michel Foucault (Harley, 1989), ha descritto la cartografia come uno specifico potere della conoscenza, recante un potere interno (quando il cartografo impone una visione territoriale specifica su uno spazio o un evento all'interno mappa) e un potere esterno (quando le mappe vengono utilizzati dai centri di potere politico) (Harley, 1989).
La volontà comune di contrastare il “positivismo burocratico” (Pickles, 1995) dei GIS, ha comportato una serie di iniziative che sono sfociate nel corso del 1990 in una serie di progetti nati per abilitare ed esplorare nuove forme di partecipazione dei cittadini nelle mappe. Tra questi, ad esempio, il “Public Participatory Geographic Information System”69 (PPGIS) sostiene progetti umanitari in cui i membri di una comunità sono invitati ad apportare i loro input in una mappa: mappe mentali, storie orali, o altre forme di informazione (Jankowski 2009).
Il GIS partecipativo, o Public Participatory GIS (PPGIS), è stato definito come « an attempt to utilize GIS technology in the context of the needs and capabilities of communities that will be involved with, and affected by, development projects and programs» (Abbot, Chambers, Dunn, Harris, de Merode, Porter, Townsend, Weiner, 1998, p.27–28.). Diversi studiosi, tuttavia, si domandano se il GIS partecipativo rappresenti una contraddizione in termini. Diversi casi studio di esperienze di PPGIS afferenti ai paesi in via di sviluppo, afflitti da diverse forme di digital divide a partire da quello relativo all'accesso, la partecipazione è in qualche modo filtrata sin dall'inizio del processo, permeabile solo per quelli dotati degli strumenti e del capitale culturale adatto ad usarli. Nonostante ciò è forte la spinta, da più ambiti sia accademici che politici, ad una sperimentazione di un GIS “eterodosso”« The move from an orthodox to a heterodox GIS should broadly parallel the recent history of geography. That is, geography is now a heterogeneous discipline unbound by its once imperialist designs [...] to a variety of epistemological and ontological entry points for research and knowledge production. Might GIS not follow a similar path? Let us aim to produce a GIS in the image of geography itself: diverse, multiple, dynamic, interdisciplinary, and heterodox» (St. Martin, Wing, 2007, p.246).
L'impulso decisivo a nuovi settori di sperimentazione come il GIS qualitativo e il GIS partecipativo sembrano avere attenuato le differenze che separavano i “geografi critici” dai “tecnici” (Ferretti, 2007).
Frapposto a questi due approcci geografici vi è un confine rappresentato dal processo di formalizzazione, attraverso il quale qualsiasi informazione può essere processata in un sistema basato su regole informatiche come il GIS, come rileva Leszcynski «Moving from the infological to the datalogical in this way entails crossing the conceptual-formal boundary; doing so, however, requires a mechanism formalization, for translating between the conceptual and the formal» (2009). Nel loro studio, Warf e Sui (2010) riportano una serie di ambiti specialistici in cui l’uso della cartografia digitale si è smarcato dalla cornice positivista convenzionale: Participatory GIS, Volunteered Geography, Affective/Emotional GIS, Qualitative GIS, Feminist GIS, Queer GIS, Digiplaces, Ethnographic and Indigenous Knowledge, e Humanistic GIScience.
Strettamente radicata nel più ampio discorso della teoria critica, la più recente comparsa del campo definito “cartografia critica” (Crampton e Krygier, 2006) che combina attivismo, senso artistico e prospettive teoriche per affrontare questioni di razza, genere e l'empowerment utilizzando progetti di mappatura. Allo stesso modo, la “cartografia radicale” (Mogel e Bhagat, 2008) unisce una vasta gamma di strumenti di mappatura con una prospettiva di media tattici (Raley, 2009), sfruttando azioni concrete e partecipative per la “giustizia spaziale”.
Le mappe nate dalle esperienze dei PPGIS hanno un valore d'uso sociale e culturale in quanto possono essere viste come uno strumento e una modalità espressiva per migliorare le condizioni di vita di una comunità, a partire dalla pianificazione strategica che tenga conto delle istanze dei cittadini e che insieme a questi costruisca un territorio sostenibile ed inclusivo.
Il crowdmapping, prosecuzione naturale dell'esperienza dei PPGIS e integrazione di questi nel Web 2.0, esplicita, mette in pratica l’interazione tra la mappa del territorio e quelle forme espressive che lo
46
rivelano, lo narrano, lo descrivono. Sulle geografie dei luoghi, formalizzate nelle mappe on line, si potranno così inserire notazioni che danno forma ad uno sguardo itinerante che interpreta sia il genius loci sia iniziative che riguardano ambiti come l'urbanistica partecipativa, il turismo esperienziale e la cittadinanza educativa (Infante, 2012).
La mappa elaborata nella modalità di crowdmapping, in termini di medium e fattore abilitante della cittadinanza attiva e partecipata, secondo Infante può essere assimilabile alla “mappa di comunità”, una mappa che permette di rappresentare i beni materiali o immateriali di un territorio e le relazioni invisibili fra questi elementi, così come il paesaggio, i saperi, i prodotti, le storie, le memorie, i luoghi preferiti, da ricordare e dove ci si incontra, in cui ci si riconosce. Permette, soprattutto, la riappropriazione del senso del luogo, di palesare il modo con cui le comunità locali percepiscono, conferiscono valore al loro territorio, alla sua realtà attuale, di manifestare come vorrebbero che fosse. Si sperimenta, in tal modo, un concetto innovativo di territorio, in linea col suo patrimonio materiale ed immateriale diffuso, ricco di particolari e di una rete di rapporti e interrelazioni dal basso tra i tanti elementi che possono contraddistinguere, ad esempio, un quartiere. Questa sperimentazione può dare forma a un concetto “nuovo” di territorio, il quale può essere percepito e rappresentato non solo come il luogo in cui si vive e si lavora, ma che porta con sé la storia degli uomini che lo hanno abitato e trasformato in passato, i segni che lo hanno caratterizzato.
La costruzione di una cartografia dal basso, frutto della pluralità dei punti di vista di chi vive quel territorio rappresentato, può fare da contraltare alla mappatura “istituzionale” e ai suoi effetti persuasivi; da questo punto di vista la “crowdmap” incorpora un valore culturale ed ideologico che assume un’importanza fondamentale nel momento in cui si operano delle scelte politiche relative alla trasformazione di tale territorio. Si pensi ai complessi meccanismi di ricerca del consenso attivati da parte degli amministratori e dei poteri forti, sia pubblici che privati, che si basano proprio sulla pubblicizzazione di una determinata “immagine” del luogo in questione e sulla risposta più o meno consapevole dei destinatari di tali messaggi (Forester, 1989, p. 84).
I processi di mappatura, tuttavia, non sono lineari e presentano diverse criticità. Come afferma Harley, la carta è innanzitutto un prodotto culturale, un testo, dotato di un’intrinseca retorica, e di conseguenza detentore di un determinato potere comunicativo e persuasivo «per quanto l’aspetto tecnico costituisca una parte notevole di ciò che è una carta, l’aspetto culturale non può essere trascurato perché è proprio lì che si nasconde la capacità della carta stessa di influire sulla costruzione mentale dell’immagine spaziale collettiva» (Harley, 2001, p. 240). Coloro che usufruiscono della mappatura istituzionale non hanno particolari strumenti per riconoscere la retorica di cui parla Harley, e nella maggior parte dei casi non sospettano che la carta non sia obiettiva, neutrale, veritiera: assumono automaticamente le informazioni che essa trasmette come qualcosa di perfettamente aderente alla realtà, anzi come la realtà stessa, seppure in forma sintetica. Il fatto che vengano presentati solo alcuni dati rispetto alla totalità di elementi presenti nella realtà viene per lo più giustificato con una plausibile “ottimizzazione del supporto”, o con la convinzione che gli elementi rappresentati siano i “più importanti”. Risultano spesso sconosciuti i meccanismi e i criteri che determinano la scala di importanza di tali elementi: ma questo è generalmente dato per scontato, in funzione dell’autorevolezza ed ufficialità della carta in questione. L’informatizzazione dei dati geografici e la loro condivisione in rete da un lato hanno prodotto una contro-narrazione del territorio attraverso la VGI e il crowdmapping, dall'altro l'allargamento dei pubblici connessi (boyd, 2009) ha esteso ben oltre i confini locali quella retorica e quella particolare selezione di informazioni che caratterizzano ogni carta.
La democratizzazione della produzione e consumo di informazione geografica ha provocato l’aggiramento di quell’ostacolo, quel filtro che era dato dalla conoscenza accademica ed istituzionale e del controllo che quel mondo aveva: si giunge così ad una vera e propria “cartografia popolare” (Bettoni, 2009). È a questo punto che si inizia a parlare di Map-hacking: l’utilizzo delle applicazioni open-source per la cartografia con altre applicazioni in una pratica generica e non destinata solo alla geografia. L’uso di questi open-source è possibile con un determinato livello tecnologico in mancanza del quale si alimenta il digital divide (cfr. par. 2.6) che non consiste solo nell’avere accesso alla “banda larga” ma si allarga ad altre dimensioni, come competenze e motivazioni, per cui si parla di disuguaglianze digitali (Bentivegna, 2009) che possono pesare sull'inclusione sociale a queste pratiche.
Elwood e Mitchell riflettono sulla necessità di approfondire gli studi sull'interconnessione tra la VGI e il modo in cui questa potrebbe abilitare la partecipazione, l'influenza e l'agire di quegli attori sociali “less powerful” e di porre una grande attenzione nella teorizzazio e di una politica della VGI. Secondo le due studiose di geografia i lavori esistenti al riguardo, tacitamente o esplicitamente, tendono a teorizzare queste politiche allineandole alla nozione di “strategia” formulata da Michel de Certeau e
47
al suo partner concettuale “tattica”. Elwood e Mitchell rilevano che recenti lavori hanno mostrato che la VGI può essere un potente strumento di azione e impegno politico oltre a una modalità per esprimere “tattiche visuali spaziali” e luoghi chiave per la formazione politica. Nello specifico le tattiche di VGI sono significative non solo come ambienti di resistenza ed azione politica messa in atto da attori meno potenti, ma anche come pratiche che contribuiscono alla formazione dei soggetti politici, di gruppi sociali mobilizzati, di conoscenza condivisa. Riconoscere la VGI come luogo di formazione politica apre la strada verso la realizzazione del suo più ampio potenziale nello sviluppo e nella pratica di una cittadinanza spaziale critica (Elwood, 2013).
Il crescente interesse sulla questione del se e come la VGI, e più nello specifico il crowdmapping, possa abilitare forme di partecipazione, di influenza e di “agency” civica, ha stimolato numerosi studi che si concentrano essenzialmente su due aspetti, in riferimento alle modalità che possano efficacemente innescare questo processo abilitativo: offrendo agli attori sociali più marginali un maggiore accesso alle sfere e pratiche convenzionali dei processi di decisione deliberativa e cartografica (Tulloch 2008), oppure abilitandoli a creare le loro sfere alternative di deliberazione/coinvolgimento e prassi cartografiche, forme di contro-narrazione del proprio territorio (Kingsbury e Jones, 2009).
Il comune denominatore di queste due modalità è l'idea che le forme politiche attuabili mediante le pratiche riconducibili al crowdmapping, non si riferiscono al solo ambito “elettorale” ma ad un ventaglio più allargato di pratiche sia individuali che collettive, le quali agiscono e si impegnano nei confronti delle disuguaglianze strutturalmente mediate, sulle relazioni sociali e materiali della vita quotidiana, sulle negoziazioni dell'identità (Kofman e Peake 1990; Brown e Staeheli 2003).
Per de Certeau, la ‘‘strategia’’ si costituisce attraverso spazi e pratiche di attori ed istituzioni egemoniche e forme di conoscenza. Votare, presentare una mappa ed una testimonianza orale ad un'assemblea pubblica, analizzare i bisogni locali attraverso tecniche di SWOT analysis (strength, weaknesses, opportunities, threats; forza, debolezza, opportunità e minacce) sono tutti esempi di strategie. Per contrasto le tattiche rielaborano (o perlomeno rifiutano di cooperare “con” e riprodurre) le norme, le pratiche rappresentative e il significato spaziale delle strategie. Un esempio di politica del crowdmapping concepita come strategia evidenziato da Gryl e Jekel (2012) è quello dei “geo-media” collaborativi online, che possono essere ambienti per lo sviluppo e la pratica di cittadinanza spaziale critica, la quale a sua volta dipende dalle abilità dei cittadini di impegnarsi in “pratiche strategiche” (de Certeau 1984), come ad esempio avere le competenze afferenti allo “spatial thinking” necessarie per utilizzare i geo-media in modi che saranno riconosciuti dai policymakers o altri cittadini e utilizzare queste piattaforme per disseminare le loro narrazioni spaziali o sfidare quelle proposte da altri. Una sfera pubblica più inclusiva, secondo Gryl e Jekel, emergerà quando i cittadini saranno in grado di utilizzare geo-media interattivi per impegnarsi in pratiche di “strategie” rappresentative e deliberative.
Tuttavia, fanno notare Elwood e Mitchell, elaborare un potenziale politico del crowdmapping attraverso la nozione di pratica strategica implica dei limiti intrinseci: «Critical cartography and GIS scholarship have long underscored that access to the bounded disciplinary practices of cartographic ‘‘strategy’’ is by definition partial […] structural inequalities and even definitions of ‘‘the political’’ exclude some social groups from the realms and practices of deliberative politics» (Fraser 1990; Howell 1993). Lo sforzo di de Certeau, infatti, di riconoscere gli attori, le pratiche di politica e le forme di conoscenza che rimangono fuori del regno delle “pratiche strategiche” rappresentano il fulcro del suo concetto di “tattiche”. A causa di questi limiti intrinseci le teorizzazioni del significato e delle possibilità politiche della crowdmapping devono includere anche le tattiche (Elwood e Mitchell, 2013), che sono evidenti in molte iniziative che usano le piattaforme di crowdmapping per delle performance artistiche e altre pratiche “contro-cartografiche” (Kanarinka 2006; Kingsbury e Jones 2009; Perkins e Dodge 2009). Lin (2013), ad esempio, impiega il concetto di “tattica” nei suoi studi sui crowdmappers cinesi che contrastano la rapida urbanizzazione, le demolizioni forzate e gli espropri illegali. Per la studiosa americana, infatti, il crowdmapping può costituire uno spazio di resistenza e impegno civico.
In un contesto come quello del paese asiatico, i siti e le pratiche politiche “strategiche” non esistono o non possono aver luogo, considerato che le attività online sono strettamente controllate e monitorate e i cittadini hanno un limitato accesso alle strutture collegate al processo di “decision-making” formale. Nonostante ciò i cittadini interessati, ad esempio, dagli espropri forzati urbani hanno sviluppato tattiche di crowdmapping che contestano le narrative delle istituzioni dominanti e le restrizioni sulle attività e le forme di mobilità in luoghi particolari. Il crowdmapping, in tal senso, può essere la base per quegli attori che sono esclusi dalle pratiche politiche strategiche, per esprimere e mettere in pratica tattiche politiche, un ambiente dove i cittadini possono produrre nuovi spazi e condividere contro-narrative, in un contesto dove il confronto diretto non è possibile (Elwood, Mitchell, 2013). Come Lin (2013) e altri studiosi
48
suggeriscono, l'attenzione alle tattiche intese come parte del repertorio politico del crowdmapping, espande notevolmente le forme della politica e, per estensione, il range di attori politici, che possiamo riconoscere.
Concepire le pratiche di crowdmapping come tattiche e come ambiente di formazione politica, secondo Elwood e Mitchell, serve a ricollocare il dibattito sulle tecnologie geo-spaziali e sulla partecipazione (2012). Nelle prime discussioni sulla VGI e il geoweb, alcuni studiosi hanno inquadrato queste pratiche come individualistiche o, comunque, non sufficientemente partecipative (Sieber e Rahmatulla, 2010; Corbett 2011; Poore 2011; Sieber 2011).
Il dibattito è proseguito intorno ad un concetto binario ‘‘individualistico vs partecipativo’’ che richiede una prefigurazione dei tipi di pratiche che possono essere definite partecipative e quelle che non possono esserlo. Concepire, tuttavia, il crowdmapping mediante questa logica dicotomica trasferisce questo impasse alle teorizzazioni sulle pratiche di crowdmapping stesse. Ampliare, invece, la nostra comprensione sulle suddette pratiche con lo scopo di includere le tattiche visuali spaziali ci permette, secondo Elwood, di discernere un più ampio ventaglio di significative “knowledge-making practices”, e, di conseguenza, un più ampio intervallo di “knowledgeable subjects”, la cui presenza e contributo potrebbero essere trascurati o dati per scontati attraverso la prospettiva della “strategia” cartografica e geografica (2013).
Queste forme di cittadinanza “spaziale” critiche sono più importanti che mai in un mondo di “soggetti geocodificati”, prodotto attraverso un ampio impiego delle tecnologie della localizzazione digitale, e un sempre più ingombrante “panoptico70”, sorveglianza e pratiche di colonizzazione associate alle nuove tecnologie spaziali (Schuurman 2004; Dodge e Kitchin 2007; Wilson 2011; Elwood e Leszczynski 2011). Mentre la nozione di cittadinanza spaziale critica di Gryl e Jekel si focalizza soprattutto sulla sfera politica/gospaziale e le pratiche di strategia, Elwood e Mitchell si concentrano sulla necessità di comprensione di molteplici percorsi. Secondo le due studiose le tattiche spaziali visuali nella VGI e, di riflesso, nel crowdmapping, devono essere riconosciute come un percorso di cittadinanza spaziale critica poiché possono sollecitare la formazione politica del soggetto, l'interazione collaborativa che genera conoscenza condivisa e idee critiche che mobilitano questi soggetti facilitandone il coinvolgimento. In un mondo di persistenti diseguaglianze e divide digitali, le opportunità per una cittadinanza spaziale critica costruita intorno a politiche di strategie rimane tuttavia problematica per molte persone in molti luoghi, per cui approfondire il ruolo delle tattiche come pratiche di cittadinanza critica si rivela di estrema importanza (Elwood, 2014).
In geografia, il termine “partecipativo” evoca quei processi che prevedono il coinvolgimento delle comunità locali nelle fasi propedeutiche alla pianificazione e gestione del territorio. Com’è noto, attualmente tale coinvolgimento viene veicolato dalle cartografie realizzate dagli stessi enti proponenti (o da loro incaricati), che rischiano perciò di influenzare l’intero processo. Una delle possibilità, dunque, offerte dalla cartografia partecipativa è quella di permettere all’utente della rete, mediante l’implementazione delle carte, di collaborare attivamente al processo decisionale che riguarda il territorio in cui egli vive. Ne deriva la possibilità, per la Pubblica Amministrazione, di valorizzare l'informazione geografica prodotta in maniera volontaria dai cittadini, soprattutto in termini di supporto per la gestione dei processi partecipativi, a patto che l’ente pubblico riconosca valore giuridico oltre che culturale a tali forme di espressione “dal basso”.
Seguire il flusso comunicativo dal basso creato attraverso il crowdmapping può essere un metodo importante per monitorare le trasformazioni in atto in una città, di conoscerle e dunque controllarle, riuscendo a seguirne il ritmo. Il crowdmapping, da questo punto di vista, può essere uno strumento importante per gli enti locali affinché possano governare la complessità, in un’ottica di partnership con i soggetti privati nel quadro di una Responsabilità Sociale Condivisa (Parmiggiani 1997, Parmiggiani e Paltrinieri 2007), dalla quale ormai non è più possibile prescindere considerata la complessità crescente del governo del territorio. Tuttavia è necessario comprendere che non si tratta di una semplice
70 In origine il Panoptico è il modello, la struttura di un edificio ideato da J. Bentham nel 1791 per rispondere alle nuove
esigenze di organizzazione e controllo sociale in virtù dello sviluppo dei centri urbani e delle inedite condizioni di lavoro, entrambi fenomeni collaterali della cosiddetta prima Rivoluzione Industriale. Il progetto dell'architetto inglese, in realtà, anche se fu inizialmente presentato come un nuovo modello di carcere, era a tutti gli effetti una rivoluzionaria forma di concepire ogni generica costruzione, per cui rappresentava concettualmente l’edificio tout court dell’architettura moderna. La struttura si