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Web 2.0 ed appropriazione delle tecnologie digitali nel quotidiano

Capitolo 2 Società digitale, partecipazione e civic engagement

2.3 Web 2.0 ed appropriazione delle tecnologie digitali nel quotidiano

Da questa disamina del Web 2.0 e delle recenti modalità di fruizione si evince che i media digitali hanno raggiunto un livello di pervasività nella vita quotidiana ed esteso e differenziato gli spazi di consumo dei prodotti culturali; il concetto di “mobilità” e le tecnologie ad essa associati (iPad, Smart phone, Smart watch) hanno indotto la sociologia dei media a reinterpretare e ridefinire il concetto stesso di “audience” e a mettere in discussione l'ormai obsoleta idea di “consumo lineare” (Sorice, 2009).

A tal riguardo si ritiene utile ai fini della ricerca introdurre il paradigma della “domestication” che costituisce un quadro di riferimento teorico, approntato nel contesto dei media studies britannici all’inizio degli anni Novanta, con lo scopo di approfondire il rapporto tra media, tecnologie e vita quotidiana: in particolare, all’interno di questo indirizzo di studi, l’attenzione si focalizza sui vissuti sociali e simbolici che ruotano attorno alle tecnologie comunicative. Sin dagli esordi questo modello viene applicato all’incorporazione delle nuove tecnologie nel contesto della vita quotidiana, con una maggiore attenzione per le pratiche di consumo delle giovani generazioni (Scifo, 2005b).

In genere il percorso di adozione delle nuove tecnologie viene descritto in base al modello di “diffusione delle innovazioni” elaborato da Everett Rogers (1962), un processo che si articola in cinque fasi in successione, ad ognuno delle quali corrispondono categorie di consumatori che manifestano comportamenti differenti (Kotler e Armstrong, 2006; pp. 193-94). In una fase iniziale il messaggio dell’innovazione vede coinvolto un ristretto numero di innovatori, normalmente consumatori audaci, giovani, con alto capitale culturale, benestanti, molto aperti rispetto alle ultime novità, disposti a rischiare pur di sperimentare un prodotto appena uscito sul mercato. In una fase successiva seguono gli early adopters, soggetti che di frequente sono opinion leader nella comunità di appartenenza, disposti e in grado di adottare nuove idee, nuove tecnologie in tempi rapidi, pur conservando una certa cautela. La diffusione della tecnologia, poi, evolve con un andamento avente la forma di una curva gaussiana (a

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forma di campana), per cui viene adottata da una prima fascia DiMaggioranza della popolazione (early majority), composta da consumatori riflessivi, che, pur non essendo leader di opinione, si aprono all’innovazione anticipando la media, e in seguito da un’ulteriore maggioranza (late majority) di consumatori scettici, disposti ad acquistare un nuovo prodotto, a condizione che sia già stato sperimentato dalla gran parte della popolazione. La curva di diffusione si chiude infine con i ritardatari (laggards), legati alla tradizione e diffidenti nei confronti del cambiamento.

Questa prospettiva teorica presenta ogni nuova tecnologia come un oggetto definito e stabile, senza connessioni con il contesto in cui è nata e non suscettibile di cambiamenti, il quale in una fase iniziale viene preso in considerazione da una minoranza di “trascinatori”, successivamente si diffonde e giunge alla maggioranza dei consumatori, intesi a loro volta come “imitatori”: il processo di adozione delle nuove tecnologie viene interpretato in maniera lineare e razionale, in termini di progressivo allargamento degli utilizzatori a settori più ampi della popolazione. Risulta assente in questo approccio teorico una contestualizzazione delle trasformazioni tecnologiche all'interno del panorama socio-culturale in cui queste prendono forma e si sviluppano, una qualche consapevolezza delle connessioni tra le due dimensioni, come interagiscono con bisogni ed attese, ma anche con codici di comportamento e abitudini già consolidate. Lo sviluppo delle tecnologie viene, in pratica, considerato come una variabile indipendente in grado di avere una forte influenza sul cambiamento sociale. Riflettere sul del ruolo delle tecnologie nelle dinamiche della vita quotidiana significa, invece, prendere le distanze da quelle teorie che leggono l’adozione tecnologica in senso deterministico.

All’interno del paradigma della domestication l’ingresso delle ICT nella sfera quotidiana non è concepito come un meccanismo lineare e univoco, piuttosto come un processo che riguarda l’ambito del consumo inteso come pratica simbolica, che attribuisce all’oggetto significati a partire dalle configurazioni d’uso, a loro volta segnate dalle caratteristiche socio-culturali dei soggetti.

È possibile osservare, dunque, una confutazione delle ipotesi del determinismo tecnologico e un avvicinamento a quelle teorie del consumo che ne privilegiano l’aspetto di costruzione di senso, un percorso seguito parallelamente, dalla fine degli anni ‘80, dai Media Studies orientati a contrapporsi alle ricostruzioni deterministiche. Il passaggio lineare dall’adozione della tecnologia al mutamento sociale viene messo in discussione attraverso approcci che mettono l’accento sui confini permeabili tra società e tecnologia. Si tratta di un passaggio che sposta l’accento dalle dimensioni tecnologiche tout court all’uso della tecnologia e alla conseguente ridefinizione sociale della tecnologia stessa.

Facendo leva sull’approccio costruttivista alle tecnologie (Pinch e Bijker, 1987; Akrich, 1990), i teorici della domestication considerano le tecnologie come “costruzioni sociali”, plasmate da una complessa rete di attori e di fattori (economici, sociali, culturali). Al pari degli individui, anche gli oggetti possiedono infatti differenti “biografie” (Kopytoff, 1986), mediante le quali vengono evidenziate le trasformazioni che questi hanno vissuto, ma anche le caratteristiche degli ambienti sociali e culturali in cui sono circolati (Silverstone, Hirsch e Morley, 1992, p. 15). Il focus, sostanzialmente, si sposta sui soggetti che usano le tecnologie e sul loro contesto sociale e familiare, con l’obiettivo di mettere in luce il ruolo attivo che gli individui interpretano nella formazione dell’innovazione tecnologica (Silverstone e Haddon, 1996).

La nozione di “domestication”, in particolare, si riferisce al processo attraverso cui le tecnologie dell’informazione e della comunicazione si inseriscono a pieno titolo nel quotidiano delle persone, in genere nel contesto di un’unità domestica e di strutture sociali come le organizzazioni (Scifo, 2005). Il termine riconduce a quel concetto di “addomesticamento del selvaggio” (Silverstone, 2006), ipotizzando che l’artefatto tecnologico non venga semplicemente adottato, con una specifica attenzione per le esclusive funzionalità con cui è rintracciabile sul mercato, ma sia invece sottoposto ad un processo di assimilazione, orientato a ricondurlo entro le cornici delle azioni e dei significati che caratterizzano l’abituale routine (Manzato, 1995). La domestication comporta, quindi, una transizione dal selvaggio al controllo, dall'estraneità alla familiarità, attraverso la quale quello che è nuovo, inedito e potenzialmente straniante, viene inserito ed integrato all'interno di una struttura che esprime valori e norme consolidati. Questo passaggio dall’esterno verso l’interno rappresenta anche una traduzione, che dà corpo ai significati potenzialmente inscritti negli oggetti, ricalibrandoli sulla base della fisionomia degli utenti che con essi interagiscono. Il punto di riferimento è rappresentato da un contributo di carattere teorico, elaborato da Roger Silverstone, Eric Hirsch e David Morley all’inizio degli anni novanta.

Nello specifico il frame teorico a cui fa riferimento il paradigma della domestication integra in un quadro unitario diversi apporti (Haddon, 2007; Vittadini, 2011; Manzato, 2011). Un primo riferimento è rappresentato dai media studies, i quali durante gli anni Ottanta enfatizzano sempre più il contesto nel quale prende vita il consumo, assegnando al pubblico ampi margini di creatività nell’interpretazione

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delle proposte mediali e mettendo al centro del dibattito il ruolo svolto dalle tecnologie nella vita quotidiana (Hobson, 1980; Bausinger, 1984; Morley, 1986; Lull, 1988; Moores, 1988). Si concretizza in tal modo uno scorrimento dal testo al contesto, che si prefigge di andare oltre lo scarso interesse per le concrete esperienze di consumo, che caratterizza i precedenti approcci di carattere semiotico (Bennato, 2011). In virtù di questo passaggio, si assiste anche ad un’erosione dei limiti che separano concettualmente le nozioni di consumo e di ricezione, che per lungo tempo «hanno viaggiato su due linee parallele. Il primo termine era riservato alla «dimensione hard della merce, il secondo a quella soft della comunicazione» (Colombo, 2007, p. 174).

È dunque possibile riconoscere la ricchezza dei significati che caratterizzano le pratiche di consumo, evitando la riduzione della complessità dell’esperienza mediale ad «astrazione statistica basata sulla semplice esposizione al mezzo e dotata di valore puramente commerciale» (Aroldi, 2010, p. 6), come avviene solitamente nelle indagini sugli ascolti televisivi. Un secondo riferimento viene fornito, a dimostrazione di quanto appena detto, dalle riflessioni sul consumo (Douglas e Isherwood, 1980; De Certeau, 1980; Bourdieu, 1979; McCracken, 1990), che nel corso degli anni Ottanta iniziano ad evidenziare il carattere simbolico delle merci, segnalando come il consumo non si riduca al momento dell’acquisto, ma riguardi l’intera vita quotidiana delle persone (Parmiggiani, 2007; Paltrinieri, 2004).

Il risultato è, innanzitutto, l'irruzione sulla scena di un'inedita figura di consumatore attivo, che produce il significato dei beni che utilizza: un soggetto creativo e, a volte, anche critico, impegnato costantemente a rielaborare, coerentemente con i propri fini, i messaggi che gli vengono proposti dai mass media e dalle imprese (Parmiggiani, 2007; Paltrinieri, 2004; Codeluppi, 2003). Come messo in evidenza da de Certeau, consumare, cioè “assimilare” significati, non significa diventare simili a ciò che si assorbe, quanto «rendere quel che si consuma simile a ciò che si è, farlo proprio, riappropriarsene» (de Certaeu, 1980; trad.it., p. 166). In secondo luogo, il consumo viene riconosciuto sempre più come attività in cui si esprime una forte componente relazionale: l’accento si sposta dal singolo atto d’acquisto, inteso come espressione della soggettività e dell’identità dell’individuo, allo scambio dei beni, interpretato come modalità per organizzare significati e relazioni sociali, dunque come linguaggio111. Silverstone rielabora queste suggestioni e le sviluppa in un modello teorico, finalizzato ad esplorare il modo in cui i soggetti vivono nel quotidiano l’esperienza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione: si realizza in questo modo una «convergenza tra gli ambiti di discorso tradizionali del consumo e della comunicazione» (Aroldi, 2010, p. 7).

Un terzo elemento è rappresentato da quegli studi (Akrich, 1992; Latour, 1994), che tematizzano i confini evidentemente porosi tra società e tecnologia, spostando il focus dell’attenzione dalle dimensioni tecnologiche tout court all’interazione con l’utente (Manzato, 2011). In questa prospettiva gli oggetti acquisiscono un nuovo statuto: abitualmente concepiti come protesi, estroflessioni del corpo umano, vengono ora riconosciuti come interfacce dialoganti con l’utente (Bonsiepe, 1995). Grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie, essi possono infatti incorporare un numero crescente di programmi d’azione (Latour, 1992). La conseguenza è duplice: per un verso, molte attività realizzate in passato dagli esseri umani vengono delegate a dispositivi “intelligenti” (robot, macchine a controllo numerico), per un altro verso, si moltiplicano gli artefatti che contengono degli “script”, in grado di dettare precise regole di comportamento agli utenti.

L’azione, di conseguenza, non viene più interpretata come appannaggio esclusivo delle macchine o delle persone, ma come risultato di un allineamento tra elementi umani e non umani (Latour, 1992). Non si tratta, in ogni caso, di un processo le cui fasi sono predeterminate, in quanto durante il suo svolgimento possono emergere utilizzi alternativi, i quali si oppongono allo script inizialmente incorporato nell’oggetto.

Presi come un tutt'uno, questi elementi si combinano nella definizione di un approccio teorico, che mira ad «affrontare il cambiamento socio-tecnologico dove era DiMaggiore importanza e dove era quasi completamente dato per scontato: gli intimi spazi domestici» (Silverstone, 2006, p. 231).

I Cultural Studies hanno collocato, per l'appunto, il loro focus di ricerca su una revisione dei modelli comunicativi, insieme all'oscillare dell’interesse tra l’analisi del testo e quella del contesto di consumo, ossia tra i prodotti culturali e le circostanze sociali di produzione e consumo, sempre in linea con una particolare attenzione al processo di significazione nella vita quotidiana (Grandi, 1992). Un loro aspetto costitutivo è rappresentato dal costante riferimento alla struttura sociale nella quale vivono i soggetti che producono e consumano cultura.

111 L’esperienza del consumo rinvia - anche nell’etimologia del termine: da cumsumere e/o cumsumma - ad «un modo corale

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Il concetto di cultura che è alla base dei Cultural Studies esalta il carattere processuale e interpersonale del conferimento di significato con cui i soggetti, nel contesto di sistemi sociali e orizzonti storici, definiscono il senso delle identità, delle relazioni e delle oggettivazioni della cultura (Corchia, 2011). Questo orientamento emerge dalle definizioni avanzate, tra gli altri, da Stuart Hall, il quale nel suo “Encoding/Decoding in Television Discourse” (1980b) afferma che «la cultura non è una pratica, né semplicemente la descrizione della somma delle abitudini e dei costumi di una società. Essa passa attraverso tutte le pratiche sociali ed è il risultato delle loro interrelazioni». Secondo John Fiske (1989) la produzione di cultura e di significati sociali sono processi dinamici che si alimentano vicendevolmente « (la cultura è) un processo continuo di produzione di significati sociali e frutto della nostra esperienza sociale; tali significati producono necessariamente una identità sociale riguardo alle persone coinvolte. [...] La produzione di cultura (e la cultura è sempre in evoluzione, non è mai acquisita) è un processo sociale: tutti i significati del sé, delle relazioni sociali e tutti i discorsi e i testi che giocano un importante ruolo sociale possono circolare solo in relazione a un sistema sociale».

Ponendo il focus della loro indagine sull’audience, i Cultural Studies hanno contribuito a verificare il livello diversificato di ricezione del pubblico. Tuttavia, per quanto ciascun individuo consumi in tempi e modi propri i prodotti culturali, come sottolinea Livolsi, all’interno di tali ricerche sull’audience prevale una prospettiva sociologica che ritiene i processi culturali strettamente correlati con i rapporti sociali, nello specifico con i rapporti di classe, con le divisioni sessuali, con la strutturazione razziale, e con le rispettive subculture di interpretazione dei messaggi mediali. I pubblici sono identificati all’interno dell’approccio culturale in base alla loro appartenenza collettiva di classe, di genere o etnica: attorno a queste variabili si possono costruire segmenti particolari di pubblico che condividono le stesse esperienze, gli stessi modi di accostarsi ai media (Corchia, 2011). L’accento viene posto infatti non tanto sulla singolarità che contraddistingue le pratiche di consumo individuali, ma sulle cornici che contribuiscono a dar forma ai fenomeni di ricezione secondo modelli in certa misura comuni e condivisi (Livolsi, 2011). Il modello comunicativo dei Cultural Studies ricomprende i contesti, sistemi di credenze, rapporti sociali e forze produttive, in cui sono situati le “attribuzioni di significato” sia da parte dei produttori che da parte del pubblico.

I Cultural Studies grazie alla loro impostazione culturologica hanno fortemente rivalutato il pubblico, l'audience secondo la terminologia della Scuola di Birmingham, come componente attiva nella classica tripartizione dei Media Studies autore-testo-audience (Grandi, 1992). Il modello encoding/decoding di Hall (1973) evidenzia come le forme con cui la televisione codifica il proprio contenuto, non sempre corrispondono ai modi attraverso i quali l'audience decodifica. L'attenzione rivolta alle capacità interpretative del pubblico dei media ha stimolato diverse concettualizzazioni di un pubblico sempre più coinvolto in prima persona nel processo di fruizione mediale, creando al contempo un divario fra l'audience intesa come soggetto sociale attivo e l'audience come collettività di individui da misurare, analizzare e vendere al mercato della pubblicità (Ang, 1998). Le posizioni teoriche maggiormente concentrate sull'autonomia del pubblico hanno definito la pratica della fruizione dei media sotto la prospettiva di diverse categorie: quella di interpretazione (Lindlof, 1988), di consumo (Moores, 1998) e di adorazione (Lewis, 1992).

Nel saggio di inaugurazione della rivista «New Media & Society», Sonia Livingstone (1999) si chiedeva se l'avvento dei nuovi media presupponesse delle nuove audience. La moltiplicazione dei media legati al consumo individuale (e la relativa mescolanza fra spazio pubblico e spazio privato), la diversificazione dei media tradizionali nella forma e nel contenuto come reazione allo sviluppo dei media digitali, la convergenza tecnologica e la tendenza verso l'interattività sono le componenti che trasformano le audience televisivamente intese. In un ambiente digitale in cui chi produce contenuti è anche chi li consuma, in un contesto che ricorda la figura del prosumer (Toffler, 1980), recentemente attualizzata con la definizione di produsage (Bruni, 2008), è evidente che tale accezione del termine è difficile da mantenere.

Per affrontare l'ambiguità produzione/consumo di oggetti culturali (de Certeau, 2001), tipica anche del web partecipativo, alcuni studiosi hanno cercato di rendere più articolato il concetto di pubblico alla luce del cambiamento degli spazi “sociomediali” in cui esso prende forma.

È questa la strada intrapresa, ad esempio, da danah boyd che attraverso il suo concetto di networked publics (“pubblici interconnessi”, boyd, 2008b), definisce un'accezione di pubblico che viene sviluppata per descrivete le relazioni sociali che si instaurano nell'ambito dei social network, la quale gode delle proprietà ed è caratterizzata dalle dimensioni di cui abbiamo parlato in precedenza.

Si potrebbe pensare che i media digitali interattivi abbiano attualizzato le audience attive, mentre in realtà «il termine “attivo” serve a qualificare un ruolo che non esiste più. Gli utenti dei media digitali

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condividono, taggano, twittano, postano, editano, caricano, aggiornano: qualunque cosa sia, comunque non può essere semplicemente definita ricezione» (Bennato, 2011). Riflettere su quelle che sono le comunità che si sviluppano in quel territorio senza soluzione di continuità tra online e offline, può evidentemente supportare la comprensione di questo processo di attualizzazione delle audiences.