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Prosumerismo online

Capitolo 2 Società digitale, partecipazione e civic engagement

2.6 Web 2.0 e prosumerismo digitale

2.6.2 Prosumerismo online

L'evoluzione del panorama mediatico globale che si esplicita mediante la pervasiva diffusione delle reti relazionali digitali, ha sicuramente contribuito a mettere al centro il concetto di prosumer, (ria)affermando pienamente il ruolo del consumatore che prende parte attiva al processo di produzione con la sua attività sia essa di tipo materiale che di tipo simbolico. La categoria prosumer può esser definita una sorta di categoria ombrello, che tende a inglobare fenomeni molto eterogenei, anche contraddittori tra loro. I fenomeni che questa categoria contempla oscillano dall’ampliamento degli ambiti della creazione dei significati da parte del consumatore, che riconquista territori che erano appannaggio della produzione istituzionalizzata, all’estensione dello sfruttamento della creatività del consumatore da parte della produzione, alla quale per contrapporsi Fuchs propone un prosumerismo commons-based, dove bene comune è innanzitutto la comunicazione (2012).

Il prosumerismo, secondo Mazzoli (2009), è una delle categorie fondamentali per osservare il mutamento dell'azione sociale in conseguenza dell’avvento del Web 2.0 e delle caratteristiche di socialità, di networking, partecipazione e produzione (e consumo) di contenuti generati dagli utenti che la loro diffusione ha comportato.

Il prosumerismo digitale è rappresentato dalle nuove forme di elaborazione dei contenuti da parte degli utilizzatori della Rete che favoriscono “l'estensione” del ruolo di emittente e ricevente interdigitale, come avviene ad esempio nel caso delle forme collaborative d'uso e scambio di contenuti via rete generati dagli utenti (Bartoletti e Paltrinieri, 2012). In pratica l'utente digitale da semplice “consumatore” di contenuti memorizzati, rielabora e riusa le stesse informazioni ricevute e le rinvia in rete (mash-up), aggregando dei “nuovi” contenuti rispetto all'originale, anche in forma di mero commento aggiuntivo. Una volta rielaborato e fatto “proprio” un contenuto fruito, il ricevente diviene “emittente” (prosumer). Bruns (2008, 2009) propone il termine di produser (producer/user), mentre Benkler (2006) definisce la “common-based peer-production” mentre Bauwens (2005) parla di “p2p production” (produzione da pari a pari). Il prosumerismo in rete assume diverse forme e declinazioni, si pensi ad esempio alle forme collaborative di produzione di software “open source”, alla creazione di conoscenza in maniera collaborativa come Wikipedia, fino al citizen journalism e al crowdmapping.

In ambito economico si parla di co-creazione (Prahalad e Ramaswamy, 2004; Ramaswamy e Kerimcam, 2014), concetto che ha recentemente avuto un forte impatto in settori quali lo studio dei media e delle imprese. Sempre nell'ambito degli studi economici, Tapscott e Williams (2006) intendono, come si accennava in precedenza, il prosumer parte di un nuovo modello di “Wikinomics” in cui le aziende possono letteralmente mettere il consumatore al lavoro. In queste forme di prosumerismo il coinvolgimento del consumatore è a diversi livelli: sia nella fase di (co)produzione, sia in quella di ideazione, promozione e comunicazione del prodotto stesso. Si parla, in questo caso, di “pre-sumer” e di impresa estesa, che integra nella “rete del valore” i clienti finali, accanto ai tradizionali fornitori, partner in affari, investitori (Prahalad e Ramaswamy, 2000). Sono sempre più le imprese che incentivano

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i consumatori, individualmente o aggregati in gruppi attraverso la rete, a cimentarsi con prototipi e con kit progettuali, utilizzando metodologie basate sul learning by doing (Thomke e von Hippel, 2002, p. 76).

In sostanza, le forme più recenti e innovative di prosumerismo definiscono un percorso bidirezionale, nel quale produttori e consumatori non si cristallizzano più in categorie fisse e predeterminate, ma assumono ruoli temporanei e continuamente mutevoli, il cui denominatore comune è l’esperienza della co-creazione di un valore unico per entrambi gli interlocutori (Prahalad e Ramaswamy, 2004). In pratica, oggetti e servizi non vengono più progettati, prodotti, comunicati per il cliente, ma con il cliente.

Beer e Burrows (2007) osservano come emergano nuovi rapporti tra produzione e consumo online, in particolare nel Web 2.0. Humphreys e Grayson (2008) hanno discusso di prosumerismo in relazione alla teoria marxiana. Zwick et al. (2008) collegano il concetto di prosumerismo alla teoria di Foucault e a quella neo-marxista, osservando come grazie a essa le imprese offrano maggior libertà ai consumatori133«il coinvolgimento dei consumatori in processi di cooperazione produttiva sia fondato sulla loro necessità di riconoscimento, libertà e comportamento» (p. 185). Xie et al. (2008) analizzano la propensione generale di coinvolgimento nel prosumerismo.

Si supera dunque, almeno in linea di principio, il dualismo tra sfera della produzione e sfera del consumo, che contrassegna, sia pure con diversi accenti e sfumature, tutti i modelli teorici precedentemente accennati, così come le forme tradizionali di prosumerismo: nella nuova prospettiva l’accento è posto sulla natura della relazione, che viene completamente trasformata. Basta pensare al processo collaborativo, “crowdsourced” (cfr. par. 2.4) che ha dato origine a Linux, a Firefox, o alla stessa Wikipedia, e al carattere orizzontale e partecipativo di questa tipologia di organizzazioni (Hedlund, 1986; Valdani, 2000; Gagliardi, 2003), che sostituiscono la verticalità, tipica dell’organizzazione fordista, con l’orizzontalità della comunicazione, integrando l’apporto delle nuove tecnologie digitali nel contesto di un nuovo modello di business, che sfrutta la forma della rete e la forza degli ecosistemi (Anderson, 2012). L’intelligenza, che nel fordismo era centralizzata, diventa adesso socialmente distribuita tra una pluralità di attori, che danno luogo ad «un modo di produrre la conoscenza che nasce dal basso, mette in rete tante competenze specializzate e si propaga coinvolgendo una platea vasta e differenziata di utilizzatori» (Fabris e Rullani, 2007, p. 18).

I prosumer digitali offrono un contributo di carattere strategico, partecipano alla ridefinizione delle regole del gioco, e non si limitano più a giocare con queste (Parmiggiani, 2011, p. 7). Siamo dunque in presenza di un gioco infinito, che dilata continuamente i propri confini: un ambito caratterizzato da un regime di abbondanza e non di privazione, nel quale si dà vita non a una “lotta posizionale”, ma a uno sforzo condiviso per creare valore, andando (ipoteticamente) incontro agli interessi dei diversi attori coinvolti.

In un loro saggio George Ritzer e Nathan Jurgenson (2010) sostengono che, sebbene il prosumer non sia stato inventato dal Web 2.0, è proprio grazie alla massiccia popolarità di molti dei suoi sviluppi, in particolare dei SNS, che il processo di prosumption si è diffuso in maniera esponenziale, finendo per diventarne il principale facilitatore: da Wikipedia a Facebook, da Youtube a Twitter, fino al GeoWeb, il processo di mappatura online, dove gli utenti possono creare e potenziare i contenuti attraverso gli strumenti offerti da Google, Microsoft, Yahoo! (Helft 2007).

Gli utenti di Google Maps o di OpenStreetMap, per esempio, possono creare elementi geografici o correggere errori sulle mappe, segnalare servizi pubblici o attività economiche, caricare foto, video o link ad articoli di Wikipedia, creare comunità sociali sulla base delle loro esperienze spaziali.

L’economia capitalista, specifica Ritzer, (così come la pre-economia e quella non capitalista), è sempre stata dominata dal prosumerismo (Ritzer, 2009). Tuttavia «grazie al crescente coinvolgimento e alla popolarità di molti suoi prodotti (per esempio siti di social network), si può legittimamente affermare che attualmente il Web 2.0 costituisca il luogo in cui il prosumerismo è maggiormente diffuso, oltre a esserne il principale facilitatore in quanto “mezzo di prosumerismo”».

Ritzer parla di una nuova forma di prosumerismo, che definisce digitale, legato proprio alla produzione e condivisione di contenuti sul Web 2.0 e che contrappone, per certi versi, a quello tradizionale in quanto nel contesto del prosumerismo che prende vita nel web sociale i capitalisti sono incapaci, o comunque trovano molto difficile, controllare i prosumer digitali; altra caratteristica che distingue il prosumerismo digitale da quello tradizionale è che il primo si basa sull’abbondanza dei contenuti e sulla gratuità del lavoro di chi li crea. Proprio la diffusione nel Web 2.0 di una cultura della

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gratuità, della generosità, della condivisione porta a mettere in secondo piano l’efficienza e a concentrarsi sull’efficacia, sulla qualità dei prodotti e servizi di qualità, un aspetto che metta in discussione o comunque rende più difficoltosa l’attivazione della logica del profitto tradizionale: non esistono più prodotti “finiti”, ma opere aperte, β-release, che prendono corpo nel contesto di processi di apprendimento, caratterizzati da tentativi ed errori, repentini cambiamenti di fronte, decisioni che vengono via via riformulate, continue interazioni con tutti gli attori coinvolti (Ritzer e Jurgenson, 2010).

La preoccupazione concerne la qualità di ciò che si produce a prescindere da ciò che serve per realizzare tali prodotti o servizi. Emblematica in tal senso è Wikipedia che si basa su un numero enorme di volontari che inseriscono milioni di voci sempre aggiornate e si adoperano per correzioni e aggiustamenti, senza tenere in considerazione ciò di cui necessita il prosumer che crea la voce. Questo modello sarebbe impossibile per un concorrente orientato al profitto come l’Enciclopedia Britannica, che per realizzare un profitto ha bisogno di limitare notevolmente gli input da parte dei contributori pagati (Jurgenson e Ritzer 2009; Jurgenson 2010).

Questo inedito rapporto tra forme economiche moderne e prosumer digitali secondo Ritzer potrebbe condurre a una nuova forma di capitalismo: «Un cambiamento di paradigma sembra essere in corso nel modo di pensare l'economia. Coinvolge un movimento ben lontano dal pensare a produttori e consumatori come separabili e distinti e più rivolto a concentrarsi sui prosumers o su coloro che sono simultaneamente coinvolti sia nella produzione che nel consumo».

Per Ritzer e Jurgenson siamo di fronte a una nuova frontiera del capitalismo dove emerge, in un'ottica macro, la capacità autoreferenziale del Capitale di riprodursi: il prosumer capitalism. Esso è, per i due accademici americani, una forma storica che si discosta da quelle del passato in base ai seguenti fattori: minor controllo delle imprese sulle attività dei prosumer, maggiori resistenze da parte dei prosumer, un sistema caratterizzato dall’abbondanza piuttosto che dalla scarsità e dall’efficacia piuttosto che dall’efficienza. Nonostante il capitalismo abbia dovuto attuare una serie di compromessi, secondo Ritzer e Jurgenson la sovradeterminazione della logica del Capitale non viene messa in discussione, anche se ci si interroga se le nuove forme da esso assunto possano legittimamente esser catalogate sotto la voce “capitalismo” nelle accezioni finora adottate.

Ritzer e Jurgenson sostengono che il capitalismo ha scoperto un modo per sfruttare la forza-lavoro di un’intera nuova popolazione: il consumatore declinato come prosumer. Questo lavora gratuitamente producendo solo plusvalore, spesso per meri motivi ludici. Questo lavoro viene sfruttato dalle web corporation che “detengono” gran parte delle risorse del Web 2.0 (Amazon, eBay, Wikipedia, Google, Facebook, ecc.) che le mette in grado di fornire servizi, o consentire l’uso di una parte delle risorse produttive a volte permettendo agli utenti di scegliere il colore delle scarpe per il footing, a volte facendo loro creare i propri profili sui SNS. Il profitto, o il profitto potenziale (branding, ecc.), resta dei proprietari (per esempio nel caso di Wikipedia, Jimmy Wales). D'altro canto si assiste anche a una forma di empowerment per il prosumer stesso. Nel caso, ad esempio, di Facebook, l’empowerment consiste nel fatto che un utente può scegliere esattamente come presentarsi, modificando a proprio piacimento ogni opzione, oltre ad avere la possibilità di gestire in maniera efficace innumerevoli relazioni. I due studiosi americani, inoltre, mettono in rilievo il livello di visibilità per la propria professione ottenibile grazie al Web 2.0, ad esempio mediante blog, o postando foto e video professionali su Flickr o You Tube, o lavorando ad un progetto di software open source come Linux o Mozilla, ecc.

Chris Anderson (2009) nel suo libro, Free, dimostra come la maggior parte del Web 2.0 si basi su di un’economia in cui i prodotti e soprattutto i servizi sono forniti a titolo gratuito. Le società del Web 2.0 riescono, almeno nel breve periodo, a distribuire i loro prodotti gratuitamente, perché il costo di hosting foto, account e-mail, video, profili di social network ecc. è molto basso e in continuo calo. Se l’infrastruttura iniziale e la progettazione di un servizio web ha un costo abbastanza elevato, il costo marginale, per un’attività, di aggiungere un altro account di posta elettronica, o caricare un video su YouTube, fotografie su Flickr, si avvicina allo zero (Anderson 2009). L’obiettivo per la maggior parte delle società Web 2.0 è quello di creare e poi migliorare il “valore” del loro sito (trasformandosi in un marchio ben noto). Lo fanno aumentando il numero di utenti, attraverso la pubblicità e una crescente visibilità ed espandendo ciò che il sito può offrire principalmente grazie ai contributi dei prosumer, delegando loro i costi di sviluppo (in gran parte i costi di manodopera e di attrezzature informatiche), brandizzando il sito e, a volte, attraverso la creazione di vari flussi di reddito (Degli Esposti P., 2017). Successivamente i profitti sono assicurati, il più delle volte, dalla vendita di informazioni e di profilazioni per scopi pubblicitari.

Su questi temi il dibattito continua tendendo a polarizzarsi in opposti estremismi: da un lato, l’entusiastica adesione all’idea di una nuova economia, animata dalla logica del dono e dello scambio

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alla pari, basata sull’open source, sulla peer production (Tapscott e Williams, 2006; Libert e Spector, 2008), sul coinvolgimento attivo di gruppi di consumatori appassionati (Cova, 2003), dall’altro lato, l’atteggiamento scettico e disincantato di chi rileva come le nuove forme di consumo produttivo si esercitano pur sempre entro un range di possibilità rigidamente definito dalle imprese (Codeluppi, 2010), generando semplici miglioramenti incrementali (Pisano e Vergani, 2008) o, più spesso, proposte mediocri ed uniformi (Keen, 2007; Lovink, 2008; Carr, 2008), prive di autentico slancio creativo. Non manca del resto chi intravede in questo modello l’ennesima cessione in outsourcing di attività un tempo presidiate all’interno delle imprese (Zwick, Bonsu e Darmody, 2008; Codeluppi, 2007), evidenziando il limitato beneficio che può trarne il consumatore.

Più precisamente: all’incrocio tra produzione e consumo sembra profilarsi un’area di“terzo lavoro”, non codificato e non retribuito, che si affianca a quello retribuito e a quello riguardante la cura di se stessi, della casa, della famiglia. Con conseguente contrazione dei margini di autonomia personale e degli spazi dedicati al tempo libero (Toffler, 2006).

Altri contributi, più equilibrati, mettono in luce le sensibili distanze esistenti tra i molteplici filoni di ricerca che pongono l’accento sul ruolo attivo del consumatore: tali filoni si confrontano con aspetti diversi delle pratiche di consumo e affondano le radici in differenti background concettuali (Cova e Dalli, 2009).

Jurgenson (2010) sostiene che il prosumerismo online segni un’inversione di tendenza storica che, dalla crescente razionalizzazione, vira verso una “deMcDonaldizzazione”, perlomeno per quanto concerne Internet. Nello specifico, nella teoria della McDonaldizzazione della società Ritzer (1993) discute di come il lavoro dei consumatori sia stato utilizzato dall’industria del fast food.

Tuttavia, le asimmetrie presenti nella relazione tra consumatori e imprese (disparità informative, ma anche nella distribuzione dei profitti) e il rischio, sempre in agguato, che le imprese si approprino, per trarne valore economico, di materiali generati dagli utenti secondo logiche di gratuità e di reciprocità, suggeriscono maggiori cautele rispetto all’immagine idilliaca di un mercato nel quale consumatori e imprese convivono in perfetta armonia (Codeluppi, 2010). Fuchs nell’analizzare da una prospettiva marxista la politica economica dei social media, radicalizza la posizione di Ritzer e Jurgenson, in quanto ritiene che il capitalismo trovi nei prosumer produttivi del Web 2.0 la nuova frontiera dello sfruttamento ai fini della generazione del plusvalore: «il tempo di lavoro produttivo sfruttato dal capitale riguarda da una parte il tempo lavorativo degli impiegati salariati e dall’altra il tempo trascorso online dagli utenti». Tutto ciò implica che il prosumerismo nel capitalismo sia una forma estrema dello sfruttamento perché il prosumer lavora per il Capitale gratuitamente. Una possibile via di uscita, secondo lo studioso austriaco, è quella di un progetto politico che sostituisca il capitalismo e la sua logica a partire da una diversa organizzazione delle relazioni non più fondata sullo sfruttamento, in base al principio della divisone sociale in classi, bensì su logiche di condivisione e partecipazione.

Da qui ne deriva l’attenzione di Fuchs ai commons. La comunicazione che è alla base delle relazioni è, infatti, un bene comune, come l’istruzione, l’ambiente, la cultura. I nuovi confini di una società più giusta sono disegnati anche da media commons based e da un Internet commons based, capaci di agevolare quel prosumerismo commons based, anche prima richiamato, attraverso il quale superare le contraddizioni insite nel sistema capitalistico (Paltrinieri e Degli Esposti, 2016).

Partendo dal presupposto di una letteratura sul prosumer troppo ottimistica in merito alle reali potenzialità di questa figura, Degli esposti (2015) analizza gli elementi fondanti la consapevolezza contemporanea dell'essere prosumer, esaminandone in particolare la caratteristica utopica che deriva dal considerarlo come l'attore primario di un cambiamento virtuoso, in particolare se si fa riferimento in primis al contesto digitale. Secondo Degli Esposti prevale una visione techno-ottimista orientata ad enfatizzare eccessivamente gli aspetti virtuosi dell'essere prosumer rispetto alle possibilità alienanti o di sfruttamento del lavoro gratuito.

Nello specifico Degli Esposti pone l’accento sugli approcci utopici che riguardano i brand e l’etica hacker, definiti rispettivamente dallo studioso brandtopia, utopia del mondo di marca, e cyber-utopia, imperniata per lo più sulla letteratura cyberpunk e sul techno-utopismo il quale, attraverso un approccio techno-ottimista, auspica la soluzione tecnologica per ogni problema, legittimando di conseguenza forme neoliberiste (Degli Esposti, 2015). Le brandtopie per loro natura tendono a costruire un mondo di marca immaginifico che risponde in maniera efficace ai desideri della società, e che richiede la partecipazione ed il lavoro volontario del prosumer per poter essere considerata e percepita autentica, ossia per risultare credibile. I consumatori apprezzano alcuni dei marchi più potenti del mondo soprattutto per il loro valore culturale, poiché forniscono risorse immaginative che le persone usano per costruire le loro identità (Holt, 2004). Il cyber-utopismo è paragonabile ad una religione secolare della

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postmodernità che rappresenta la credenza diffusa secondo cui la comunicazione digitale online sia per sua natura emancipatoria e che internet sia uno strumento abilitante per gli oppressi più che per gli oppressori (Isakhan, Nelson e West, 2004).

Il “cyber-utopismo” si prefigge la creazione di una coscienza umana della rete e, secondo Keen (2008), il grande fervore culturale attorno al Web 2.0 sarebbe paragonabile all'utopia della società comunista descritta da Marx.

Anche Shirky (2008; 2010) enfatizza come il potenziale rivoluzionario introdotto dai social media possa essere considerato come un nuovo modello di attivismo in cui le qualità emancipatorie ed abilitanti delle tecnologie digitali fungono da strumento democratizzante. Il cosiddetto movimento cyber- libertario e la sua etica (creata e sostenuta dai primi sviluppatori internet), attraverso la generazione di un'intelligenza collettiva (Lévy, 1994), si pone come ostacolo allo sviluppo capitalista tradizionalmente inteso.

Anche Himanen (2001) ritiene che l'etica hacker rappresenti un tentativo di sovversione delle logiche del capitalismo tradizionale in quanto, fondandosi sulla condivisione di risorse digitali, proporrebbe una radicale trasformazione delle dinamiche del consumo e delle logiche della proprietà.

Sulla stessa scia troviamo Lessig (2009) il quale riflette sull'importanza dei concetti di open culture e di “società del remix”, individuandoli come elementi fondanti la natura dei prosumer digitali.

Secondo il giurista statunitense, teorico del “Creative Commons”, un concetto chiave per comprendere tutto il potenziale democratizzante della rete è è quello della condivisione. È un dato incontrovertibile, infatti, che Internet consente attività collaborative su una scala senza precedenti nella storia dell'umanità, dando vita alla cosiddetta economia “ibrida”. L'economia “ibrida” unisce le due anime storiche del web, quella basata sulla condivisione, per la quale gli incentivi a produrre non sono monetari, e quella commerciale, basata sulla tradizionale attività economica dedita al profitto. Un fattore fondamentale delle soluzioni ibride è la dipendenza dalle comunità: come costruirle e sostenerle nel tempo, a parere di Lessig, è una delle arti che vanno padroneggiate. Un secondo elemento chiave è che le attività ibride quasi sempre richiedono un cambiamento di prospettiva in merito al diritto d'autore, provando ad abbandonare l'automatismo del “tutti i diritti riservati”, anche nell'interesse dei detentori dei diritti.

In un siffatto contesto, i problemi da risolvere sono quelli prodotti da una legge sul diritto d'autore che, elaborata per l'universo degli oggetti fisici (libri, CD, DVD ecc.), in genere prodotti e distribuiti da industrie, è ora scossa alle fondamenta dalle tecnologie digitali e da Internet, tanto da far emergere continui paradossi al riguardo, come sottolineato da Jessica Litman: «La maggior parte di noi non può più passare nemmeno un'ora senza collidere con la legge sul copyright» Il risultato è un palese “divide” tra una tecnologia ci invita a produrre, a remixare, a diffondere, a sviluppare nuove forme di alfabetizzazione mediatica, e una la legge non al passo coi tempi, come evidenziato anche da Lessig il quale prova a identificare gli elementi essenziali per arrivare a un nuovo equilibrio, elementi in grado, se introdotti nell'ordinamento, sia di conservare quello che di positivo il copyright può ancora offrire