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TRANSUMANESIMO E DERESPONSABILIZZAZIONE Monica Cristin

1. Datismo: c’è bisogno di Dio?

Chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosuf- ficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello Stato, e di conse- guenza è o bestia o dio. (Aristotele, Politica, 1253a 29)

Che l’uomo per natura sia alla ricerca di un senso, per non dire del senso, è oramai un’ovvietà filosofica. Determinare quali modi possa lecitamente escogitare l’uomo contemporaneo, invece, per rispondere a tale sua esigenza, è oggetto di un’aspra e continua discussione. Del resto, non solo la Rivoluzione scientifica e l’Illuminismo, ma, più di recente, il pensiero degli ultimi due se- coli, dal Positivismo ad oggi, non hanno fatto altro che affermare insistentemente l’avvenuta morte di Dio. Eppure, sin dai tempi della baconiana Casa di Salomone, il Paradiso non sembra essere stato rimosso, quanto piuttosto trasfigurato: non più mondo delle idee, ma trionfo della tecnica; non più regno della grazia, ma luogo dell’operosità efficiente. Forse, come già notava Elémire Zolla, ritenere che le macchine possano essere utilizzate in modo indifferentemente buono o cattivo, quasi fossero strumenti neutri e imparziali, non è altro che uno dei tanti infe- stanti luoghi comuni che da secoli ci portiamo appresso:1 la macchina è paradigma culturale

tutt’altro che neutro, e il suo trionfo comporta anche quello dell’efficientismo, che lo stesso Zolla riconosce quale cifra stilistica della nostra civiltà. Ma l’efficienza, perché possa essere ef- fettivamente tale, non può che assurgere a regola aurea, fino a divenire totalitaria: tutto deve esserle subordinato. «O ragno spargi la tua tela! Ingrossa le tue ossa, e pieno di midollo, di mu- scoli e carne, sii esaltato! Abbi una tua voce! Raccogli i tuoi eserciti tetri, perché i figli degli uo- mini si congregano a disfare le loro città! L’uomo non sarà più!». Quali altre parole meglio di questi pochi versi di William Blake (The Four Zoas I, 404-407)2 illuminano il paradosso in cui è

invischiato l’umanesimo scientista? Se la modernità scientifica è stata contrassegnata da una fiducia inedita nelle facoltà umane e in un’esperienza metodicamente orientata, il fare scienti- fico, e più precisamente il fare tecnico, ha condotto l’uomo, subordinato alla macchina, a diven- tare esso stesso macchina. E nell’era in cui la meccanica cede il passo all’elettronica, ad essere

1 Cfr. Zolla 2015, pp. 139-152.

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nient’altro che dato in un sistema di dati. Se il datismo, ossia la cosiddetta “religione dei dati”,3

può quindi dirsi figlio dell’umanismo, non si deve forse ammettere che in nome dell’Uomo sia stato commesso un atroce parricidio? Ma perché?, verrebbe da chiedersi. Perché tanta subor- dinazione non solo servile, ma addirittura entusiasta, a qualcosa che fagocita l’uomo fino a farlo scomparire?

«Gli umani – scrive Yuval Noah Harari - vogliono fondersi in un flusso di dati, perché quando siete parte del flusso di dati siete parte di qualcosa di molto più grande di voi stessi».4 Essere

parte di qualcosa di più grande: non è forse questo che l’uomo già da sempre ricerca? Non è forse questa perfetta compenetrazione della parte nel tutto, del finito nell’infinito, a dare un senso alla nostra misera esistenza? Che lo si chiami Logos, Natura (in senso spinoziano) o Dio, è ciò che ci trascende, ci rende eterni e liberi dalla radicalità di una solitudine contingente a quie- tare la nostra anima, come se le dicesse: tu sei indispensabile, proprio tu e nessun’altra, nel corso necessario degli eventi. Nulla va perduto, se trova il suo posto all’interno di un tutto; nulla è radicalmente contingente, e come tale passibile di oblio, se dimostra di essere più della parti- colarità fugace dell’hic et nunc. Da qui, forse, la contemporanea nevrosi della condivisione on- line: «Dobbiamo dimostrare a noi stessi e al sistema che valiamo ancora qualcosa. E il valore non consiste nel vivere esperienze, ma nel trasformare queste esperienze in dati che fluiscono libe- ramente».5 Se l’esperienza non è condivisa, allora non conta nulla: perché la sua trascendenza,

il suo senso ulteriore, può trovarlo unicamente nella memoria virtuale, ma stabile, dei dati in- formatici. Il particolare non conta, se non è l’espressione di un’universalità in potenza: questo antico principio filosofico si ripropone adesso, tale e quale, in quella religione d’ultima genera- zione che è il datismo. Forse il bisogno di metafisica è ineludibile, forse l’idolo (in senso nie- tzschiano) è l’unica possibile risposta all’uomo che mai e poi mai sarebbe disposto ad ammettere la propria insensatezza. E così, se non è in un aldilà ulteriore che si cerca il senso, lo si potrà trovare in un principio immanente, in quella «immanenza algoritmica»6 che peraltro, come ci fa

notare lo scrittore statunitense Don DeLillo, «è un dio reale, […] è vero, mantiene le promesse. – La vita dopo la morte».7

Proprio all’abolizione della finitudine umana, lavora, sfruttando le incredibili possibilità di potenziamento artificiale delle capacità fisiche e cognitive dell’uomo aperte negli ultimi anni dalla ricerca scientifica, il cosiddetto transumanesimo: un vero e proprio tentativo superomistico di oltrepassamento, per via tecnologica, dei limiti che per definizione connotano la natura umana. «Che cos’è per l’uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo ap- punto ha da essere l’uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna»:8 avrebbe mai

potuto immaginare Nietzsche che il suo Übermensch potesse prendere tale forma? L’uomo in- tenzionato ad abolire la propria contingenza, a rendere sé stesso necessario, e quindi anche eterno, è l’uomo che non solo ricorre a trattamenti di conservazione criogenica, ma soprattutto si affida ai progetti di uploading della mente. Il presupposto è chiaro: se la mente è indipendente dal sostrato, è un puro sistema di dati, allora non è sostanzialmente diversa da un software, ed è quindi dotata di assoluta libertà morfologica. Ma a conferma del fatto che il transumanesimo risponde a un bisogno di trascendenza, basti pensare alla nascita di movimenti religiosi – per esempio Terasem, «una transreligione per tempi tecnologici»,9 come i suoi stessi fondatori la

definiscono. Già nel 1992 Zolla osservava quanto segue, a proposito dell’indiamento tecnologico dell’uomo contemporaneo: «Una mente nutrita di apporti provenienti da punti distinti remoti, resecata dal corpo, dal bisogno di mangiare e bere e defecare e respirare, potrebbe proporsi addirittura di divenire… come gli enti incorporei che l’uomo si è configurati quali angeli o dèi.

3 L’espressione è stata coniata da Harari per indicare quelle credenze, non riferibili a comunità religiose o Chiese organizzate, secondo cui «l’universo consiste di flussi di dati e … il valore di ciascun fenomeno o entità è determinato dal suo contributo all’elaborazione dei dati» (Harari 2017, p.559).

4 Harari 2017, p. 587. 5 Ivi, p. 588. 6 O’Connell 2018, p.89. 7 Delillo 2016, p.13. 8 Nietzsche 2010, p. 225. 9 O’Connell 2018, p. 189.

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Nessuna informazione piacente del mondo sarebbe per essa esclusa, godrebbe anzi senza tregua e senza bisogno di sonno e per una simile mente non avrebbe più nessun senso nemmeno l’at- taccamento alla vita».10 Se qualcosa di nuovo nella religione dei dati c’è, questo qualcosa è la

scomparsa della tensione ascetica all’abolizione dello scarto tra trascendente e trasceso: non è più l’uomo a trascendersi in Dio, perché l’uomo ora è Dio. Non, come si dice comunemente, per l’esito di un delirio di onnipotenza: l’uomo è Dio, semmai, perché è la sua stessa umanità che è stata abolita, o meglio, è Dio perché è ontologicamente indistinguibile da Lui. Prima l’uomo era necessario solo in potenza, e quindi eternamente coinvolto nel tentativo – mai riuscito – di su- perare una volta per tutte i propri limiti congiungendosi, in un altrove, con l’eterno, l’infinito; ora l’uomo, trasformato in un pugno di dati senza tempo, è, in atto, necessario, eterno e infinito: quale differenza resta dunque tra ciò che chiamiamo Dio e ciò che chiamiamo uomo? Ma se l’uomo fattosi Oltreuomo è atto puro, un’immediata disponibilità di essere di tipo parmenideo, allora ciò che viene meno è, come direbbe Slavoj Žižek, «l’implicito ipertesto fantasmatico»,11

ossia lo scarto tra detto e non detto, tra latente e visibile, tra potenza e atto. «Ciò che causa la “perdita di realtà” nel cyberspazio non è la sua vacuità […], ma, al contrario, proprio la sua pie- nezza»:12 il virtuale è, hegelianamente parlando, un’identità tautologica, e l’identità tautologica

è cifra del divino.