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TRANSUMANESIMO E DERESPONSABILIZZAZIONE Monica Cristin

3. Memoria, morte e responsabilità.

Il corpo che giace, inerme, sul tavolo operatorio del riduzionista contemporaneo, è un corpo senza vita. Grottesco nel suo essere meccanico, ridicolo nei suoi goffi automatismi. Eppure, an- che il riduzionista più radicale non potrà mai smettere di usare la parola io, per quanto la sua cattiva coscienza possa indurlo a liquidare il problema: facendo appello, magari, a una presunta abitudine al tempo stesso comoda e acriticamente ereditata. Ma un’abitudine dettata da cosa, e fondata su cosa? Proprio approfondendo la fallacia logica dei riduzionisti è forse possibile ap- procciare il problema etico e portarlo lentamente a soluzione.

17 Borges 1999, p. 95. 18 Cfr. DeLillo 2016, pp. 139-146. 19 Edmonds 2014, p. 140. 20 Cfr. Zizek 2016, p. 222. 21 Schopenhauer 1989, p. 181. 22 Pirandello 1957, p. 718.

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«Astenendoci completamente – scrive Husserl – dall’adesione alla credenza mondana, l’obiettivare stesso viene riconosciuto come un’operazione che si compie di volta in volta nel soggetto (in quanto soggetto trascendentale)»:23 l’obiettivare, nota il filosofo, non è altro che

un’operazione del soggetto, ogni agire è sempre l’agire di una coscienza. Per quanto ci siano un corpo e delle condizioni materiali, esse non potranno mai darsi se non nell’ambito di uno sguardo soggettivo, che fa emergere l’oggettività. A chi si dà l’oggettività, se non a un soggetto osservante? Pensiamo ancora una volta al datismo: nel bisogno compulsivo di accumulare dati, informazioni, di ridurre tutto a oggettività immediatamente disponibile, non si perde forse di vista il destinatario di tale riduzione (se tutto è reso disponibile e oggettivo, per chi esso è tale)? Per un soggetto, inteso come «polo egologico di atti e operazioni trascendentali»,24 come resi-

duo fenomenologico.

[Chi agisce] dipende dal substrato organico delle sue facoltà, dalla sua storia personale, dal carattere e dalle capacità, dall’ambiente sociale e culturale, e non da ultimo dai dati effettivi della situazione in cui agisce. Ma in un certo senso egli si appropria di tutti questi fattori in modo tale che essi non possono più influire come cause esterne sulla formazione della volontà […]. L’autore responsabile si identifica col pro- prio organismo, con la sua cultura e storia personale che improntano il suo comportamento, con le sue motivazioni e capacità.25

Date certe condizioni biologiche, neurologiche, ma anche ambientali, che determinano l’es- sere e l’esistere di un soggetto, esso è tale solo nella misura in cui è polo di riferimento consa- pevole e responsabile di tale sostrato meccanico: ciò che permette di dire “questo è il mio corpo, il mio agire, il mio patire”. Il soggetto sorge, potremmo dire, nello spazio delle ragioni, quando cioè si rende ragione di un determinato agire e lo si riferisce a un polo egologico costante: come nella stanza cinese di John Searle, io non sono uguale alla macchina perché so di sapere (o di non sapere) il cinese. L’ultima ancora di salvezza, insomma, è la consapevolezza autocosciente del soggetto.

Si rischia forse, in tale modo, di cadere in un solipsismo radicale? Di fronte a questa possibi- lità ci viene infatti da pensare all’apologo taoista citato da Douglas Hofstadter:

Uno disse all’altro: “Vorrei essere un pesce. I pesci sono così felici! Il secondo replicò: “Come fai a sapere se i pesci sono felici o no? Tu non sei mica un pesce”. Disse il primo: “Ma tu non sei me, quindi come fai a sapere se io so come si sentono i pesci?”.26

Non è così. Innanzitutto il mio rendere ragione di un determinato agire si presume sempre rivolto ad un interlocutore altro da me: pur nell’incomprensione inevitabilmente sottesa al dia- logo, ogni forma di espressione è sempre e comunque un dirigersi a un altro, un raffrontarsi con esso per distinguersi (“tu non sei me”): «Vivere nel linguaggio – scrive Gadamer – significa muo- versi nel parlare di qualche cosa e nel parlare a qualcuno».27 Ma non solo: lo stesso regno dell’og-

gettività non sorge all’interno dell’occhio del singolo soggetto, come sua pura e semplice opi- nione arbitraria, bensì nell’ambito della comunicazione di un soggetto con un altro soggetto: «Solo l’esame intersoggettivo di evidenze soggettive rende possibile la progressiva oggettiva- zione della natura».28 E anche il parlare di noi stessi in terza persona è qualcosa di possibile solo

e soltanto nei limiti di una prospettiva intersoggettiva, e cioè nella prospettiva dialettica del dia-

23 Husserl 2007, p. 108. 24 Husserl 2002, p. 212. 25 Habermas 2008, p. 63. 26 Hofstadter 1992, p. 88. 27 Gadamer 1996, p. 167. 28 Habermas 2008, p. 70.

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logo tra un io e un tu: «Noi impariamo il ruolo di osservatore della “terza” persona – scrive Ha- bermas – solo in collegamento con i ruoli di parlante e di ascoltatore di una “prima” e “seconda persona”».29

Che cosa significa però essere soggetto che si definisce come parte di una dimensione inter- soggettiva? Vuol dire innanzitutto avere una memoria: essere erede di un passato, di una tradi- zione condivisa di cui si è solo l’esito ultimo, ricordare il proprio agire che inevitabilmente è sempre anche un interagire. Pensiamo a un classico del cinema di fantascienza qual è Blade Run- ner: come fanno gli scienziati della Tyrell Corporation per assicurarsi che i replicanti da loro creati in laboratorio credano fermamente di essere dei soggetti umani? Innestano in loro dei falsi ri- cordi: ricordi di un’infanzia mai vissuta, di una famiglia mai avuta. Il ricordo di un passato, di una storia personale, è ciò che garantisce la nostra identità. Nelle parole di un personaggio di Don DeLillo: «Inspiro la pioviggine dei dettagli del passato e so chi sono».30 Ma ricordarsi di sé è sem-

pre ricordare il proprio con-esserci, il proprio sorgere in una dimensione essenzialmente inter- soggettiva: «Per ottenere una verità qualunque sul mio conto – scrive Sartre – bisogna che la ricavi tramite l’altro. L’altro è indispensabile alla mia esistenza, cosi come alla conoscenza che io ho di me».31 Un soggetto qual è quello contemporaneo, dimentico di sé in quanto prima persona

e quindi totalmente deresponsabilizzato, non potrà che ritrovare sé stesso partendo proprio dalla sua memoria, dal proprio radicamento intersoggettivo in una dimensione relazionale che si articola non solo nello spazio, ma anche e soprattutto nel tempo. E per far questo, il primo passo consisterà nel riscoprire la storicità della stessa visione scientifica del mondo, in un tenta- tivo analogo a quello compiuto da Heidegger nei suoi Holzwege:32 solo così il paradosso

dell’umanesimo contemporaneo potrà emergere in tutta chiarezza. Prendere coscienza della propria storicità, infatti, significa anzitutto assumersi, di nuovo, la più grande responsabilità, come unica possibile fonte di libertà:

Chi sceglie se stesso scopre che quell’io che egli sceglie ha una infinita molteplicità in sé. Esso ha una storia. [...] Questa storia è contiene qualche cosa di doloroso. Eppure egli è ciò che è solo attraverso questa storia. [...] Egli non può rinunciare a nulla di tutto questo, né al dolore più forte, né alle fatiche più gravi; eppure l’espressione di questa lotta, di questa conquista, è il pentimento. [...] Ora egli possiede se stesso come posto da se stesso, come scelto da se stesso, come libero.33

Assumere la propria storicità, però, avere memoria, significa anche, innanzitutto, fare i conti con la propria finitezza: avere una storia significa fare i conti con ciò che non si è più, ma di cui sempre si dovrà portare sulle proprie spalle il peso. L’irreversibilità del tempo non ci dà tregua: non si può tornare indietro, non si può disfare il già fatto, ciò che è accaduto resterà per sempre, è ogni giorno l’ultima volta. È qui che emerge la responsabilità: nell’irrecuperabilità del mio agire. «La morte […] – scrive Borges – rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può esser l’ultimo; non c’è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto d’un sogno. Tutto, tra i mortali, ha il valore dell’ir- recuperabile e del casuale».34 Ma per quanto il nostro essere-per-la-morte faccia di noi degli

animali tanto tragici, o addirittura tragicomici, senza tale consapevolezza noi non siamo. Se il mio tempo, infatti, diventa senza fine; se la morte da problema filosofico viene derubri- cata a problema tecnico,35 allora la scomparsa dell’io è decisa, e risulta impossibile distinguere

la parte dal tutto. Io non sono più io, è solo Dio: «essere immortale è cosa da poco: tranne

29 Ibidem. 30 DeLillo 2016, p.99. 31 Sartre 1963, pp.70-71. 32 Cfr. Heidegger 2002. 33 Kierkegaard 1975, pp. 74-83. 34 Borges 1961, p. 21. 35 Cfr. O’Connell 2018, pp. 197-198.

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l’uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte; la cosa divina, terribile, incompren- sibile, è sapersi immortali».36 A questo punto, in assenza di un io inteso come soggetto d’arbitrio

consapevole, la deresponsabilizzazione è inevitabile: tutto è sempre e comunque possibile, o meglio, tutto è sempre e comunque realizzato. Non c’è più scelta da compiere, alternativa da scartare: ogni possibilità è realtà. Ciò che viene meno è l’opacità del possibile, dell’altro che sarei potuto essere: io sono uno e centomila allo stesso tempo, e alla fine anche (inevitabilmente) nessuno. Come afferma Žižek, «l’universo della scienza moderna […] implica il gesto dell’“attra- versamento del fantasma”, cioè l’abolizione del punto cieco, del regno dell’Ignoto che, dando asilo alle fantasie, garantisce così il Significato: invece, rimaniamo con un meccanismo privo di significato».37

Riportare a galla l’io significa quindi innanzitutto riportare al centro dell’attenzione la finitu- dine essenziale dell’umano, rinunciando alla promessa transumanista di immortalità per pren- derci cura, più modestamente, della nostra esistenza effimera. E a chi dovesse ancora inseguire un’illusione di immortalità, basti ricordare le parole di DeLillo: «Che senso ha vivere se alla fine non si muore?».38

Bibliografia

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− Schopenhauer 1989: Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliani, Mondadori, Milano 1989.

− Žižek 2016: Slavoj Žižek, Che cos’è l’immaginario, Il Saggiatore, Milano 2016. − Zolla 1992: Elémire Zolla, Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992.

36 Borges 1961, p. 18.

37 Žižek 2016, p. 268. 38 DeLillo 2016, p. 39.

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− Zolla 2015: Elémire Zolla, Eclissi dell’intellettuale, in Il serpente di bronzo, Marsilio, Venezia 2015.

− Zuboff 1992: Arnold Zuboff, Storia di un cervello, in Daniel C. Dennett, Douglas R. Hofstadter, L’io della mente, Adelphi, Milano 1992, pp. 199-209.

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PAURA E POLITICA TRA PASSATO E PRESENTE