HANNAH ARENDT E LA CATEGORIA DELLA NATALITÀ Carla Andreozz
3. Il tema della natalità e quello della “seconda nascita”.
Continuiamo a raccogliere alcuni spunti dalla ricca messe di Vita activa.
Heidegger in Essere e tempo (1927) aveva scritto: «L’Esserci […] è anche già sempre la sua morte.» Quest’ultima è l’unico fatto che inerisce completamente al Dasein, cioè all’uomo (all’es- sere dell’uomo), che lo mette di fronte alla propria caducità. La morte è “scrigno del nulla”, è scacco al tempo, è abissalità e angoscia, è sguardo disincantato di fronte all’inautenticità dell’esi- stenza. Ma proprio partendo da ciò, Heidegger sviluppa la sua analitica esistenziale: l’esistenza
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(ex-sistere) è comprendere l’essere, è possibilità, è progetto e trascendenza. L’essenza dell’Es- serci coincide dunque con la sua esistenza, cioè con ciò che egli stesso sceglie di essere: siamo progetto, ma siamo “progetto gettato” perché condizionati dal nostro orizzonte storico-cultu- rale. L’uomo è temporalità storica, è il pastore dell’essere, ha una responsabilità nei confronti del mondo e degli altri, è nel mondo e tra gli altri per prendersene cura. È al mondo non per osservarlo ma per progettarsi e costruire totalità di significati. Ma la sua autenticità ha a che fare con la morte. La scelta parte dal comprendere che l’Esserci è un-essere-per-la-morte, che è que- sta la sua possibilità più propria. Solo allora essere se stessi può diventare un atto di libertà e il senso si lega alla temporalità, nel presente autentico dell’attimo.
Il pensiero del filosofo è così commentato da Maria Zambrano, il cui pensiero mostra una vicinanza con Arendt sotto molteplici aspetti: la storia della filosofia è la storia della ragione che si è affermata richiudendosi, per cui non ha potuto trovare altro che se stessa. “Di qui l’angoscia” (Maria Zambrano, Filosofia e poesia, 1939. Traduzione italiana p. 93) e ancora “la filosofia di Heidegger sembra provenire da una tradizione e non presentare il minimo carattere di estra- neità. La persona, lo spirito.” (ivi, p. 96).
Sul versante opposto, si colloca il concetto di “natalità” con cui la Arendt si volge contro quei filosofi per i quali la vita, come si è cercato di vedere, è un incamminarsi verso la morte, o meglio, e in stretto riferi- mento ad Heidegger, per i quali è a partire dal proprio essere-per-la-morte che si declina la decisione autentica con cui inverare il progetto e il senso dell’esistere.
È invece con il nascere che ognuno si mostra unico, diverso, iniziale. Nell’attimo in cui ognuno si mostra, si apre una nuova dimensione, simbolo dell’imprevedibilità, dell’irripetibilità, dell’irreversibilità. Nascere è la singolarità del cominciamento, è il dischiudersi di sé alla condi- zione umana ed è dunque fatto imprescindibile che ci consegna alla nostra esistenza, contrad- distinta dall’unicità nella pluralità. La forza creativa che è nella nascita è qualcosa di estrema- mente prezioso e fragile ad un tempo, che deriva dall’essere-gettati-nel-mondo, è apparire. Per- ché “Essere e Apparire coincidono” (Arendt, La vita della mente, p. 99). È quell’apparire, svalu- tato nella tradizione filosofica come allontanamento della e dalla verità, che nel pensiero arend- tiano diviene il fondamento stesso della condizione umana, l’origine in cui non c’è ancora scis- sione e che offre ad ogni essere umano un potenziale che può sfruttare aprendosi all’alterità, alla progettualità, alla scelta. È il momento “da dove la vita è perfetta” come ci suggerisce una donna del nostro tempo (l’ultimo romanzo di Silvia Avallone), dove «una rosa è una rosa è una rosa è una rosa» (Geltrude Stein) e i suoi petali ancora stretti non hanno cominciato a morire.
Del resto, come non riferirsi ancora alle pagine di Maria Zambrano? Anche la pensatrice spa- gnola, in Filosofia e poesia, aveva affermato come l’apparire, cioè l’originario mostrarsi all’at- tenzione di qualcuno, si sia caricato nella nostra cultura di valenze negative ormai sedimentate anche nel linguaggio e nei proverbi (dove si rapprende il senso comune). Tali valenze si legano alla finzione, al nascondere qualcos’altro, alla maschera. Allora il darsi diventa apparenza e “l’ap- parenza inganna”. Paragonata da Parmenide al “sentiero della notte” dove, direbbe Hegel, “tutte le vacche sono nere”, essa viene espunta dal simposio filosofico che la disdegna. Invece nel pensiero di Maria e di Hannah l’apparire è realizzativo: ha potere perché produce realtà, è inizio dialogante.
Mentre l’essere-per-la-morte heideggeriano, secondo Arendt, avrebbe consegnato inevita- bilmente l’umano al solipsismo, il suo pensiero era invece tutto proteso all’agire collettivo, alla politica intesa non come sistema di potere ma come performance collettiva, come teatro, come mostrare “chi si è” attraverso l’azione e la parola (ed in ciò vedeva, tra l’altro, la medicina ai totalitarismi, vizio mai sopito dell’Occidente). Se forse le altre dimensioni esistenziali si possono dare, almeno teoricamente, senza l’alterità, l’azione è per sua struttura un andare all’altro e si nutre della risposta. In questo senso essa è politica. Così anche il vocabolario stesso risultava
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capovolto perché la politica non era intesa come dominio e gerarchia. Essa al contrario presup- poneva un piano orizzontale di azione reciproca. Così pure si bandiva una visione bimillenaria del modo di rappresentare l’identità umana: il primato non è più quello filosofico del pen- sare/contemplare ma diventa quello politico dell’agire. Forse perché tutta la filosofia occiden- tale non è stata se non una glossa a Platone, Arendt stessa si definiva una pensatrice politica. Era la politica la sua vera passione. E forse l’epoca la costringeva al recupero dell’agire e alla visione della politica come “seconda nascita”: si tratta in questo caso di una sorta di nascita consapevole, un dare inizio insieme, mostrando la propria unicità di esseri umani nell’intera- zione. La politica è teatro, ove si agisce o meglio si interagisce. Ognuno è attore del proprio agire e spettatore delle azioni altrui, è l’apparire che riattualizza la nascita, è annuncio di novità e di iniziativa: «Con l’azione ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una se- conda nascita, in cui ci confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale.» (Vita activa, trad. italiana, p.128).
La categoria della natalità designa il fatto che il soggetto, agendo, dà inizio a qualcosa che si offre al mondo, alla polis, agli altri. Ed in questo consegnarsi l’azione intrapresa può essere con- tinuata, ripresa o lasciata senza alcun seguito. Può non restare solo nelle mani di colui che l’ha inaugurata.
E attraverso tale seconda nascita, questa volta non esibita da altri che ci offrono al mondo ma agita in prima persona da ciascuno, si conquista la dimensione dell’umano. Perché se gli uomini devono morire, non possono tuttavia trarre senso dal morire ma possono trarlo dall’in- cominciare. Lo scenario finalmente non è più luttuoso e la nostra dimensione è nell’immanenza, nel mondo dove “giochiamo”, è la nostra felicità politica (Arendt ha studiato molto Aristotele) che diventa la realizzazione dell’esistere. Dunque, forse, per Arendt aveva ragione Jefferson quando sosteneva che ogni generazione avrebbe dovuto avere la sua rivoluzione, cioè il suo momento sorgivo che apre lo spazio dell’agire, quando il significato dell’azione e la sua perfe- zione stanno ancora nell’azione stessa, non in qualcosa di trascendente dal presente.
Concludendo, ma senza alcuna pretesa di aver concluso, una voce di donna laica e libera da ogni preconcetto, che valicava i formalismi del “politicamente corretto” e rifletteva sul senso dell’agire politico e sulla sua ridefinizione di fronte alla crisi della democrazia e allo sviluppo della società di massa, pare caricarsi di una sconcertante attualità e può parlarci oggi come allora.
In una delle opere più importanti, Le origini del totalitarismo, apparsa in piena guerra fredda, colpiva la lucida analisi etica e il rintracciare le origini della metastasi totalitaria nel venir meno della partecipazione attiva dei cittadini alla vita della polis. Gli individui erano stati ridotti a mo- nadi, incapaci di una reale comunicazione sul piano politico: mentre solo apparentemente au- mentavano i momenti pubblici, si riduceva lo spazio della praxis, del discorso, del libero con- fronto, dell’essere-con-gli-altri al di là del conformismo sociale. Questo aveva favorito il manife- starsi di sistemi di potere basati sul binomio ideologia/terrore, ove la radice della razionalità veniva divelta in modo sistematico, cresceva l’insensatezza e, come in un teorema paranoico, ogni cosa derivava logicamente e necessariamente da una premessa ideologica elevata a super- senso. Ma se la questione di fondo è nella politeia perduta, allora il totalitarismo rischia ancora di essere la malattia latente che può tornare a manifestarsi al di là delle forme storiche nove- centesche e da cui nessun sistema politico contemporaneo è del tutto immune.
Non a caso nel testo The human condition (tradotto in italiano, forse non del tutto propria- mente con Vita activa), Arendt tornava a riproporre lo zoon politikòn e l’ideale rousseauiano della libertà di, inteso come interazione costruttiva tra donne e uomini liberi e tra cittadine e cittadini protagonisti dialoganti del percorso civile. Perché la politica non è e non può essere solo amministrazione della contingenza o mera difesa degli interessi materiali. Essa è Weltan- schauung, è relazione, ha a che fare con il tempo futuro e con la speranza. È orizzonte.
Bibliografia.
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− Arendt Hannah, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004. − Arendt Hannah, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 2009. − Arendt Hannah, Nel deserto del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2007. − Arendt Hannah, Vita activa, Bompiani, Milano 1964.
− Buttarelli Annarosa, Una filosofa innamorata, Paravia Bruno Mondadori, Milano 2004. − Cavarero Adriana, Dire la nascita in Diotima, mettere al mondo il mondo, La Tartaruga,
Milano 1990.
− Cavarero Adriana, Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007. − Cavarero Adriana, Nonostante Platone, Ombre Corte, Verona 2009.
− Cavarero Adriana, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano 1997. − Zambrano Maria, Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna 1998.
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