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Daniele Silvestr

5. Educare al giudicare.

Cosa vuol dire educare al giudicare? Per tentare una risposta partiamo da Kant.

Se leggiamo i luoghi dell’opera kantiana dove egli affronta questo argomento troviamo due indicazioni contrastanti: la prima è che il giudizio, la capacità di trovare il collegamento fra un dato caso singolare e la regola universale (sia essa di tipo cognitivo o di tipo pratico ed estetico) a esso adatta, è qualcosa di cui gli uomini sono naturalmente dotati in misura diseguale e che chi non ne è sufficientemente provvisto non può far niente per rimediare a questa mancanza.25

La seconda indicazione è che a giudicare si educa e ci si educa solo con la pratica.

Forse il luogo kantiano dove la questione è affrontata in modo più articolato è nella parte della Critica della ragion pratica denominata Metodo della ragion pratica26 che è che una serie

di indicazioni che Kant ritiene utili per raggiungere l’obiettivo di far sì che la morale nella sua oggettività venga accolta dagli individui, diventi cioè anche morale accolta nella soggettività delle persone. In questa parte Kant dà due indicazioni: la prima è di far uso di un metodo più di tipo socratico-zetetico che non di tipo catechetico-dogmatico, cioè di porre problemi che siano da stimolo all’esercizio della capacità di giudizio e questo allo scopo, oltreché di dare occasioni di praticare il giudizio, anche di far apprezzare, e questa è la seconda indicazione, a coloro che sono all’interno di un tale percorso educativo il piacere derivante dall’uso delle proprie capacità intellettive, un piacere che possa stimolare a un uso sempre più intenso ed esteso della propria razionalità. Poiché ci troviamo nella parte etica della filosofia kantiana, si deve ricordare come secondo il filosofo, coerentemente con la sua filosofia morale, l’obiettivo dell’educazione non è tanto quello di far apprendere i valori, che secondo Kant possono essere trasmessi fin dalla più tenera età dalla famiglia con una trasmissione diretta dei contenuti, quanto piuttosto di educare alla retta intenzione morale che, per Kant, è la differenza fra un’azione solo conforme al dovere e una secondo il dovere.

25 Kant 1781/1787, A133/B172, trad.it. p.187. 26 Kant 1788, trad.it. p.298-317.

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Un’ultima indicazione tratta dalla filosofia kantiana sulla facoltà del giudizio la possiamo ri- cavare dalla terza Critica, dedicata proprio a questa attività del pensiero umano.

Com’è noto, la distinzione su cui si basa la Critica del giudizio è quella fra giudizio determi- nante e giudizio riflettente, distinzione che è stabilita sulla base del diverso rapporto tra parti- colare e universale che si stabilisce nelle due forme. Mentre nel giudizio determinante si tratta di sussumere un particolare sotto un universale già dato, universale che kantianamente viene inteso come regola, e la capacità di giudizio del soggetto deve scegliere l’universale corretto, nel giudizio riflettente l’universale non è dato ma deve essere costruito dal soggetto stesso. Kant associa questo tipo di giudizio all’ambito estetico e alla concezione finalistica che permette di studiare la natura, associandolo quindi maggiormente, per usare la terminologia della Critica della ragion pura, a un uso regolativo piuttosto che a uno costitutivo. Ma, e qui faccio mia una suggestione di Hannah Arendt,27 il giudizio riflettente è il tipo di giudizio che più si presta a un

uso pratico, all’uso nell’ambito di quella praxis che per la filosofa tedesca si esprimeva nella cittadinanza politica, praxis che si esplica in un’epoca in cui gli orientamenti etici non sono più avvertiti come dati una volta per tutte ma devono essere ricercati.

Mi sembra dunque che questo spunto sia importante per un sistema educativo che sia espressione di una società moderna che vuole crescere e trasformarsi.

Nel paragrafo 40 della critica del Giudizio, Kant sintetizza le caratteristiche che contraddi- stinguono il giudizio estetico sottolineando soprattutto quella di essere un giudizio che tende per sua natura a essere condivisibile da chiunque, caratteristica che egli denomina sensus com- munis, espressione che Kant sente il bisogno di dover giustificare per evitare l’equivoco che sia interpretata come pregiudizio. Il filosofo la utilizza intendendo con essa

l’idea di un senso che abbiamo in comune, cioè di una facoltà di giudicare che nella sua riflessione tien conto a priori, del modo di rappresentare di tutti gli altri, per mantenere in certo modo il proprio giudizio nei limiti della ragione umana nel suo complesso.28

Poco oltre, Kant, sempre trattando del sensus communis, elenca tre caratteristiche che ca- ratterizzano l’intelletto sano e che egli inserisce, per sua esplicita ammissione, solo en passant, semplicemente per fornire quei principi che rendono più semplice capire il discorso sul giudizio estetico che sta conducendo:

1) pensare da sé; 2) pensare mettendosi al posto degli altri; 3) pensare in modo da essere sempre d’accordo con se stesso. La prima è la massima del modo di pensare libero dai pregiudizi, la seconda del modo di pensare largo, la terza del modo di pensare conseguente.29

Il modo di pensare “largo” è per Kant quello di un soggetto

quando si elevi al di sopra delle condizioni soggettive particolari del giudizio, tra le quali tanti altri sono come impigliati, e rifletta sul proprio giudizio da un punto di vista universale.30

Come si vede, qui la caratteristica dell’universalità viene intesa come la capacità di distan- ziarsi dal proprio punto di vista particolare per produrre giudizi che sono in linea di principio

27 Arendt 1961, pp.281-289.

28 Kant 1790, trad.it. p. 263. 29 Ivi, trad.it. p. 265. 30 Ivi, trad.it. p. 267.

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accettabili da qualunque altro soggetto che accetti di pensare alle medesime condizioni di razio- nalità.

Nell’interpretazione della Arendt, queste caratteristiche del giudizio estetico secondo Kant sono applicabili, nella nostra epoca in cui norme universali auto-evidenti non ci sono più, al giu- dizio pratico/politico, che ricerca un’universalità da costruire e non già data, proprio come av- viene nel giudizio riflettente, ma un’universalità che sia accettabile collettivamente come deve avvenire in uno spazio democratico quale quello che nel Novecento si è cercato di costruire in molte società.

Un altro o stimolo relativo a questo percorso di riflessione per arrivare a degli universali costruiti in una prospettiva intersoggettiva che servano all’educazione al giudizio ci viene da He- gel che nei paragrafi 31-33 della Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito dà indicazioni per il realizzarsi della Bildung di cui il percorso della Fenomenologia offre un resoconto esteso e arti- colato. Poiché una delle chiavi di lettura della Fenomenologia, e più in generale della filosofia di Hegel, è proprio quella della dialettica tra particolare e universale,31 possiamo trovare qui utili

indicazioni su quanto viene a delinearsi come una caratteristica essenziale della capacità di giu- dizio.

Per il filosofo, nell’antichità, alla nascita della filosofia

il genere di studio tipico dell’antichità era il vero e proprio processo di formazione della coscienza naturale. Mettendosi costantemente alla prova in ogni momento della propria esistenza e filosofando su ogni avvenimento, la coscienza si elevò allora a un’universalità ripetutamente confermata e autenticata da parte a parte.32

Un primo momento dell’accesso all’universalità è la riflessione sull’esperienza immediata attraverso, come spiega Hegel, l’analisi della rappresentazione che ce ne facciamo per coglierne le strutture interne ed essenziali e non semplicemente per scomporla in rappresentazioni più elementari.

Se questo era per Hegel il compito svolto dal pensiero nell’antichità, la modernità a cui il filosofo appartiene ha un altro compito da svolgere. L’epoca moderna ha già accesso all’univer- salità ma è un’universalità fossilizzata, fatta di pensieri ormai irrigiditi a cui il pensiero deve re- stituire fluidità

adesso pertanto, non si tratta di purificare l’individuo dall’immediatezza sensibile per farne una sostanza pensante e pensata, quanto piuttosto del contrario: occorre, cioè, realizzare e spiritualizzare l’universale mediante la rimozione dei pensieri determinati e solidificati. Rendere fluidi i pensieri solidificati, però, è molto più difficile che rimuovere l’esistenza sensibile.33

Tentiamo un’applicazione al discorso educativo (applicazione non estranea al contesto di questa parte dell’opera che è quello di un discorso sulla Bildung) di quanto Hegel dice.

Il punto essenziale pensiero qui espresso è sintetizzato in una frase di poco precedente alle citazioni già riportate: «In generale, infatti, ciò che è noto, appunto in quanto noto, non è cono- sciuto».34

31 Vedi per esempio, Stern 2002. 32 Hegel 1807 trad.it. p. 87. 33 Ibidem.

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La conoscenza ha bisogno di un momento in cui ciò che si è ritenuto fino a questo momento noto deve essere considerato estraneo, momento che secondo Hegel è tipico dell’intelletto, fa- coltà caratterizzata come quella che possiede «l’immane potenza del negativo» tanto che questa fase viene da lui descritta mediante il paragone con la morte. Si deve dunque introdurre un elemento di distanza fra il soggetto e le sue rappresentazioni proprio come quando, per vedere qualcosa con più precisione, cerchiamo di porci a una ben determinata distanza da essa che può essere minore o maggiore di quella usuale a seconda del tipo di esame che stiamo conducendo sull’oggetto, più attento al particolare o all’insieme.

Questa distanza che è necessaria al processo della conoscenza può essere duplice: o rispetto all’immediatezza dell’esperienza o rispetto alla nozione preconfezionata e per questo ossificata. In mancanza di questa presa di distanza, è impossibile per il soggetto accedere a quel rapporto dialettico fra particolarità e universalità che è il nucleo del giudizio creativo e critico che abbiamo definito come l’obiettivo della formazione.

Se la scuola che di solito viene definita nozionistica era incapace di prendere distanza dalle rappresentazioni universali ormai consolidate e si limitava a trasmetterle in modo non vitale, oggi mi sembra che stiamo tornando all’altro estremo indicato da Hegel e cioè alla paura di sganciarsi da ciò che è noto immediatamente allo studente per paura di annoiarlo. Questa paura si esprime nella produzione di un assortimento di rappresentazioni le più immediate che sia pos- sibile per restare nell’ambito di ciò che è più familiare allo studente odierno, ambito fatto di immagini, testi brevi e paratattici, tutte tipologie di stimoli che hanno l’effetto di ridurre lo spazio per quel faticoso “lavoro del concetto” che per Hegel è l’essenziale della filosofia e che, a me sembra, dovrebbe, pur con gradazioni diverse, essere una caratteristica di ogni percorso educa- tivo.

Questo esercizio, che non esito a definire ascetico, della presa di distanza dall’immediatezza del particolare irriflesso o dall’universale preconfezionato e quindi altrettanto irriflesso, mi sem- bra tanto più urgente in un’epoca come le nostra dove l’immediatezza di cui ci rendono capaci le nuove tecnologie rischia di compromettere le strutture sia personali che sociali che sosten- gono l’autonomia del soggetto proprio in quanto annullano la distanza fra soggetto e oggetto.35

Per questo ritengo che, piuttosto che rincorrere nella didattica una riduzione della distanza fra lo studente e il contenuto culturale oggetto di studio, cercando di eliminare ogni dissonanza cognitiva che il contenuto può apportare, la nostra società ha bisogno di educare alla creazione, nell’ambito formativo ma non solo, di una giusta distanza che permetta l’utilizzo delle facoltà intellettuali e non si limiti alla conferma del noto, soprattutto in considerazione del fatto che questo “noto” è e sarà sempre più il risultato di una produzione, mediata tecnologicamente e mirata al profitto, di una realtà che ora chiamiamo virtuale ma che rischia di diventare, per dirlo con Jean Baudrillard,36 iperreale.

Riferimenti bibliografici.

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− Arendt 1961: Hannah Arendt, Between Past and Future, Viking Press, (citato nella trad. it. Tra passato e futuro, Raffaello Cortina, Milano 1991).

35 Mi ha sempre colpito come il processo di miniaturizzazione degli strumenti informatici che si traduce in una sempre più ridotta distanza anche fisica di essi dall’utilizzatore, e che in tempi credo prossimi arriverà ad annullarsi mediante l’uso di impianti corporei, renda sempre più difficile distinguere fra immagini che sono percepite mediante gli organi d senso e quelle che sono trasmesse mediante tecnologie, immagini queste prodotte intenzionalmente e seduttiva- mente pervasive. Creare quella distanza necessaria all’atto del giudicare così come lo abbiamo qui delineato diventerà dunque sempre più difficile.

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− Aristotele, Etica Nicomachea, (trad. Lucia Caiani).

− Baudrillard 1976: Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, 1976 (trad. italiana, Feltrinelli Milano 1979).

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− Hegel 1807: G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, 1807 (citato nella trad. di V. Cicero). − Kant 1781/1787: Immanuel Kant, Critica della ragion pura 1781/1787, (le citazioni sono

prese dall’edizione a cura di Pietro Chiodi, Torino 1967).

− Kant 1784: Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo 1784 (citato dalla trad. italiana in Immanuel Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Roma-Bari 2004).

− Kant 1788: Immanuel Kant, Critica della ragion pratica 1788 (citato nella trad. it. V. Mathieu). − Kant 1790: Immanuel Kant, Critica del Giudizio 1790 (citato nella trad. it. di Alfredo Gargiulo). − Koselleck 1959: Reinhart Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, Il Mulino,

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− Mariani 2006: Alessandro Mariani, Elementi di filosofia dell’educazione, Carocci, Roma 2006. − Marmontel 1751: Jean-François Marmontel, Critica in AA.VV . Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze delle arti e dei mestieri (qui citato nella tr.it parziale, Feltrinelli, Milano 1966).

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− Taylor 1989: Charles Taylor, Sources of the Self, CUP, Cambridge 1989 (trad. it. Radici dell’Io, Milano 1991).

− Taylor 1991a: Charles Taylor, The Malaise of the Modernity, Toronto 1991.

− Taylor 1991b: Charles Taylor The Ethics of Authenticity Cambridge 1991 (trad. it. Il disagio della modernità, Roma-Bari 1994).

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RECENSIONE

Davide Miccione, Lezioni private di consu-

lenza filosofica, Diogene Multimedia, Bo-

logna 2018, pp. 106, euro 9,80.

A trent’anni dall’avvio in Germania (ad opera di Gerd Achenbach) e a vent’anni dall’importazione in Italia (ad opera, soprat- tutto, di Neri Pollastri), la philosophische praxis – da noi tradotta, non proprio felice- mente, con “consulenza filosofica” – resta un’attività professionale semisconosciuta. Anzi, per l’esattezza: misconosciuta. Infatti, non è che la si conosca poco, o in pochi; la si conosce male nel senso che quasi sempre si suppone di conoscerla e, dunque, non ci si preoccupa di informarsi nel merito.

Qualcuno la scambia per una forma di counseling, di assistenza psicologica me- diante strumenti tratti dalla storia della filo- sofia; qualche altro per una versione laiciz- zata del prete cattolico o del guru induista, dai quali ci si aspetta una parola illuminante in un momento di difficoltà esistenziale; qualche altro ancora – ma si tratta di casi più rari – suppone che si tratti di una consulenza didattica rivolta a chi, leggendo libri di filo- sofia, trovi difficoltà di decifrazione dei testi.

Nella concreta esperienza quotidiana può capitare di tutto e un “consulente filo- sofico” non è un robot programmato per svolgere una sola funzione: è prima di tutto un soggetto umano a cui può succedere, ac- cidentalmente, di dare – se richiesto – un consiglio, un incoraggiamento o un chiari- mento tecnico su un classico del pensiero fi- losofico. Ma, in quanto consulente filoso- fico, egli è abilitato e dedicato ad altro: a che, esattamente?

Uno dei più stimati consulenti filosofici italiani, alla cui professionalità deve moltis- simo l’associazione nazionale “Phronesis” (www.phronesis-cf.com), Davide Miccione, lo spiega in un aureo libretto di poco più di cento pagine: Lezioni private di consulenza filosofica (Diogene Multimedia, Bologna 2018, pp. 106, euro 9,80). E lo fa proprio con andamento filosofico (almeno secondo una certa accezione, poco accademica, di filoso- fia): cioè problematico, autobiografico, dia- logico, ironico e autoironico…

Proviamo a restituire il filo rosso del suo discorso.

Nella prima lezione (lezione? «L’ultima cosa che dovrebbe fare un consulente quando fa consulenza, ma forse la prima, in questo momento, da fare se si parla di con- sulenza») l’autore parte dalla constatazione che, dopo tanti anni, i filosofi consulenti siano pochi e, tra questi pochi, pochissimi riescono a vivere solamente di questa pro- fessione. Mentre, però, in altri questa con- statazione sa di amara delusione, Miccione avverte sentimenti – e soprattutto esprime giudizi – di segno opposto: in una fase sto- rica di «pensiero unico, forse neanche quello», è davvero sorprendente che ci sia ancora un’associazione su scala nazionale che organizzi «congressi tra professionisti (per quanto poveri) che leggono classici, meditano sui problemi dell’esistenza e par- tecipano a complessi seminari invece che, più consuetamente, utilizzare anglobeceri- smi, parlare in pubblico leggendo slide, e so- stenere che il problema sia la brand reputa- tion». Insomma: stupefacente è il fatto che ci siano ancora laureati in filosofia che in- tendono questa disciplina come «costru- zione di un habitus in cui si ascolta anche ciò che ci fa male, si riesaminano le proprie po- sizioni, si chiede a se stessi lentezza e non velocità, fedeltà e non disattenzione, una di- sciplina che non offre soluzioni e ricette, ma ci rende più acuti e capaci di fare do- mande».

Nella seconda lezione ci si interroga sullo “spazio” della consulenza filosofica. Il consultante – il cittadino “comune”, solita- mente digiuno di storia della filosofia – che bussa allo studio di un filosofo consulente che cosa cerca (o dovrebbe cercare se fosse almeno in grado di percepire il suo bisogno, se non fosse così povero – come direbbe Heidegger – da non percepire come man- canza la propria povertà)? Di essere aiutato a esplorare il “non-pensato” che ognuno di noi veicola senza saperlo; a «restituire al pensiero» quelle sfere vitali che viviamo meccanicamente («il lavoro, il sesso, l’amore, l’uso della tecnologia, il corpo, il denaro, l’appartenenza a una comunità ec- cetera»). Insomma: nella relazione di consu- lenza filosofica si fa né più né meno di

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quanto hanno fatto, da Socrate in poi, i filo- sofi autentici. Essa è un “dialogo filosofico ad personam”: un dialogo effettivo, fra due persone in carne e ossa, non un dialogo co- struito a tavolino da un genio speculativo come Platone o come Leopardi.

La terza “lezione” mette a fuoco la ne- cessità, per il consultante e più ancora per il consulente, di essere disposti allo spiazza- mento rispetto a ciò che tutti pensano e/ a ciò che tutti hanno sempre pensato. E per- fino ad accettare le conseguenze sociologi- che della dislocazione nella terra di mezzo fra gli “integrati” (che non hanno nulla da obiettare al modus vivendi dominante) e gli “apocalittici” (che rifiutano in toto l’assetto sociale attuale): «il filosofo è costretto (in- dotto, tentato) a restare in una posizione la- terale periferica marginale, fuori dal gorgo dell’esistenza sociale dei suoi tempi. Disco- sto ma non separato, vicino ma non den- tro». Egli è alla faticosa ricerca di «una posi- zione adatta allo sguardo, alla riflessione e alla contemplazione. Dove gli eventi siano a vista ma ci interpellino con moderazione, ci lascino lo spazio e il tempo per pensare».

A questo punto si potrebbe rispondere, come fa Miccione nella settima e ultima le- zione, alla esigenza (essa stessa, però, pas- sibile di problematizzazione) di una defini- zione della consulenza filosofica. Consape- vole dell’arbitrarietà di ogni definizione, in quando comoda ma parziale, egli ne pro- pone, “con levitas”, una: «un dialogo filoso- fico (o più compiutamente una serie di dia- loghi filosofici) tra due individui avente come oggetto la vita di uno dei due o que- stioni ad essa riconducibili. Colui che pone liberamente come occasione di pensiero la propria vita si chiama consultante. L’altro, se è in grado di lavorarvi filosoficamente, consulente». Dire che si tratti di “dialogo” esclude forme di comunicazione solo appa- rentemente simili: «non dibattito, non con- versazione, non negoziazione. Dunque […] non è scontro tra verità previamente con- trapposte, non è parlare per provare pia- cere o distrarsi, non è cercare un compro- messo/risultato. È appunto un dialogo: vi è