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PENSIERI E IMMAGINI DELLA MIMESIS TRA FILOSOFIA E ARTE: LA SCIMMIA Giuseppina De Pasquale

1. La scimmia simula, così come simula l’arte.

Osservando il dipinto realizzato dall’artista francese Jean-Baptiste-Siméon Chardin, “La singe peintre (fig. 1)”, conservato al Louvre, non si può restare indifferenti davanti all’archetipica ana- logia che lega la scimmia all’uomo. Verrebbe da chiedersi perché la scimmia, e non un altro ani- male, sia equiparato all’uomo, o meglio, all’artista. Come nel pensiero umanista l’uomo è misura e canone per interpretare la realtà, così anche l’animale è stato utilizzato spesso come “termine di confronto” dell’uomo. Secondo la definizione di Maria Pia Ciccarese esso è uno “specchio oscuro” che riflette in modo approssimativo e deformato le sue caratteristiche positive e nega- tive. Come osserva lo storico dell’arte Michel Pastoreau, nel Medioevo la scimmia è uno dei tre animali, insieme al cane e al maiale, considerati più simile all’essere umano.1 Si tratta di una

somiglianza a lungo poco accettata di cui, a metà del XIII secolo, la filosofia scolastica ha stabilito i limiti e le definizioni: essa non sarebbe dettata dalla natura bensì dall’artificio. La scimmia, infatti, con il suo aspetto antropomorfo fa sembrare somigliante ciò che in realtà non somiglia per niente. Come indica il suo nome latino, simius, la scimmia “simula”, esattamente come si- mula l’arte. L’iconografia dell’animale entra nel campo della pittura e della scultura monumen- tale relativamente tardi.2 Si origina per prima nell’Ars illuminandi gotica, suo contesto privile-

giato per almeno quattro secoli (dal XIII secolo fino al XVI), dove continua a svolgere una fun- zione quasi esclusivamente decorativa. La maggior parte di rappresentazioni scimmiesche che si può raccogliere ricade nella categoria della parodia delle azioni umane (drôleries): raffigurazioni di un “monde renversé” i cui protagonisti sono i membri della più alta società come cavalieri e chierici.3

1 Per una trattazione più estesa sulla simbologia animale nel Medioevo vedi Pastoureau M., Symboles du Moyen âge: animaux, végétaux, couleurs, objets, Parigi, le Léopard d’or, 2012.

2 Ciccarese M. P., Bibbia, bestie e Bestiari: l’interpretazione cristiana degli animali dalle origini al medioevo in Animali

tra mito e simbolo, Botta S., a cura di Capomacchia A.M. G., Roma, Carocci, 2009, p. 75.

3 Janson W. H., Apes and ape lore in the Middle Ages and the Renaissance, Londra, The Warburg Institute, University of London, 1952, p. 166. Uno dei primi esempi di parodie scimmiesche fuori dal contesto miniaturistico è il soffitto

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I primi esempi iconografici della scimmia-artista si osservano in ambito nordico in relazione ad altre attività come quella dell’istrione o della scimmia-musico, entrambi afferenti alla sfera semantica dell’inutilità delle attività mondane, ovvero alla vanitas. Verso la seconda metà del XV secolo alcune tracce suggeriscono allusivamente la tendenza dell’artista ad identificarsi con la scimmia, come si può osservare nella Madonna col Bambino di Brera (1520, fig. 2) di Giovanni Bellini e nell’incisione di Hans Baldung Grien (fig. 3), raffigurante un gruppo di sette cavalli (1534). In entrambi i casi la scimmia compare esattamente sopra la firma dell’artista.4 Soltanto

alla fine del XVI secolo l’animale diventa esplicitamente attributo dell’imitazione artistica, come si può riscontrare nell’incisione realizzata dal Cavalier d’Arpino per l’edizione del 1625 dell’Ico- nologia di Cesare Ripa (fig. 4) dove la figura allegorica accompagnata dalla scimmia tiene nella mano sinistra dei pennelli e nella destra una maschera.5

Dal XVII secolo l’iconografia della scimmia dimostra il suo legame con la sfera semantica dell’arte visiva e poetica, diventando figura emblematica non solo del concetto alla base di tutte le arti, la mimesis, ma anche dell’istituzione artistica che le rappresenta: l’Accademia (fig. 5), come si può osservare in un’incisione dell’edizione del 1630 dell’Iconologia in cui la scimmia è raffigurata accanto alla sua personificazione.

Nel contesto del classicismo secentesco la positività che aveva caratterizzato quest’animale come simbolo d’arte mimetica si eclissa progressivamente fino a diventare, all’opposto, em- blema di cattiva imitazione ovvero della copia inetta e servile rispetto alla vera “ideale” crea- zione. Tale accezione, di cui una radice deve essere ricondotta al significato della scimmia come “dissimulatore” riportato negli Hieroglyphica di Horapollo (noto dal 1419)6 e successivamente

nell’Insolenza di Cesare Ripa nella sua “Iconologia”, è ben espresso dall’incisione “Imitatio Sa- piens” che precede la vita di Antoon Van Dyck nelle Vite del Bellori pubblicate nel 1672. La “buona imitazione” derivata dall’osservazione e dallo studio dei maestri antichi è armata di spec- chio mentre calpesta trionfalmente la scimmia, copia volgare e indiscriminata della natura.

È comunemente risaputo che la scimmia come metafora di arte mimetica definisce, per gran parte dei secoli in cui è utilizzata, il simbolo dell’imitazione degenere, ovvero dell’immagine ec- cessivamente “verosimile” al prototipo in quanto legata ad esso da un rapporto servile nel mec- canismo di riproduzione.

È tuttavia possibile individuare un brevissimo arco storico in cui la scimmia partecipa al giu- dizio sull’arte mimetica con un significato essenzialmente positivo. Tra la seconda metà del Tre- cento e la seconda metà del Quattrocento infatti, si assiste ad una rivalutazione della metafora della scimmia come riconosce anche Erwin Panofsky in un articolo del 1924 poi divenuto celebre,

della navata della cattedrale di Peterborough Inghilterra, datata al XIII secolo.Se ne rilevano in gran numero già nell’arte classica e in quella del vicino Oriente. Infatti, secondo Janson, i tipi di drôleries che si osservano nei manoscritti gotici del XII secolo possono legittimamente essere considerati dei “revival” di una tradizione più antica, anche se con dovute limitazioni. Riguardo alle parodie scimmiesche, esse si sviluppano nel genere specifico delle

singerie solo nel tardo XVII, accogliendo come soggetti anche gli strati popolari della società. Al filone satirico,

rappresentato dai margini di manoscritti liturgici del Duecento e del Trecento (come i Salteri inglesi) appartiene anche il Roman de Renart (fine XII). Per la figura della scimmia nel personaggio di Dama Rukenawe la scimmia, vedi M. Pastoreau, Animali celebri, Mito e Realtà, Giunti, Firenze, 2010, p. 90.

4 Per maggiori informazioni sull’argomento vedi Marret B., Portraits de l’artiste en singe; les singeries dans la peinture, SOMONGY Edition d’Art, Parigi, 2001, p. 33; Lecoq A.M., La singe de la Nature, in Lecoq A.M., Georgel P., La peinture

dans la peinture, Parigi, Biro, 1987, p. 56.

5 Ripa C., Iconologia, edizione Orlandi, 1765, tomo II, p. 8.

6 Boas F., The hieroglyphics of Horapollo, Princeton University Press, Princeton, 1993, libro II, p. 86, n. 67. L’autore spiega che il geroglifico del Babbuino è usato per rappresentare l’uomo che dissimula la propria inferiorità, i propri vizi, in particolare nella rappresentazione di una scimmia che urina. Questo significato resta nell’Iconologia di Ripa che, riprendendo Horapollo di Pierio Valeriano, afferma che la scimmia che nasconde i suoi escrementi rappresenta l’uomo che nasconde i propri difetti. Secondo il Ripa la scimmia è anche il simbolo dell’insolenza perché l’animale è spinto dal suo istinto naturale a scoprire le sue parti che sarebbe necessario nascondere e preservare. Boas rileva anche l’associazione del babbuino alle lettere, dunque alla sfera semantica della cultura: «In Egitto esiste una razza di babbuini che conosce le lettere perché quando un babbuino fu per la prima volta accolto in un tempio, i preti gli diedero una tavoletta, penna e inchiostro e questo dimostrò di appartenere alla razza che conosce le lettere se sa scrivere. Pertanto, l’animale è sacro a Hermes, Dio delle lettere» (traduzione mia). Ibidem, p. 52.

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«così il Rinascimento ha trasformato il paragone della scimmia da accenno dispregiativo della (effettiva) non autenticità del prodotto artistico in una lode della sua (artistica) verità».7

Qual è il rapporto che lega la metafora della scimmia alle riflessioni sulla mimesis? A quale mimesis si è fatto riferimento nell’utilizzo della metafora della scimmia-artista?

Gettando un ponte tra la scimmia e l’uomo, la mimesis si manifesta sia come somiglianza esteriore che come comune “atteggiamento” istintivo di assimilazione delle informazioni prove- nienti da immagini o azioni visualizzate. Nella figura della scimmia si concretizzano entrambi questi aspetti. A rafforzare tale punto di vista contribuisce la spiegazione etimologica proposta da Ernst Robert Curtius per il termine latino simulus, ovvero “simile”, indicante la scimmia; dallo stesso termine deriverebbe anche, elemento assai significativo, il verbo “simulare” nel senso di “imitare”.8

La scimmia ha rappresentato in una lunga tradizione l’emblema di una concezione della pit- tura, in virtù di alcune caratteristiche che le sono proprie come la capacità di imitare ciò che osserva e di tendere all’inganno, dovuta in parte ad una certa similitudo hominis di cui è esteti- camente portatrice.

Per fare chiarezza sul significato della scimmia come emblema dell’arte mimetica è necessa- rio confrontarsi con le due fondamentali declinazioni assunte dal problema della mimesis, così come sono state elaborate sin dall’antichità da Platone e Aristotele. È illuminante a tal proposito l’osservazione di Ernst Gombrich: «Ever since the greek philosophers called art an imitation of nature their successors have been busy affirming, denying, or qualifying this definition».9

Una convinzione diffusa, pressoché immutata nei secoli, vuole che Platone considerasse il concetto di mimesis in senso negativo. In realtà, recenti studi come quello di Steven Halliwell in The Aesthetics of Mimesis: Ancient Texts and Modern Problems (2002), dimostrano l’assurdità di tale assunto, già in parte rimesso in discussione da alcuni storici dell’arte. Panofsky infatti osserva che, ad un’accurata disamina dei testi, il filosofo ateniese distingue sempre, in ogni at- tività umana, «un modo vero di esercitarla e un modo falso», così anche per la sua riflessione riguardante l’attività mimetica nella produzione artistica. Nei passi della sua opera relativi alle arti figurative Platone contrappone i rappresentanti della mimetiké tekné, che sanno soltanto imitare l’apparenza sensibile nel mondo corporeo, a quegli artisti che cercano di far valere nelle proprie opere l’Idea e il cui lavoro può servire da paradigma persino per il lavoro del legislatore. Il significato di questa contrapposizione è spiegato nel celebre saggio di Panofsky sull’Idea, dove l’autore precisa che questi pittori possono essere platonicamente definiti “euristici” o “poietici” perché «lasciano sovente che l’occhio si posi vicendevolmente ora da un lato or dall’altro, il che vale a dire, una coi propri materiali, l’immagine umana, nella cui concezione essi si lasciano gui- dare da ciò che Omero aveva chiamato divino quando si manifesta agli uomini».

Molti studiosi hanno creduto di poter estrapolare dai dialoghi platonici una concezione uni- taria e compatta della teoria antica della mimesis; in realtà essa, nel suo articolarsi piuttosto in una trama dialettica di varie e differenti proposte, è, al contrario, quanto di più distante da un continuum dottrinario. A partire dal Cratilo, fino alle tarde Leggi, Platone addotta la terminologia della mimesis in una grande varietà di contesti che toccano l’etica, la psicologia, le arti poetico- musicali e infine anche quelle visive. Queste ultime rientrano in quella che il filosofo considera attività di rappresentazione “secondaria” dell’esperienza umana, perché inserite in una realtà tutta interna alla mente a fronte di quella rappresentazione “primaria” che è il pensiero umano, la percezione e il linguaggio nel contatto con la realtà esterna.

Nella riflessione antica, sin dai suoi inizi, il campo semantico della mimesis presenta uno spettro di significati di notevole ampiezza che spazia dalla somiglianza visiva all’emulazione dei

7 Panofsky E., Idea: contributo alla storia dell’estetica, Torino, Bollati Boringhieri, 2006, p. 122, nota 22 (la prima edizione è del 1924 facente parte degli Studi del Warburg Institute pubblicati a Lipsia-Berlino).

8 Curtius E. R., 1993 (ristampa), Antonelli R., (a cura di), Letteratura europea e medioevo latino, Firenze, La Nuova Italia, 1948, p. 602.

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comportamenti, dalla capacità di impersonare un ruolo in contesti drammatici alla riproduzione di suoni di natura espressiva, fino alla conformità metafisica, che per Aristotele caratterizza la concezione pitagorica del rapporto tra mondo materiale e il mondo astratto dei numeri.10 Sin da

una fase antica, la mimesis si riferisce al concetto di “rappresentazione” implicando l’uso di un medium artistico in grado di significare e di comunicare delle realtà ipotizzate.

Il problema della mimesis come rappresentazione produce in sostanza una polarità tra due modi di pensare l’arte rappresentativa: da un lato indaga la relazione “esterna” tra l’opera arti- stica e la realtà, ovvero la natura; dall’altro il rapporto tra l’organizzazione “interna” e la finzione propria dell’atto stesso di imitare. L’oscillazione tra i modi di pensare l’atteggiamento mimetico comporta una differenza tra un modello “riflessivo” di rappresentazione artistica, che “riflette il mondo”, di cui è emblema lo specchio, e una rappresentazione artistica “creatrice”, che invece punta a riprodurlo. Se il modello del rispecchiamento del mondo, tipico di un’estetica del reali- smo, comporta il riflesso di una realtà concepita nella sua esistenza esterna o indipendente dall’arte e dalla mente dell’artista, il modello di mimesis come simulazione del mondo, produce un “eterocosmo”: un immaginario mondo a sé che può rassomigliare al mondo reale e può, per certi aspetti, ricordarcelo. Una visione di mimesis come “rispecchiamento” prevede, solita- mente, un’estetica del realismo secondo cui l’opera vale quanto più è conforme alla vita e può pertanto legittimare un’etica della “finzione”.