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PENSIERI E IMMAGINI DELLA MIMESIS TRA FILOSOFIA E ARTE: LA SCIMMIA Giuseppina De Pasquale

7. La scimmia come appellativo dell’artista nel Rinascimento italiano.

Attraverso Sant’Agostino, si passa da un’accezione “degenere” della creazione demoniaca dell’artista-scimmia ad una visione relativistica, propedeutica all’inversione di significato che coinvolge l’attività mimetica dell’artista-scimmia nel primo Rinascimento, quando il paragone arrivò a ricoprire un significato altamente elogiativo prima di riacquistare, in un secondo mo- mento, l’originale accezione dispregiativa. Già negli ultimi decenni del Trecento, infatti, il riferi- mento all’animale imitatore viene usato come appellativo, decisamente positivo, per indicare un’artista che la tradizione letteraria artistica ha consegnato alla memoria come uno degli “egre- gissimi doctori”, iniziatori della maniera moderna: Stefano fiorentino. Il pittore fu detto per la prima volta dal cronista fiorentino Filippo Villani nel De origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus (1381-1388), “scimmia della natura”.26 Le sue qualità, come la creatività inven-

tiva di nuove pose e panneggi, l’abilità nel suggerire le forme umane dietro questi, la dolcezza delle “aree di testa”, le belle attitudini e, più di tutte l’uso, seppur intuitivo ma non per questo poco sorprendente, della prospettiva e degli scorci, avvicinano il primo pittore-scimmia alle pe- culiarità della maniera “moderna”. Esse indicano inoltre la sua capacità di “costruire mondi” ap- parenti e percepibili attraverso le facoltà esteriori dell’esperienza, in modo da rendere inscrivi- bile la produzione dell’artista-scimmia nella categoria della mimesis phantastiké. L’abilità, attri- buita dalle fonti a Stefano fiorentino, nella resa della tridimensione attraverso l’uso sapiente di ombreggiature, “presentificando” ciò che non esiste, avvalora la definizione della pittura già

24 «Simia quam similis turpissima bestia nobis», Ennio, De Divi, 122 b. 25 Isidoro di Siviglia, Etymologiae, cap. IX.

26 Per la fortuna del tema dell’ars simia naturae vedi Schlosser J. Von, Lorenzo Gibertis Denkwurdigkeiten, in «Kunstgesch. Jahrb. der K. K. Zentralkimmission», 1910, IV, pp. 5 e ssg. Cfr. Filippo Villani, a cura di G. Camilli Galletti,

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esposta nel XIII secolo da Alain di Lille come “scimmia della natura” che «con un nuovo artificio converte l’ombra delle cose nelle cose stesse e rende vere finzioni singolari».27

Come si spiega, dunque, l’inversione positiva del paragone della scimmia? È innegabile che sul finire del Trecento si affermò una nuova etica dell’inganno ottenuto tramite l’artificio, non più stigmatizzato come diabolica intenzione alla frode, bensì esaltato in conformità con i principi umanistici che celebrano l’ingenium come la più importante qualità dell’uomo che si esprime anche nel campo della pittura naturalistica simboleggiata dalla scimmia. Questo legame trova eco nel titolo del saggio di Francesca Bonazzoli, “l’inganno della scimmia”, riguardante fanta- siose vicende di artisti che in virtù del loro stesso mestiere sono, come la scimmia, “ingannatori” per eccellenza.

La dottrina agostiniana sosteneva che qualsiasi sforzo dell’uomo nell’imitare la natura con l’arte fosse vano. Con l’affermazione della dottrina tomistica e la prevalenza dei sensi nell’atto conoscitivo che porta alla visione di Dio, la qualità tecnica capace di illudere e di contraffare la materia perde le proprie implicazioni “fraudolente” ereditate dalla tradizione altomedievale precedente per divenire mezzo attraverso cui comprendere l’essenza delle cose e glorificare l’intelletto.

La rivalutazione della metafora della scimmia alla fine del XIV secolo è evidente nell’elabo- razione teorica boccacciana. Nel IV libro delle Genealogie Deorum gentilium, Boccaccio racconta del mito della creazione divisa tra i fratelli Prometeo ed Epimeteo e della successiva trasforma- zione in scimmia di questi come punizione per aver creato una scultura umana non piaciuta a Zeus: «imitando la natura della Bertuccia fu detto simia». Che significato ha lo sdoppiamento dell’atto creativo tra i due titani? La creazione “insufficiente” e “insoddisfacente” di Epimeteo si contrappone a quella perfetta prometeica. Probabilmente Boccaccio rintraccia una versione più rara del mito (riesumata dal poeta tardoantico Claudiano) per illustrare la sostanziale duplicità che caratterizza il fare artistico: da un lato l’istintualità rappresentata dalla scimmia-Epimeteo, artefice di una produzione meccanica che richiede comunque una certa conoscenza tecnica; dall’altro l’”idea superiore” prometeica, dettata dall’intuizione di un personaggio famoso per la capacità di inventarsi sempre nuovi inganni che sfidano il divino. Poiché non ha a disposizione la ratio, simboleggiata dall’ignis celeste, strumento capace di vivificare la sua creatura, la mimesis di Epimeteo si configura ancora come primitiva e, per così dire, “animalesca”. Infatti, rispetto agli altri animali, il primate possiede una facoltà di manipolazione strumentale degli oggetti e una facoltà di giudizio (aestimatio) di ciò che è buono o cattivo, inutile o vantaggioso, anche se solo per fini di sopravvivenza. A mio avviso il titano-artigiano scimmiesco Epimeteo, condannato da Zeus, non viene condannato altresì dall’autore dell’opera, il quale ci fa intendere, al contrario, la sua alta considerazione verso l’artista-scimmia che viene detto infatti “d’acuto ingegno”.

Se l’uso metaforico della scimmia in relazione all’arte capace di costruire inganni sembra essere suscitata dal concetto negativo di Simia Dei, la “scimmiottatrice” creazione di falsi idoli, è naturale che la sua capacità di usare strumenti la distingue da tutti gli animali esistenti, solle- citando l’associazione diretta con l’Ars mechanica. Da emblema dell’istinto, per la verità “pecca- minoso”, come si evince dalle molteplici raffigurazioni dei progenitori cui la scimmia è accostata, l’animale diventa pertanto emblema dell’impulso, anch’esso istintivo, a plasmare attraverso l’ars.

Ci si è chiesti se la metamorfosi in scimmia sia originata dalla visione punitiva che in molte culture coinvolge chi usurpa la prerogativa divina della creazione o se vada piuttosto interpre- tata come naturale raggiungimento, anche nell’apparenza, di una condizione ontologica scim- miesca già preesistente. La metamorfosi in scimmia del personaggio di Tersite nel mito platonico di Er dimostra che talvolta, specialmente nella concezione greca in cui essere e apparire sono profondamente corrispondenti, il mutamento dell’apparenza non fa che confermare quella che

27 Alain de Lille, Anticlaudianus, I, p. 4 (datato tra il 1125 e il 1202): “Oh il potere dei dipinti, Ciò che non ha esistenza viene ad esistere!”

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è già la natura del personaggio, in questo caso una natura “scimmiesca”. Nel caso della meta- morfosi di Epimeteo nel mito raccontato da Boccaccio sembra potersi scorgere la coesistenza di questa concezione con quella della punizione il cui risultato rende possibile una duplice lettura: il “neutro” compimento di un’indole già scimmiesca di matrice classica e l’esito di un sostrato cristiano in cui la metamorfosi funge da contrappasso per la disobbedienza alla legge divina.

È interessante notare come la valutazione non totalmente negativa della scimmia si possa caricare di senso positivo all’interno di un contesto culturale caratterizzato dalla strenua pole- mica verso il sapere speculativo e dogmatico della Scolastica, imperante nei circoli universitari al termine del Trecento e sentito ormai come “inutile” e anacronistico. Non bisogna dimenticare però che la scimmia viene anche utilizzata come immagine parodistica volta a criticare la vuota ripetizione delle auctoritates da parte dell’élite intellettuale. Parallelamente però, nel contesto della rivalutazione delle competenze meccaniche, la capacità dell’artista di reiterare, anche se “scimmiescamente” cioè “meccanicamente”, tecniche acquisite con un lungo e faticoso appren- dimento in bottega, non forniva soltanto la garanzia della buona esecuzione di un’opera ma poteva ben rappresentare, seppur per un brevissimo periodo, una virtù artistica.

Sulla base di queste osservazioni è naturale constatare che la metafora della scimmia equi- vale ad esprimere il raggiungimento dello stesso livello conoscitivo delle Artes liberales la cui conquista avvenne attraverso la matematica o l’anatomia. In particolar modo nel tardo XIV e nel primo XV secolo, tale salto di status rappresentava una delle questioni più “scottanti” riguardo la dignità della figura dell’artista, ancora confinato in un delicato limbo tra artigianato e “arte” intesa nel senso moderno di creazione che predilige la “forza di mente” alla “forza di mano”.

L’immagine dell’artista-scimmia che si ricava dalla descrizione di Stefano contenuta nelle Vite del Vasari è quella di un eccezionale anticipatore della maniera moderna. Questa conce- zione è ben espressa dalle parole del Vasari in cui Stefano, al pari di un “iniziatore di civiltà”, è come «quei che va di notte e porta il lume facendo dopo sé le persone dotte». Tuttavia, il para- gone della scimmia sembra essere richiamato in causa per suggerire come, benché l’arte di Ste- fano fosse innovatrice per il suo tempo, rimanesse comunque ad un “gradino inferiore” rispetto ai maestri rinascimentali. La visione vasariana contiene il giudizio qualitativo sull’arte dei suoi predecessori con un significato per molti versi accostabile al “relativismo” agostiniano, che con- sidera la scimmia una creatura “non brutta in sé” ma soltanto se considerata in relazione all’uomo. Il significato che la metafora della scimmia stava assumendo è partecipe dell’approccio evoluzionista dell’estetica del secondo Cinquecento.