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Hannah Arendt nella riflessione del Novecento Dalla diffidenza ideologica e politica alla lettura degli ultimi decenni.

HANNAH ARENDT E LA CATEGORIA DELLA NATALITÀ Carla Andreozz

1. Hannah Arendt nella riflessione del Novecento Dalla diffidenza ideologica e politica alla lettura degli ultimi decenni.

Hannah Arendt (Hannover, 1906 – New York 1975) è stata una delle voci più autorevoli della filosofia del Novecento.

Definitasi ella stessa un’apolide del pensiero, spesso il suo nome è rimasto legato a polemi- che ideologiche e storiografiche e i suoi scritti hanno sicuramente costituito “un caso”, se non addirittura uno scandalo, da molteplici punti di vista.

Non è appartenuta a nessuna scuola e non si dichiarava filosofa, pur avendo studiato con le figure imprescindibili del panorama filosofico tedesco del Novecento (da Jaspers a Husserl ad Heidegger), figure che le avevano trasmesso la passione del pensare intesa come sete di signifi- cato, di senso, che non si soddisfa delle risposte parcellizzate e di settore, e che indirizza al mondo quale dimora della pluralità umana.

A diciotto anni – lei di origine ebraica – si innamora, ricambiata, di un Heidegger trentacin- quenne con il quale manterrà poi un rapporto di amicizia e di stima fino alla morte, nonostante il famoso discorso di Rettorato che il filosofo pronuncia nel 1933 a Friburgo e che sancisce so- stanzialmente la sua adesione al nazismo. Sposata poi ad un ex spartachista, aveva fatto sua la battaglia contro il comunismo staliniano, battaglia che, affermava, “prosegue quella contro il nazismo”; eppure, nel contesto americano delle purghe del maccartismo, scriveva anche che non si poteva stare dalla stessa parte di chi, ai comunisti, negava ogni libertà di pensiero. Gio- cando in anticipo di circa un ventennio, aveva preso altresì le distanze dalle rivoluzioni europee a cominciare da quella francese (particolarmente importante per la storiografia, specie di sini- stra) poiché, sosteneva, la Rivoluzione francese si sarebbe poi posta al servizio dello stato (come sfera domestica allargata) e delle sue funzioni riproduttive. Profuga dalla Germania nazista (prima in Francia e poi, in seguito all’occupazione della Francia, negli Stati Uniti), con La banalità del male (1963) obbligava gli studiosi e gli stessi ambienti ebraici a rivedere l’intera storiografia del nazismo mentre tornava a sottolineare (dopo Le origini del totalitarismo, 1951) il legame inscindibile tra totalitarismo e società di massa, tra ideologia e burocrazia: il campo di sterminio diventa l’istituzione suprema dei regimi totalitari, i cui i servitori appaiono piccoli, grigi, incapaci

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di pensare liberamente. Il male dunque, ella sosteneva, si radica ove si chiude lo spazio della coscienza critica personale, poiché esso alligna in tale vuoto e non ha nessuna profondità. Ciò, lungi dall’attenuare le responsabilità del nazismo, rendeva la sua interpretazione meno mani- chea e più inquietante e le costava l’isolamento dalla stessa comunità ebraica, anche perché non aveva taciuto alcune ambiguità e debolezze degli Judenrat. A lei dunque spettava, tra l’altro, la maternità della stessa definizione di totalitarismo, entrata ormai in via definitiva nel nostro les- sico politico.

Estranea a qualsiasi cliché femminista, scrisse almeno un paio di saggi su figure femminili quali Rosa Luxemburg e Rahel Varnhagen (in questa seconda opera, il tema della nascita è non a caso ricorrente: nascere donna e ebrea imprime un segno indelebile a tutta l’esistenza di Rahel, come del resto a quella di Hannah). Soprattutto, alcuni dei suoi leitmotiv continuano ancora ad essere fondanti per il pensiero femminista, come sostiene, ad esempio, Adriana Cavarero: il tema della nascita, in quanto categoria centrale dell’ontologia e della politica, e quello della nar- razione, che restituisce il senso profondo del chi è, ne sono degli esempi significativi. Analizziamo dunque brevemente ciò che dice Cavarero, autorevole esponente degli studi arendtiani.

La natalità, sottolinea la filosofa italiana, è secondo Arendt l’evento fondante della condi- zione umana ed è ciò che demarca il pensiero politico (considerato “la seconda nascita”) dalla metafisica, centrata invece millenariamente sull’essere-per-la-morte (da Platone ad Heidegger). Occorre dunque ripensare l’umano attraverso tale categoria, di cui tuttavia nella storia del pen- siero occidentale si trovano scarse tracce.

Vero è che il primo filosofo per antonomasia, Socrate, ci dice che aveva imparato la tecnica maieutica da sua madre, un’ostetrica. Sua madre aiutava le donne a partorire figli, egli aiutava gli uomini a partorire la verità. Vero altrettanto è che Platone nel Simposio parla per bocca di una donna, Diotima, maestra di Socrate. Sembra non esserci misoginia alle origini del pensiero occidentale (come del resto nel fatto che si contino gli anni della nostra era a partire dalla nascita di Cristo e che la salvezza verrebbe perciò da ciò). Ma a ben guardare, secondo Cavarero, si tratterebbe di “una volontà mimetica dell’esperienza femminile”. La filosofia è l’autentica ma- ternità ed è maschile. Tale esperienza snatura e depotenzia (sino a negarla) quell’esperienza legata invece alla corporeità e all’unicità che non può che essere femminile. Quella delle donne giunge quindi a non essere vera esperienza partoriente, in quanto dalle donne si genererebbe solo carne per la morte. Un’espropriazione dunque, quella di Platone, che viene inscenata per voce femminile in un momento in cui l’eco del Matricidio, in seguito al consolidamento del mo- dello patriarcale, risuona ancora. Dal filosofo maschio invece e dall’amore omosessuale tra ma- schi si generano figli immortali, idee eterne ed immutabili che trascendono l’esperienza sensi- bile, il corpo e la sua caducità (il padre della metafisica occidentale, Parmenide, affermava del resto già prima di Platone che il divenire è solo un’illusione dei sensi poiché il Vero, l’Ente, è eterno ed immutabile). Pensiamo all’inquietante mito della caverna platonica, la pagina più ce- lebre dell’intera storia del pensiero filosofico: un venire alla luce del Vero che nega l’apparire – ciò che si manifesta – in quanto ombra.

Accennando poi al tema della narrazione, per Arendt (sempre nell’interpretazione di Cava- rero), non contava il “cosa sei”, tipico delle filosofie e delle scienze, ma il “chi sei”, dato da ciò che l’azione esibisce. Non l’ontologia ma la fenomenologia nel senso etimologico. Tuttavia, l’azione è nell’attimo e l’attimo è precario, è fragile: essa mostra ma non conserva e dunque non risponde davvero al “chi sei”. Ciò che vi risponde è la narrazione, la "biografia". I grandi eroi sono tali perché agiscono, ma noi ne abbiamo memoria perché qualcuno ha narrato le loro gesta.

Dunque, oltre all’azione, ciascuno può acquisire una qualche durata mondana attraverso la narrazione: ma è solo qualcun altro che può raccontarmi, o almeno è questo che interessava ad Hannah, che forse avrà amato i versi di Pablo Neruda

Ognuno

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che non riesce a leggere da solo. Ha bisogno di qualcuno che, con la meraviglia

e l’incanto negli occhi, la legga e gliela racconti.

Le donne sono da sempre grandi narratrici. Da sempre hanno raccontato scampoli di storia, hanno cercato il senso del sé e lo hanno offerto all’altro per tramandare saghe familiari, per addormentare bambini, per insegnare, per dare significato alle proprie storie d’amore. Arendt ammirava molto Karen Blixen, ad esempio, e come lei credeva che il racconto raggrumasse il significato profondo di un’identità personale. Ne La vita della mente (1978) citava Ulisse alla corte dei Feaci: Ulisse piange e non aveva mai pianto. Ma ora, sentendola raccontare dall’aedo, capisce il significato della sua storia. Ha scoperto il “chi è” e ha scoperto che esso può essere tramandabile. Le donne da sempre tramandano e traducono in storie la luce dell’azione, dell’uni- cità legata all’azione che si cristallizza e permane nella narrazione. La lingua femminile è voce e canto, non arido concetto.

2. Il sovvertimento della tradizione: da Platone ad Hegel ai “filosofi del sospetto” e alla