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Le differenti letture dello specismo

Nel documento ANIMALI  POLITICI. (pagine 152-156)

6   UNA PANORAMICA SU ASSOCIATI, ATTIVISTI E VOLONTARI

6.5   Le differenti letture dello specismo

Nel paragrafo precedente, parlando del diverso approccio al regime alimentare, è emersa la questione relativa alle differenti definizioni dello specismo. Se tutti i movimenti sociali si trovano a fare i conti con la dicotomia fra membri che investono maggiormente sull’azione individuale e altri che invece ritengono efficaci esclusivamente forme di lotta collettiva, nel caso dell’animal advocacy tale scissione pare particolarmente evidente, almeno guardando alla produzione filosofico/militante.

Riprendendo alcuni dei temi trattati poc’anzi e altri abbondantemente discussi nei capitoli teorici, possiamo dire in modo schematico di essere in presenza di una dicotomia fra un approccio ispirato all’individualismo, che ritiene possibile cambiare la società a partire dalle azioni dei singoli individui (e dunque, per esempio, tramite l’adozione di una dieta e uno stile di vita individuale), e un altro approccio che ritiene insufficiente tale strategia volta al raggiungimento di una massa critica vegana, insistendo piuttosto sull’azione indirizzata a cambiare le strutture sociali e i rapporti di sfruttamento, in modo particolare tramite l’instaurazione di relazioni con altri movimenti di critica all’esistente. Questa seconda prospettiva ritiene che lo sfruttamento dei non-umani sia sostenuto da istituzioni e non da

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singoli, in una prospettiva secondo cui sarebbe la violenza istituzionalizzata a mantenere lo status quo.

Per testare la validità di tale dicotomia, e alla ricerca di un’ulteriore conferma rispetto alla frammentazione interna all’animal advocacy, abbiamo chiesto ai rispondenti di indicare le due frasi in cui si riconoscono maggiormente fra un ventaglio di proposte che, in buona sostanza, spaziavano fra il polo individualista e quello strutturale. Si riporta nella tabella 6.9. il dato relativo a tale quesito.

Tab. 6.9. - Affermazioni più condivise dagli animal advocates

Le gabbie devono essere vuote 39,5%

Il modo più efficace per testimoniare il proprio impegno è la coerenza dello stile di vita 38,2% Solo cambiando l'intera struttura sociale si può ottenere la liberazione animale 37,1% Si può cambiare la società convincendo i singoli individui 28,2% Gli animali devono essere liberati, anche tramite azioni illegali 23,3% È giusto impegnarsi per migliorare la vita degli animali, ma senza compiere azioni illegali 22,7%

Fonte: nostro questionario animal advocates italiani, 2015.*

* Il totale non risulta 100, in quanto era possibile fornire un massimo di due risposte.

Tre sono le risposte indicate come principali affermazioni in cui si rispecchiano i rispondenti: “le gabbie devono essere vuote”, “il modo più efficace per testimoniare il proprio impegno è la coerenza dello stile di vita” e “solo cambiando l'intera struttura sociale si può ottenere la liberazione animale”. Pare riprodursi la spaccatura di cui abbiamo detto in precedenza: da una parte il riferimento alla coerenza dello stile di vita e dunque una forte fiducia nelle potenzialità di mutamento espresse dai singoli atteggiamenti individuali, dall’altra la convinzione che solo un intervento sulle strutture sociali possa condurre a reali cambiamenti. Nel mezzo (e in prima posizione) si colloca la frase sulle “gabbie vuote”, citazione di un noto volume di Tom Regan (2004) e classico slogan abolizionista, contrapposto alla cautela dell’approccio riformista/welfarista. Tale slogan viene tuttavia spesso abbracciato, anche se con accenti diversi e con un diverso grado di consapevolezza, da assertori di entrambi gli approcci individualista e strutturale.

Tuttavia, al netto di alcune contenute differenze fra aree, la domanda relativa alle frasi maggiormente condivise è forse, fra tutte quelle presenti nel questionario, quella in cui meno

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si riscontra una divergenza fra le aree antispecista, protezionista e della cura. Ciò è probabilmente dovuto al grado di interpretabilità di tali frasi, che, se nella mente del ricercatore (e nella letteratura di riferimento) sono estremamente connotate, possono forse essere apparse meno precise ai rispondenti, i quali ne hanno dato un’interpretazione più personalizzata. Detto in altri termini: non emerge una natura dello specismo né chiaramente in termini di pregiudizio né di ideologia.149

Ciò viene confermato anche dalle risposte fornite dai “membri rilevanti”, quando sollecitati su questo specifico aspetto. Generalmente l’argomento di una doppia importanza di entrambi gli aspetti è stato sottolineato dagli appartenenti a tutti i gruppi selezionati, sia nell’individuazione dello specismo come contemporanea forma di pregiudizio e ideologia, sia nelle misure necessarie a contrastarlo.

Diversi fra gli intervistati hanno riportato la celebre frase, attribuita a Linda McCartney e spesso citata in ambienti animalisti: “Se i mattatoi avessero pareti di vetro, saremmo tutti vegetariani”, a testimonianza di una forte fiducia nei confronti di un proselitismo rivolto ai singoli individui.

Io che sono un’ottimista penso che sinceramente diciamo le persone tra virgolette normali, non i sadici, gli insensibili, io mi immagino i miei genitori (cioè le persone normali), se avessero la possibilità di vedere e fossero costretti a vedere, cambierebbero. (Vita da Cani, Intervista 1, S.D.)

Un altro riferimento particolarmente utilizzato dagli intervistati, seppur con accenti molto differenti, è quello alla psicologa statunitense Melanie Joy, la cui posizione è per certi versi simile a quella di Linda McCartney. Come accennato nel capitolo 2, la Joy invita i suoi lettori a una conversione alla dieta vegana, nella convinzione che solo tramite una presa di coscienza dal basso possa prodursi un effettivo cambiamento sociale, in grado di sovvertire il pregiudiziale atteggiamento culturale che l’autrice definisce “carnismo”.150

149 Riprendendo quanto discusso nelle pagine precedenti, l’approccio che interpreta lo specismo come ideologia ritiene primariamente responsabili della gerarchizzazione e discriminazione di specie i singoli individui umani (volendo schematizzare nei termini dell’evoluzione storica del concetto, si tratta dunque di una prospettiva più vicina al cosiddetto “primo antispecismo”); l’approccio che invece interpreta lo specismo come ideologia individua nelle strutture sociali la causa dello sfruttamento animale (in una prospettiva più vicina a quella del cosiddetto “secondo antispecismo”).

150 Una posizione simile è anche quella del fortunato best-seller, parzialmente autobiografico, di Jonathan Safran Foer, Eating animals (2009).

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Dunque, pur alla luce di una contemporanea sottolineatura dei due aspetti, l’importanza assunta dal proselitismo face-to-face risulta, in termini generali e di strategie di gruppo, lievemente maggioritaria rispetto all’insistenza sulle strutture sociali. Tale tendenza, d’altra parte, sembra rispecchiare il mutamento che sta attraversando l’animal advocacy negli ultimi anni: se la centralità delle analisi e delle strategie “macro” aveva caratterizzato la svolta coincidente con il “secondo antispecismo”, sempre più il ruolo dell’agency individuale e in modo specifico del veganismo stanno tornando a emergere come elementi primari.

Va, infine, precisato come, soprattutto in riferimento a questa domanda, alcuni intervistati abbiano tenuto a precisare come la loro posizione personale sia in parte differente rispetto a quella ufficiale del gruppo. Come si ricorderà, le nostre interviste a membri rilevanti sono da riferirsi alla dimensione collettiva, e gli intervistati sono stati interpellati come rappresentanti (formali o informali) del gruppo d’appartenenza; tuttavia, il fatto di effettuare le interviste face-to-face e la natura stessa dell’intervista semi-strutturata (della Porta, 2010), condotta con una traccia di riferimento ma passibile di integrazioni, ha fatto in modo che emergessero anche riferimenti soggettivi e personali. In casi di tal fatta, è stata evidenziata l’azione a livello macro del gruppo, ma con un accenno alla predilezione dell’intervistato per un approccio micro.

Io credo che la LAV, ma forse più in generale tutte le associazioni, puntino sul cambiamento massificato e istituzionalizzato, cioè dall’alto…Viceversa io credo che sia necessario il contrario: sicuramente il cambiamento definitivo è quello individuale, anche perché quando si va a votare ognuno vota il suo, e però la somma di quei voti fa la differenza fra chi vince e chi perde, e questo vale esattamente lo stesso per ogni scelta che facciamo. (LAV, Intervista 1, C.P.)

Il nostro obiettivo è quello di fare avere a queste investigazioni la rilevanza nazionale che meritano per fare poi cambiare le leggi e quindi la struttura attraverso cui la società si muove: è chiaro che per un cambiamento sociale di questo tipo si deve per forza passare per il consenso delle istituzioni…Opinione mia personale: mi piaceva molto fare i banchetti e dialogare con le persone, e mi piace ancora adesso tanto. Io credo che le persone, il cambiamento e la vera rivoluzione della società parta molto anche dall’individuo, e quindi è importante agire anche sull’individuo, sulle scelte individuali. (Essere Animali, Intervista 3, N.C.)

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In questo paragrafo abbiamo dunque visto come la “realtà” sia più complessa delle teorie di riferimento e, in questo caso, solo in minima parte rispecchi i costrutti teorici astratti, che vorrebbero una netta dicotomia fra considerazione dello specismo come pregiudizio oppure come ideologia. Allo stesso modo, preme concludere con una riflessione di natura più generale. Non solo tale dicotomia risulta più sfumata del previsto, ma risulterebbe scorretto abbinarla automaticamente all’ulteriore dicotomia fra approccio culturale e approccio politico: come sottolinea Stuart Hall (2002), infatti, la stessa soggettività politica diviene elemento strategico e posizionale. Allo stesso tempo è evidente come, al contrario, le operazioni di “traduzione culturale” sviluppate dai movimenti sociali e volte alla formulazione di proposte innovative siano già esse stesse da interpretarsi come “pratica di politicizzazione” (De Sario, 2009, p. 157).

Nel documento ANIMALI  POLITICI. (pagine 152-156)