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Studi sociologici sugli animal advocates

Nel documento ANIMALI  POLITICI. (pagine 34-40)

2   ANIMALI E ANIMAL ADVOCATES IN LETTERATURA

2.2   Human-Animal Studies

2.2.3   Sociologia  e  HAS

2.2.3.2   Studi sociologici sugli animal advocates

Veniamo infine a occuparci più nel dettaglio della letteratura inerente il nostro specifico fenomeno di interesse. Come detto nell’introduzione, va innanzitutto segnalata la scarsità di contributi a riguardo e soprattutto, fino a qualche anno fa, l’assimilazione dell’animal advocacy all’interno (e sempre in posizione sussidiaria) di altri movimenti, in particolare quello ambientalista (Diani, 1988; Mela, Belloni, & Davico, 2000). Se ciò si deve al fatto che la mobilitazione sta vivendo una notevole crescita soprattutto in tempi recenti, tuttavia stupisce tale scarsità di riferimenti a livello accademico in un Paese, come l’Italia, con una forte tradizione di studi sui movimenti sociali. Il rapporto con l’animalismo rimane ambiguo

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quasi quanto quello con l’animalità stessa: da una parte, si sviluppa un forte interesse nei suoi confronti, dovuto all’affermarsi di valori post-materialisti e più in generale all’emersione di stili di vita caratteristici della tarda modernità; dall’altra, la questione viene raramente presa sul serio, spesso limitandosi a immagini stereotipate degli animal advocates, rappresentazioni certo effettive ma spesso minoritarie e iper-veicolate dai media mainstream (Cole & Morgan, 2011; Almiron, Cole, & Freeman, 2015).

L’unica analisi italiana di carattere socio-antropologico di cui siamo a conoscenza è quella di Sabrina Tonutti (2007): si tratta, tuttavia, di un lavoro di taglio archivistico e documentario, volto alla dettagliata ricostruzione storica delle principali tappe che hanno costituito l’animal advocacy nostrana. Quanto ci proponiamo noi è, invece, un lavoro dal carattere sociologico, che utilizzerà dunque, come verrà abbondantemente spiegato nel quarto capitolo, tecniche sia di carattere quantitativo sia di carattere qualitativo.

La letteratura straniera offre un maggior numero di contributi in riferimento agli animal advocates e all’animal advocacy come specifica entità. Fatta questa precisazione, bisogna registrare come anche a livello internazionale l’argomento sia ancora in fase emergente. La “denuncia” di Shapiro (1993) nell’editoriale del primo numero di Society & Animals (rivista di riferimento degli HAS in ambito internazionale) secondo la quale lo studio dei movimenti socio-politici risultava sottorappresentato negli HAS, è stata ribadita da successivi contributi (Garner, 1995) e sembra in parte mantenere tuttora una sua validità. Munro (2012), nel tracciare una review sull’argomento, evidenzia come questo sia uno dei temi meno affrontati, nonostante un suo approfondimento sarebbe potenzialmente ricco di elementi che fanno riferimento alla teoria dei movimenti sociali e, a sua volta, potrebbe contribuire a nuovi sviluppi teorici più generali.

Si segnalano alcuni lavori di carattere quantitativo e volti a tracciare un profilo socio-demografico degli attivisti in differenti contesti nazionali (Plous, 1991, 1998; Munro, 2001; Diaz Carmona, 2012), e ricerche di taglio qualitativo che indagano pratiche e credenze degli animal advocates (McDonald, 2000; Turina, 2010; Dubreuil, 2009, 2013; Hirschler, 2011; Jacobsson & Lindblom, 2013). Partendo da queste ultime, va ricordato il lavoro comparato di Cherry (2010) in cui vengono evidenziate le similitudini fra la realtà francese e quella statunitense: entrambi i movimenti nazionali proporrebbero un’operazione di boundary shifting (Wimmer, 2008), che rappresenterebbe il principale obiettivo degli attivisti, non solo legato alle strategie del presente, ma soprattutto nell’ottica di un cambiamento culturale sul

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lungo termine. Tale prospettiva sarebbe ben esemplificata dalle campagne di PETA (People for Ethical Treatment of Animals, la più grande associazione mondiale di animal advocacy) volte ad assimilare il trattamento riservato agli animali nei mattatoi e quello riservato agli Ebrei nei campi di concentramento nazisti. A questo proposito, le pratiche di protesta più drammaticamente visibili sono state studiate nel loro ruolo di richiamo sull’opinione pubblica sia come risultati di “positivo” shock morale (Jasper & Poulsen, 1995), sia come effetto controproducente (Mika, 2006; Cherry, 2010).

Un aspetto particolarmente studiato è poi quello riguardante il consumo alimentare degli animal advocates (Beardsworth, 2004; Beardsworth & Bryman, 2004), letto a volte nei termini di una precisa strategia volta a promuovere i diritti degli animali non-umani (Beardsworth & Keil, 1997; Ouédraogo, 2000; Cherry, 2006; Lee Wrenn, 2011), e alle volte in un’ottica maggiormente legata alle scelte etiche e agli stili di vita individuali degli attivisti (Crnic, 2013). Quest’ultimo tema, quello dell’attivismo do it yourself, è trattato da Munro (2005) mettendo a confronto le differenti strategie di advocacy: da una parte quegli attivisti che adottano strategie di convincimento face-to-face, dall'altra coloro che ritengono necessario un intervento sulle strutture sociali.

Un altro elemento spesso analizzato, e che verrà approfondito nel prossimo capitolo in riferimento alla letteratura sui movimenti sociali, è quello inerente le motivazioni alla base della scelta di essere parte di un gruppo piuttosto che di un altro (Einwohner, 2002a, 2002b): alcuni autori hanno evidenziato motivazioni maggiormente legate al network individuale (Maurer, 2002; Cherry, 2006, 2010), mentre altri hanno riscontrato un maggior peso della scelta emozionale e dell’interesse per la specifica issue (Herzog, 1993; Jasper & Poulsen, 1995; Groves, 2001; Herzog & Golden, 2009; Jacobsson & Lindblom, 2012, 2013).

Passando invece a lavori di stampo maggiormente quantitativo, e solitamente volti a riscontrare evidenze empiriche riferite alle caratteristiche socio-demografiche degli animal advocates, da più parti è stata riscontrata una maggioranza femminile all’interno di organizzazioni di animal advocacy (Plous, 1991; Jasper & Nelkin, 1992; Eldridge & Gluck, 1996; Herzog, 1993; Peek, Bell, & Dunham, 1996; Kruse, 1999; Munro, 2001; Gaarder, 2011a, 2011b). Il maggior interesse delle donne nei confronti del benessere e dei diritti degli animali sarebbe, per altro, una caratteristica anche della popolazione più generale (Gallup &

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Beckstead, 1988; Herzog, Betchart, & Pittman, 1991; Driscoll, 1992; Hills, 1993; Peek, Bell, & Dunham, 1996; Eldridge & Gluck, 1996; Kruse, 1999; Munro, 2001).51

Secondo diversi studi (Serpell, 2004; Bjerke & Kaltenborn, 1999), una maggior sensibilità e un maggior interesse associativo per gli animali non-umani sarebbero inoltre correlati alla residenza urbana e a un più alto livello di educazione scolastica. Tale dato è confermato anche da Diani (2000) per quanto riguarda gli ecologisti dell’area metropolitana milanese.

Per quanto concerne le credenze religiose, invece, emergono tendenze contradditorie: alcuni (Baratay, 1995; Frasch, 2000; Li, 2000) sottolineano come la credenza religiosa possa favorire un sentimento maggiormente caritatevole verso gli animali; altri invece (Bowd & Bowd, 1989; Snodgrass & Gates, 1998; Kruse, 1999) sottolineano una certa distanza fra il sentire antispecista e la posizione antropocentrica della religione cristiana, dominante in Occidente.

In ricerche comparate con la popolazione generale, gli animal advocates risultano inoltre più favorevoli dei non animalisti rispetto ai diritti di donne, omosessuali e afro-americani (Nibert, 1994), e più empatici ed ecumenici nelle scelte partecipative (Galvin & Herzog, 1994; Jasper & Poulsen, 1995) e legate al coinvolgimento morale (Mathews & Herzog, 1997; Jacobsson & Lindblom, 2012, 2013).

Un argomento già parzialmente incontrato nelle pagine precedenti è quello inerente la differente composizione interna dell’advocacy coalition, i divergenti presupposti etico-filosofici che caratterizzano le varie “anime”, e le diverse forme di azione (individuale e collettiva) che tale variegato panorama comporta (Plous, 1991; Galvin & Herzog, 1992; Jamison & Lunch, 1992; Shapiro, 1994). In tal senso, sono state proposte diverse tipologie con cui si è cercato di mettere ordine in tale galassia: un importante contributo è quello di Munro (2012) che distingue fra attivismo per l’animal welfare/liberation/rights, aggiungendo a queste tre categorie il radical animal liberation front basato su azioni violente non solo nei confronti delle cose ma anche verso le persone. Si segnalano inoltre la suddivisione di Jasper

51 Ciò si rivela in linea con importanti ricerche sulla partecipazione politica, dalle quali è emerso come le donne siano in maggioranza nella categoria dei “protestatari”, in quanto preferenti l’azione diretta rispetto a forme di partecipazione maggiormente convenzionali. Altre ricerche hanno evidenziato come gli uomini sarebbero più interessati alla politica istituzionale (Barnes, Kaase, Allerback, Farah, Heunks, Inglehart, Jennings, Klingemann, Marsh, & Rosenmayr 1979; Verba, Nie, & Kim, 1978; Diani, 1988). Al contrario, Munro (2001), analizzando i dati dell’Animal and Social Issues Survey (ASIS) in Australia, ha confermato la maggior presenza femminile nel movimento, ma senza evidenziare rilevanti differenze “qualitative” di genere.

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& Nelkin (1992) fra riformisti, pragmatisti e fondamentalisti, e quella di Francione (1996) fra old welfarism, new welfarism e animal rights, forse quella più vicina alla nostra.52 Altre tipologie sono invece state proposte in riferimento ai comportamenti e alle biografie degli attivisti: a tal proposito ricordiamo la tripartizione di Regan (2004) in davinciani, damasceni e temporeggiatori, e quella di Rowlands (2002) che parla di life style changes, spreading the word e civil disobedience.

Al di là delle singole proposte tassonomiche, ciò che più in generale si ravvisa è la presenza di due contrapposte visioni all’interno dell’animal advocacy riguardo la possibilità di utilizzare un approccio welfarista, o piuttosto strategie più radicali e di azione diretta: in quest’ottica la letteratura ha spesso abbandonato lo spirito analitico, adottando esplicite prese di posizione politica e partigiana. Diversi autori hanno criticato l’approccio riformista in quanto connivente con un sistema politico specista e basato su un approccio legato ad argomenti indiretti, spesso rivolti ad alleviare le sofferenze degli animali sulla base di un calcolo riguardante i benefici per gli esseri umani (Francione, 1996; Nibert, 2002; Best, 2014). Meno numerosi sono invece i contributi che rivendicano la bontà delle azioni welfariste sostenendo che queste avrebbero un maggior impatto sull’opinione pubblica (Garner, 1998, 2008; Munro, 2005). Le differenti pratiche e strategie d’azione politica corrispondono a veri e propri paradigmi di riferimento fra loro contrastanti: da una parte una radicale contestazione del neo-liberismo e del sistema capitalista tout court, dall’altra un approccio che, pur cercando di alleviare lo sfruttamento degli animali non-umani, non si qualifica come anti-sistemico.53

D’altra parte, se l’analisi dei gruppi grass-roots sembra oramai aver assunto una certa strutturazione (pur nella seminalità di un settore che, come detto, è ancora in fase emergente), il rapporto fra animal advocacy e public policy risulta ancora poco studiato, specie in contesti dove la natura frammentata del sistema politico potrebbe offrire interessanti spunti di riflessione (Garner, 1995). Alcuni autori welfaristi definiscono l’antispecismo come controproducente in quanto utopico (Sztybel, 2007); altri, al contrario, ritengono che sia il protezionismo a essere controproducente in quanto la politica degli small wins (Weick, 1984) non porterebbe lontano. Tale seconda posizione, in alcune sue declinazioni, ritiene che l’unico modo per raggiungere risultati effettivi sia l’abolizione totale dello sfruttamento tramite lo

52 Come già accennato, e come verrà dettaglitamente ripreso nel capitolo 4, nella presente ricerca abbiamo stratificato la popolazione in tre categorie: antispecismo, cura, protezionismo.

53 A tal proposito si vedano lo scontro/dialogo fra Francione & Garner (2010), e la proposta “intermedia” di Balluch (2006).

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sviluppo di una coscienza vegana, e che solo in seguito alla formazione di tale massa critica le azioni legislative potranno avere un senso pratico ed effettivo (Francione, 1996). Munro (2005, 2012), al contrario, sostiene che se dovessimo giudicare il successo dell’animal advocacy sulla base delle conversioni al vegetarismo, bisognerebbe ammetterne il fallimento; al contrario, egli auspica un’alleanza di protezionisti e antispecisti intorno al tema della salute di umani e non-umani, sottolineando l’importanza di dare informazioni ai consumatori sui rischi e danni personali e ambientali dei loro consumi, come già fatto da differenti autori in varie discipline: costi dei piccoli allevamenti (Dolan, 1986), salute (Fraser, Zawistowski, Horowitz, & Tukel, 1990), eventualità di un terzo conflitto mondiale dovuto alla fame nel mondo (Coats, 1989).

In questo paragrafo abbiamo ricordato alcuni dei principali studi inerenti il fenomeno degli animal advocates. Tuttavia, la letteratura di riferimento utilizzata ai fini della nostra ricerca sarà quella più generalmente riferita ai Social Movement Studies: nel prossimo capitolo, dunque, affronteremo una serie di questioni teoriche di carattere generale, anche rifacendoci a specifici esempi empirici non riferiti all’animal advocacy ma ad altre forme di movimentismo. Tale passaggio è centrale ai fini di un preciso inquadramento del nostro studio di caso all’interno della più generale letteratura di riferimento, e numerosi dei nodi toccati verranno poi ripresi nei capitoli 6, 7 e 8 in fase di analisi dei dati.

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3 MOVIMENTI SOCIALI: I PRINCIPALI

Nel documento ANIMALI  POLITICI. (pagine 34-40)