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Movimenti sociali: proposte definitorie

Nel documento ANIMALI  POLITICI. (pagine 66-72)

3   MOVIMENTI SOCIALI: I PRINCIPALI NODI TEMATICI

3.4   Movimenti sociali: proposte definitorie

Nelle pagine precedenti sono stati toccati un notevole numero di temi relativi a specifici aspetti caratterizzanti i movimenti sociali. Se è bene ribadire come la tripartizione identità/politica/reti sia funzionale a inquadrare le tre domande di ricerca che verranno presentate nel prossimo capitolo, è opportuno sottolineare come spesso nelle ricerche empiriche i temi finora affrontati convivano gli uni con gli altri e risultino spesso intersecati. In quanto segue, invece, ricorderemo alcune delle principali definizioni classiche di “movimento sociale” presenti in letteratura, al fine di abbozzare una parziale risposta

73 In anni recenti ha preso corpo un consistente filone di studi, quello della social network analysis (Snow, Zurcher, & Ekland-Olson, 1980; Wasserman & Faust, 1994; Chiesi, 1999; Diani & McAdam, 2003; Freeman, 2006; Knoke & Yang, 2008; Scott, 2013; Crossley, Bellotti, Edwards, Everett, Koskinen, & Tranmer, 2015), al quale tutttavia non facciamo specifico riferimento in questo elaborato. Tale decisione si deve alla natura del nostro fenomeno di interesse e alla volontà di concentrarci maggiormente sull’advocacy individuale (per quanto sempre inscritta in una dimensione di gruppo). D’altra parte, la dimensione di gruppo è stata approfondita tramite le interviste semi-strutturate (della Porta, 2010), e tale approfondimento ha giustificato a posteriori la nostra scelta di non focalizzare la nostra analisi sui networks, in quanto questi appaiono, nel nostro caso specifico, piuttosto volatili e poco strutturati, producendo così una coalizione decisamente frammentata e atomizzata. In termini più generali, si è tuttavia consapevoli che i movimenti sociali siano particolarmente adatti all’applicazione delle tecniche di social network analysis (Diani & McAdam, 2003), sotto differenti punti di vista.

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all’interrogativo che fa da sfondo al nostro lavoro, ossia: l’animal advocacy italiana costituisce un vero e proprio movimento sociale?

Come verrà precisato in modo dettagliato nelle conclusioni, tale domanda rappresenta soprattutto l’occasione per proporre una riflessione su cosa effettivamente sia oggigiorno un movimento sociale. Il fatto invece che il nostro oggetto di studio rientri o meno in precise definizioni (più o meno datate) non costituisce una questione primaria, quantomeno in termini pragmatici ma eventualmente soltanto in termini nominalistici: riteniamo, infatti, che il solo fatto di porre in discussione alcuni elementi dati per scontati nell’immaginario collettivo (in questo caso le gerarchie di specie e il ruolo degli animali non-umani nella struttura sociale) sia una ragione sufficiente per utilizzare la dizione “movimento sociale”. Quest’ultima, come molti concetti-chiave delle scienze sociali, rappresenta in certa misura un’astrazione, un idealtipo, una categoria naturalmente soggetta a mutamenti ed evoluzioni, ma al contempo resta tuttora uno strumento euristico efficace per riferirci a tutti quei soggetti collettivi che si pongono l’obiettivo di trasformare l’esistente, proponendo una visione alternativa e dinamica (in movimento appunto) della società, e manifestando la volontà di non accettare in modo passivo l’ordine costituito.

Nelle definizioni che ricorderemo, si vedrà, riemergono vari elementi già incontrati; ci soffermeremo in modo più dettagliato su quei temi che non hanno ancora ricevuto trattazione approfondita.

Dovendo scegliere un punto di partenza fra le numerose proposte presenti in letteratura, si può iniziare da un classico come Alain Touraine (1973), che in una delle sue opere principali, Production de la société, precisa come un movimento sociale necessiti della combinazione fra un principio di identità, un principio di opposizione, e un principio di totalità. È noto come per Touraine l’attore principale non sia più rappresentato da una specifica classe sociale in una determinata posizione all’interno dei rapporti di produzione, e come anzi il principale campo di conflitto sia rappresentato dalla dimensione culturale. Una posizione sostanzialmente simile è quella assunta da Alberto Melucci, che definisce il movimento sociale come “una forma di azione collettiva basata su una solidarietà, che esprime un conflitto, attraverso la rottura dei limiti di compatibilità del sistema di riferimento dell’azione” (Melucci, 1984, p. 423), interrogando così la società su chi decide i codici e stabilisce le regole. In anni più recenti un approccio di questo tipo è stato assunto da Manuel Castells, che definisce l’azione collettiva come qualcosa che “in victory as in defeat,

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transforms the values and institutions of society” (Castells, 1997, p. 3). Sono dunque stati soprattutto gli autori di riferimento del paradigma New Social Movements a insistere sull’aspetto culturale e ideologico nelle loro definizioni di movimento.

Sia concessa una breve parentesi sull’effettivo portato di novità che avrebbe caratterizzato questi movimenti, sorti in particolar modo a partire dagli anni Settanta del Novecento. Secondo Evers (1985, p. 49) tale novità sarebbe rappresentata dal fatto che “transformatory potential within new social movements is not political, but socio-cultural”; tuttavia diversi autori individuano forti tratti di continuità coi vecchi movimenti (Cohen, 1985; Eder, 1985; Crighton, & Mason, 1986). Nei new social movements (NSMs) diventa centrale il ruolo dell’autoriflessività (Melucci, 1984), oltre al crepuscolo delle analisi marxiste e alla svolta post-industriale: ciò ha spesso condotto a strategie indirizzate a rimanere al di fuori della politica istituzionale, come puntualizza Pichardo (1997, p. 415) ricordando che “the belief in the unrepresentative character of modern democracies is consistent with its anti-institutional tactical orientation”. Tuttavia, questo è vero solo in parte e anzi “NSMs manifest a form of middle-class protest which oscillates from moral crusade to political pressure group to social movement” (Eder, 1985, p. 881). Al di là dell’inclusione o meno nei processi politici istituzionali, ciò che ha caratterizzato (e caratterizza) i NSMs sarebbe la loro volontà di resistere alla colonizzazione del mondo vitale (Habermas, 1981), rappresentando con il loro operato una “self-defense of society against the state…and the market economy” (Cohen, 1985, p. 664). Se da una parte Diani (2009) ha proposto una ragionata difesa della natura “nuovista” di tali movimenti, mentre dall’altra Tarrow (1994) si è pronunciato in modo fortemente critico al riguardo, è lo stesso Melucci, certamente uno dei maggiori rappresentanti di tale filone, ad avere in parte rinnegato tale dibattito ritenendolo sostanzialmente futile.74 Al netto delle differenti posizioni accennate, quelli cui ci si riferisce correntemente come “nuovi movimenti sociali” avrebbero caratterizzato gli anni Sessanta e Settanta, per poi essere in buona parte riassorbiti negli anni Ottanta dalla politica più istituzionale, e riemergere negli anni Novanta con caratteristiche tuttavia ancora differenti, in modo particolare legate alle crescenti difficoltà dei partiti di rappresentare le istanze della società civile. Tale carattere ulteriormente innovativo ha portato alla definizione degli stessi come “nuovi-nuovi movimenti” (della Porta & Andretta 2001, p. 41).

74 Se alcune critiche puntano solo a ridimensionare l’approccio dei NSMs (Tarrow, 1994), altre invece (Jordan & Maloney, 1997) invitano a un suo totale abbandono.

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L’aspetto culturale e ideologico risulta al centro anche di altri “classici”, come ad esempio il fondamentale Social movements. A cognitive approach di Eyerman & Jamison (1991), secondo cui i movimenti sociali rappresenterebbero “territori cognitivi”, in modo particolare atti alla creazione, articolazione e formulazione di nuovi pensieri e prospettive. Ciò li renderebbe la fucina delle idee future, veri e propri profeti (Melucci, 1996) o ancora knowledge producers (Casas-Cortés, Powell, & Osterweil, 2008), in grado di proporre discorsi alternativi e pratiche di (r)esistenza. Se dunque anche Eyerman e Jamison insistono sulla dimensione più prettamente culturale dei movimenti, essi inseriscono tale definizione in un più ampio contesto legato alla reticolarità delle organizzazioni e dei gruppi, precisando come sia soltanto “through tensions between different organizations over defining and acting in that conceptual space, that the (temporary) identity of a social movement is formed” (Eyerman & Jamison 1991, p. 55).

L’aspetto organizzativo è, come noto, al centro del lavoro di McCarthy & Zald: abbiamo già ricordato la loro importante definizione di social movement organization come una “complex, or formal, organization which identifies its goals with the preferences of a social movement or countermovement and attempts to implement those goals” (McCarthy & Zald 1977, p. 1218). Si aggiunge ora che l’insieme di tali organizzazioni costituisce quella realtà politica che è il movimento sociale e la cui cifra risiede per i due autori statunitensi nella condivisione di un certo numero di opinioni e credenze da parte di una popolazione che intende modificare alcuni elementi della struttura sociale. Sulla stessa linea si collocano anche Goodwin & Jasper, per i quali un movimento sociale si configura come una “collective, organized, sustained, and noninstitutional challenge to authorities, powerholders, or cultural beliefs and practices” (2003, p. 259). Si è già detto, inoltre, come l’aspetto organizzativo reticolare non possa limitarsi agli attori centrali o più visibili, ma debba contemplare anche realtà più fluide, alla luce del fatto che i movimenti sarebbero “reti informali fra attori (organizzazioni, gruppi e individui), impegnati in conflitti per il controllo di poste materiali o simboliche, sulla base di identità condivise...una forma particolare di organizzazione di rete” (Diani, 2003a, p. 122). Alcuni studiosi (cfr. Saunders, 2007) hanno in parte criticato quest’ultima definizione di Diani, con l’obiettivo di migliorarne l’approccio relazionale, sostenendo che sarebbe necessario essere più precisi nel definire il tipo e l’intensità dei network, e precisando che un movimento per definirsi tale debba anche condividere un certo numero di azioni, oltre alle overlapping memberships dei suoi membri.

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Come si sarà notato, in tutte le definizioni finora ricordate, al netto della maggior insistenza posta sulla dimensione politica piuttosto che su quella culturale, oppure sulla maggior rilevanza assunta dalla dimensione organizzativa rispetto a quella individuale, un tema onnipresente sembra essere l’identità collettiva, conditio sine qua non perché si possa parlare a tutti gli effetti di movimento sociale. Tale argomento è stato già abbondantemente trattato nelle pagine precedenti. Si ritiene tuttavia opportuno ricordare una definizione riassuntiva di “identità collettiva” che ci pare condivisibile, nonostante già piuttosto datata: secondo tale definizione, l’identità collettiva consisterebbe in “an interactive and shared definition produced by several interacting individuals who are concerned with the orientation of their action as well as the field of opportunities and constraints in which their action takes place” (Melucci, 1996, p. 70). È, d’altra parte, evidente come sempre di più in tempi recenti i movimenti sociali siano caratterizzati da multitudinous identities (Monterde, Calleja-López, Aguilera, Barandiaran, & Postill, 2015), sia a causa della centralità assunta dalla personalizzazione della protesta (Micheletti, 2003; Micheletti & McFarland, 2010; Bennett & Segerberg, 2011, 2013), sia soprattutto per la dinamica relazionale e complessa che caratterizza i vari strategic action fields (Fligstein & McAdam, 2012). L’importanza della negoziazione fra diversi “campi”, aspetto su cui torneremo in conclusione del capitolo, risulta centrale per la definizione dell’identità collettiva. Altro elemento imprescindibile è costituito dalla durata nel tempo e dalla volontà di impegnarsi in sfide che mirino a un cambiamento della società. Se queste caratteristiche non esistono, è probabile che l’azione collettiva “degeneri” in settarismo (Peterson, 2007) o in impegno individuale, dando vita a forme di “resistenza” (Scott, 1986), o al più, specie in anni recenti, a pratiche di direct actions (Mc Donald, 2002) sviluppatesi negli anni Novanta e consistenti nell’unione di piccoli gruppi (denominati “gruppi di affinità”) con la volontà di raggiungere un obiettivo comune di breve durata. Esse, al contrario dei movimenti più “classici”, sono dunque caratterizzate dalla contingenza temporale e dalla loro natura di campagne single-issue, nelle quali la partecipazione “non è dettata da schemi rigidi e formali, e perciò consente ad ognuno di definire ruoli flessibili ed intensità della partecipazione” (Bertuzzi & Borghi 2015a, p. 162).

A completamento del succinto quadro definitorio che stiamo fornendo, dopo aver preso in rassegna, seppur in maniera non sistematica, autori di riferimento della Resource Mobilization Theory (RMT) e dei New Social Movements (NSM), ci spostiamo infine sulla proposta che insiste maggiormente sulle opportunità politiche (Eisinger, 1973; Tarrow, 1989). Tale

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tradizione, e la concezione di movimento sociale che essa veicola, si distanzia dalle precedenti per un punto centrale: l’insistenza non è più sulla dimensione interna (che fosse legata ai meccanismi organizzativi come nel RMT, oppure alla formulazione di differenti frames come nel caso della tradizione NSM), quanto piuttosto sulle condizioni esterne di possibilità sulle quali si va a inserire l’azione e la proposta di un movimento. In tal senso, McAdam (1996) individua quattro principali variabili che spiegano la possibile emersione e il possibile successo di un movimento sociale: l’apertura del sistema politico nei confronti delle sue istanze, la stabilità dei rapporti fra élites che caratterizzano tale sistema, la presenza di buone alleanze con le élites stesse, e la propensione e capacità dello Stato di intervenire in termini repressivi. Se tutti questi punti sono stati già analiticamente discussi nel presente capitolo, veniamo ora ad alcune definizioni classiche di movimento proposte all’interno dell’approccio Political Opportunity Structures (POS). Come noto, l’autore di riferimento è Sidney Tarrow, il quale, distinguendo fra gruppi di pressione, partiti politici e movimenti sociali in senso proprio, definisce questi ultimi come “collective challenges by people with common purposes and solidarity in sustained interaction with elites, opponents and authorities” (1994, p. 5). Tuttavia, lo stesso Tarrow è consapevole di come un’eccessiva (ed esclusiva) insistenza sugli aspetti contestuali rischi di oscurare le motivazioni della protesta alla luce del fatto che “the ‘when’ of social movement mobilization – when political opportunities are opening up – goes a long way towards explaining its ‘why’”. (Tarrow, 1994, p. 17). L’approccio POS, inoltre, si presta anche a letture socio-costruttiviste (Castells, 1997) riferite alla natura dei movimenti e alla loro capacità di definire i propri obiettivi e le proprie proposte sulla base dei referenti offerti dalla contingenza spazio-temporale in cui vengono in essere. In questo senso, come abbiamo già precisato in relazione al concetto di frame, si nota una forte interazione fra differenti approcci e anche una certa convergenza in alcune proposte definitorie.

Ribadendo dunque la nostra convinzione, già espressa in modo più o meno latente nelle pagine precedenti, secondo cui risulta spesso retorico quando non decisamente inutile dilungarsi in discussioni eccessive su quale paradigma sia più efficace nella spiegazione dei movimenti sociali, preme evidenziare alcuni punti comuni fra le varie definizioni proposte. Sembra riscontrabile una costante presenza degli elementi legati ai seguenti quattro aspetti: identità collettiva, azioni comuni, reticoli informali, durata nel tempo. Nella nostra analisi, e in modo particolare nelle conclusioni, cercheremo di valutare se l’animal advocacy italiana

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rispetti tali criteri. Posta dunque la validità del termine “movimento sociale” per riferirsi a soggetti collettivi che pongono sfide alla società civile e richiedono un radicale cambiamento degli assetti esistenti, valuteremo se e come l’animal advocacy italiana risponda a tali quattro caratteristiche o se, come verrà meglio dettagliato nelle ipotesi di ricerca elencate nel prossimo capitolo, non sia meglio nel nostro caso parlare di sub-movimenti (Saunders, 2007; Jordan & Maloney, 1997) e non di un fenomeno unico e unitario.

Nel documento ANIMALI  POLITICI. (pagine 66-72)