3 MOVIMENTI SOCIALI: I PRINCIPALI NODI TEMATICI
3.1 Identità e frames
3.1.1 Identità collettiva e personalizzazione della protesta
È noto come siano stati soprattutto gli autori di riferimento del paradigma dei “nuovi movimenti sociali” a mettere al centro dell’analisi l’individuo (Touraine, 1984; Melucci, 1984) e la dimensione identitaria nello studio delle advocacy coalitions. Tali contributi hanno evidenziato come l’identità sia un processo in continua costruzione e non piuttosto un elemento stabile e immutabile (Sciolla, 2000), distinguendo fra concezioni riduzionistiche e non-riduzionistiche del concetto di identità (Parfit, 1984). Anche nello studio dei movimenti, l’identità andrebbe dunque analizzata in quanto socialmente costruita e collocata, nella consapevolezza che le due dimensioni (quella identitaria e quella contestuale) sono strettamente intrecciate: come sottolineato da Sciolla (2000, p. 8), ogni individuo ha una specifica identità personale “non benchè sia condizionato dall’ambiente e dalle circostanze sociali di cui fa parte, ma perché lo è”.
Parecchi contributi si sono concentrati e tuttora si concentrano sull’identità collettiva, chiedendosi se esista nei movimenti contemporanei un “noi essenziale” (Remotti, 2010). In riferimento a tale aspetto, è stata da tempo sottolineata l’importanza del rapporto con l’ambiente esterno e la continua rinegoziazione nei suoi confronti, che porta alla costruzione e al successivo utilizzo di specifici “codici” (Melucci, 1984), e a una costante ridiscussione riguardo a chi appartiene al “noi” e chi appartiene al “loro” (Melucci, 1984; Gamson, 1992). Per quanto concerne la maggior parte dei movimenti sociali contemporanei risulta, tuttavia, sempre più difficile aggregare differenti soggettività intorno a un più generale schema identitario collettivo: le appartenenze, in molti casi, non sono più totali, dando vita ad aree e gruppi di “io senza Noi” (Elias, 1987). Si badi bene, d’altra parte, come questo discorso valga non soltanto per i movimenti sociali, quanto più in generale per l’appartenenza a ogni cerchia sociale, quantomeno nelle società occidentali a capitalismo avanzato, dove gli individui hanno acquisito la “libertà di convertirsi, ossia di passare da una credenza religiosa (o politica) a un’altra senza essere accusati di apostasia” (Sciolla, 2003).55
In un tale contesto più generale in cui la frammentazione delle appartenenze e la progressiva scomparsa di riconoscimenti identitari forti provoca la tendenza a non volersi
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impegnare in azioni e scelte stabili, la formazione e il mantenimento di un’identità collettiva, legata alla fiducia nei confronti degli altri membri, assume centrale importanza (Diani, 1988). Ciò porta alla formazione di una “comunità allargata” (della Porta & Diani, 1997, p. 106) che non necessita la conoscenza diretta di tutti i membri, utilizzando invece reti interpersonali (come verrà meglio specificato nel terzo paragrafo di questo capitolo), e sostituendo le classiche dinamiche tipiche delle organizzazioni di movimento con una nuova logica dell’azione di tipo connettivo (Bennet & Segerberg, 2011, 2012).
Se è necessaria una divisione del mondo fra “noi” e “loro”, altrettanto importante è il riconoscimento dell’identità di movimento da parte del resto della società (Tilly, 1978; Melucci, 1982; Diani, 1988): in assenza di tale riconoscimento anche da parte di nemici e più in generale del mondo esterno, l’identità collettiva assume unicamente una dimensione autoreferenziale (Calhoun, 1994). Tale processo di legittimazione/delegittimazione avviene principalmente intorno al nodo naturalità/arbitrarietà con cui abbiamo aperto il capitolo: da una parte la legittimazione delle aspirazioni viene spesso rivendicata dai movimenti in base all’autenticità della loro battaglia, dall’altra i loro oppositori li stigmatizzano su basi analoghe, dipingendo i movimenti come “contro natura” (Diani, 1988).
Un interessante contributo riguardante l’identità collettiva delle aree di movimento è quello proposto in tempi recenti dai teorici della cosiddetta “nuova politica”: secondo tale approccio, la crescente complessità sociale non costituirebbe un ostacolo alla formazione di identità collettive, bensì le renderebbe plurali e pertanto non sussumibili in una singola identità politica. Dunque, i movimenti tenderebbero ad assumere “dimensione espressiva e identitaria, prima ancora che strumentale” (Alteri & Raffini 2014, p. 6), creando “reti di soggettività” nelle quali l’attore principale non sarebbe più rappresentato da un “noi”, ma da “un insieme di tanti io, nessuno dei quali deve recedere dal proprio sistema valoriale” (Alteri, 2014, p. 155). In tal modo, l'aspetto culturale e quello politico delle aree di movimento sarebbero strettamente connessi (Reed & Foran, 2002; Chabot & Vinthagen, 2007; Cherry, 2010), ed esse, ancor prima di proporre modelli sociali e politici, sarebbero promotrici di “pratiche e scenari alternativi” (Alteri & Raffini, 2014, p. 7), comportando lo slittamento da una richiesta di diritti sociali a quelli che Touraine (2004) ha definito “diritti culturali”.56
56 Pare corretta, in questo senso, la sintesi proposta da Kauffman (1990) introducendo il concetto di identity
politics: l’autore invita a considerare l’identità individuale, la sua elaborazione, espressione e affermazione,
come un “fundamental focus of political work” (Kauffman, 1990, p. 67), che si esprime tramite specifici culture
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Anche in questo senso si sono sviluppate e continuano a svilupparsi varie esperienze di consumerismo politico e forme di economia alternativa (Tosi, 2006a; Rucht, 2007; Pleyers, 2011a; Forno, 2014). Queste pratiche vanno lette come esperienze di “azione collettiva individualizzata” (Micheletti & McFarland, 2010), seguendo le quali la partecipazione politica dovrebbe essere interpretata come forma di coinvolgimento individuale sempre meno rivolta agli attori politici tradizionali, e sempre più propensa a ridiscutere i confini fra pubblico e privato (Formenti, 2009; Raffini, 2014). Dopo un iniziale periodo in cui tali pratiche erano adottate esclusivamente, o quantomeno principalmente, da attori “riflessivi” appartenenti alla classe media (Ginsborg, 2004), sarebbero state in seguito recepite anche dagli attivisti di movimento, diventando nel medesimo tempo “strumenti per ridisegnare la quotidianità, prove per una strategia di partecipazione-resistenza-liberazione, forme al contempo di resilienza e di resistenza” (Forno, 2014, p. 90).
Il fenomeno legato alla personalizzazione della protesta è stato indagato da diversi autori (Giddens, 1991; Inglehart, 1977; McDonald, 2002; Micheletti, 2003; Bennett & Segerberg, 2011), e consiste spesso nella tendenza “to engage with multiple causes by filtering those causes through individual lifestyles” (Bennett & Segerberg, 2011, p. 771). Se già McDonald (2002) sottolineava la necessità di superare la dimensione strettamente politica dei movimenti sociali contemporanei per concentrarsi invece sulla partecipazione personale come capacità di resistere ai processi di de-individualizzazione (Touraine, 2000) tramite percorsi riflessivi e auto-narrativi (Dubar, 2000), in un importante lavoro riguardante il cosiddetto movimento alterglobalista Geoffrey Pleyers (2011b) sottolinea le tensioni fra tradizioni organizzative e razionalità strumentale da una parte, e il crescente fenomeno dell’individualizzazione dall’altra, tensioni che avrebbero dato vita a due differenti “paths for social agency in the global age” (Pleyers, 2011b, p. 258), dei quali “one focuses on subjectivity and creativity, the other on reason and rationality” (Pleyers, 2011b, p. 12).
Al termine di questa carrellata di riferimenti relativi all’identità collettiva e al suo intereccio con la crescente personalizzazione della partecipazione politica (e di movimento nello specifico), va infine ricordato come alcuni autori ritengano obsoleto il termine “identità collettiva” e propongano espressioni alternative come “identità di movimento” (Diani, 2003a) azione è stato interpretato principalmente in due modi: o basandosi sulle ipotesi di Inglehart (1977) e dunque valutando il passaggio alle azioni sulla base di valori specifici appartenenti all’individuo, oppure vedendo nella cultura una “prassi cognitiva” (Eyerman & Jamison, 1991) e dunque insistendo sul fatto che l’azione venga facilitata dal trasferimento degli schemi cognitivi dei gruppi (o dei leaders) a quelli dei membri individuali.
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e “identità comune” (Daher, 2012). Il concetto di “identità collettiva”, sul quale torneremo anche nel paragrafo 3.4. dedicato alle definizioni di “movimento sociale”, è stato criticato in quanto eccessivamente focalizzato su una dimensione statica e ipostatizzante, quando invece dovrebbe costituire la negoziazione fra immagini proposte da diversi attori e diversi gruppi (Melucci, 1984). Concepito in tal maniera, riteniamo che esso mantenga tuttora una sua validità, e che possa essere applicato, seppur in modo critico, anche alle forme di contestazione e mobilitazione contemporanee.
Da quanto detto finora emerge con chiarezza come uno dei problemi centrali nel discorso identitario, specie in riferimento ai cosiddetti “nuovi movimenti sociali”, sia quello del rapporto fra identità collettiva e identità individuale. A tal proposito, il concetto di frame si è rivelato centrale nello studio dei movimenti sociali: al netto delle suddivisioni manualistiche, quello di frame pare infatti essere uno strumento euristico fondamentale per analizzare il nesso fra la dimensione individuale e quella collettiva delle rivendicazioni movimentiste, permettendo di cogliere come gli individui utilizzino i movimenti sociali al fine di fornire risposte alle domande di senso che caratterizzano le singole biografie.