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CAPITOLO TERZO L’ITALIA

2. Le politiche nazionali e i diritti civil

2.1 Il diritto al lavoro

Volendo partire dall’ampio diritto al lavoro, la Costituzione italiana esplicitamente lo ricollega al possesso della cittadinanza, affermando – all’art. 4 – che: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”580. Quest’ultimo non è dunque declinato in chiave universale, non potendosi parlare di un vero e proprio diritto umano fondamentale. Ciò non toglie, tuttavia, che anche agli stranieri – in virtù dei principi di cui agli artt. 3 e 10 della Costituzione – debba essere riconosciuto il rispetto della

dignità umana, di cui il lavoro è strumento di piena realizzazione581, qualora ammessi

all’esercizio di attività lavorativa da svolgersi in conformità con il valore cardine della uguaglianza.

Ad ogni modo, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, il legislatore ha dimostrato aver acquisito una nuova sensibilità sul tema, andando a regolare puntualmente il lavoro dello straniero in Italia. E’ opportuno sottolineare come la legge n. 943/1986 (cosiddetta legge

Foschi582) non andasse a riconoscere il diritto al lavoro del non-cittadino quanto a sancire una

piena parità di trattamento e l’uguaglianza in punto di diritti tra i lavoratori italiani e non583,

579 Ivi, pp. 46-47.

580 Oltretutto, l’art. 35 co. IV della Costituzione (“Riconosce la libertà` di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla

legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero”) si limita a riconoscere il diritto alla emigrazione dei

cittadini italiani per fini lavorativi, nulla prevedendo in punto di immigrazione degli stranieri in Italia per i medesimi scopi. Gli articoli seguenti, nn.36-37 della Costituzione, si riferiscono poi genericamente ai lavoratore, potendo dunque trovare applicazione indipendentemente dallo status civitatis del lavoratore stesso.

581 Lucia TRIA, Il diritto al lavoro degli stranieri nella giurisprudenza delle Corti supreme nazionali ed europee (Corti

di Strasburgo e Lussemburgo), Relazione tenuta al Seminario di studio su “I diritti dell’immigrato: profili normativi e

giurisprudenziali” svoltosi l’11 novembre 2013 in Roma nella sala Europa della Corte d’appello, su iniziativa della Scuola superiore della Magistratura - Struttura didattica territoriale di Roma, p. 16.

582 Legge 30 dicembre 1986, n. 943 recante “Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori

extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine”.

583 L’Italia già nel 1981 aveva peraltro ratificato - con legge del 10 aprile 1981, n. 158 - la Convenzione Organizzazione

Internazionale del Lavoro (OIL) n. 143 del 24 giugno 1975, sulle migrazioni in condizioni abusive e sulla promozione

della parità di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti. Del resto, più recentemente, anche la Carta dei Diritti

Fondamentali dell’unione Europea (2000/C 364/01) all’art. 15 co. III si limita a riconoscere che: “I cittadini dei paesi

terzi che sono autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri hanno diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell’Unione”, tale per cui allo straniero non viene accordato il diritto al lavoro in sé quanto

piuttosto il diritto ad un equo trattamento qualora ammesso all’esercizio di attività lavorativa all’interno del territorio dell’Unione.

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garantendo i diritti relativi all'uso dei servizi sociali e sanitari, al mantenimento dell'identità culturale, alla scuola e alla disponibilità dell'abitazione (art.1)584. Un riconoscimento in tal senso

si ebbe comunque a distanza di poco tempo, ossia con l’entrata in vigore della cosiddetta Legge Martelli (n. 39/1990) che permise per la prima volta l’accesso agli stranieri al mercato del lavoro

liberamente e in condizioni di parità rispetto ai cittadini italiani585.

In seguito, la materia venne nuovamente riformata con l’approvazione del testo unico sull’immigrazione, il quale – fermo restando la regolamentazione dei flussi di ingresso e la previsione delle autorizzazioni amministrative previgenti – introduceva la possibilità per lo

straniero di svolgere lavoro autonomo586 nonché quella di varcare le frontiere nazionali anche al

fine di cercare un’occupazione lavorativa, previa però prestazione di un’apposita garanzia da parte di soggetti terzi cosiddetti sponsor. La norma è stata poi completata dalla entrata in vigore del D.P.R. n. 394/1999 recante le norme di attuazione del testo unico, dalla lettura del combinato disposto delle quali emerge come allo straniero sia stata accordata una parità di trattamento – rispetto al cittadino italiano – nella tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, nei

rapporti con la pubblica amministrazione e nell’accesso ai pubblici servizi587. A ben vedere, però,

il T.U. reca già in sé le prime embrionali disposizioni ispirate ad una maggiore regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno sul territorio statale, per cui il pieno godimento dei diritti spetta solamente a coloro che vivono in condizione di regolarità ed in possesso di determinati requisiti

all’interno dello Stato588. Nello specifico, infatti, l’art. 5 bis del T.U. prevede uno strumento

particolare che prende il nome di “contratto di soggiorno589” volto a regolamentare il rapporto

esistente tra lo straniero ed il datore di lavoro, a seguito di nulla osta emesso dallo Sportello Unico per l’immigrazione. Prescindo qui dalla dibattuta natura giuridica di tale contratto, ciò che è stata più volte contestata è la conformità costituzionale stessa dell’istituto, a parere di alcuni in

584 Differentemente regolato era difatti l’accesso al mondo del lavoro posto che – ai sensi della Circolare del Ministero

del Lavoro e della Previdenza Sociale n. 51/22/IV del 4 dicembre 1963 – era prevista la necessità per lo straniero di ottenere una “autorizzazione al lavoro” consistente in un permesso amministrativo a poter esercitare una determinata attività lavorativa, emesso dall’Ufficio del lavoro su richiesta del datore di lavoro intenzionato ad assumere lo straniero. Solo una volta ottenuta tale concessione, il datore di lavoro avrebbe potuto richiedere alla Questura di competenza un nulla osta all’ingresso del lavoratore nel territorio italiano per motivi di lavoro. Per un approfondimento, William CHIAROMONTE, op. cit., pp. 100 e ss.

585Maurizio AMBROSINI, Irregular Immigration in Southern Europe. Actors, Dynamics and Governance, Palgrave

Macmillan, 2018, p. 79.

586 L’art. 26 T.U. pone comunque una condizione restrittiva posto che: “L'ingresso in Italia dei lavoratori stranieri non

appartenenti all'Unione europea che intendono esercitare nel territorio dello Stato un’attività non occasionale di lavoro autonomo può essere consentito a condizione che l'esercizio di tali attività non sia riservato dalla legge ai cittadini italiani, o a cittadini di uno degli Stati membri dell'Unione Europea”.

587 Armando MACRILLO’ (a cura di), Il diritto degli stranieri, CEDAM, 2014, p. 263. 588 Pierluigi CONSORTI, Tutela dei diritti dei migranti, Plus, 2009, p.28.

589 Il quale deve contenere oobligatoriamente la garanzia da parte del datore di lavoro della disponibilità di un alloggio

adeguato per il lavoratore e l’impegno, da parte del primo, a pagare le spese di viaggio per il rientro dello straniero nel suo Paese di origine.

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contrasto con gli artt. 35-40 della Costituzione che non prevedono differenze tra lavoratori per

quanto attiene la loro cittadinanza590.

L’impianto disegnato dal T.U., ed improntato da uno spirito di integrazione e di programmazione degli ingressi per motivi di lavoro, venne poi significativamente intaccato dalla

legge “Bossi-Fini” del 2002591, rendendo maggiormente gravoso e complesso - dal punto di vista

dell’iter amministrativo da seguire – l’accesso al lavoro dello straniero, in un’ottica di maggiore controllo del territorio.

Ció chiarito, una prima problematica parrebbe porsi in relazione all’accesso alla funzione pubblica, alla luce del dettato costituzionale di cui agli artt. 51, 54 e 98 che fanno espressamente riferimento sia al cittadino/a che alla Nazione. Nonostante alcune normative di fine Novecento (dalla legge Martelli del 1990 alla Bossi-Fini del 2002) abbiano sporadicamente aperto all’assunzione di non-cittadini per supplire a carenze di personale in settori pubblici specifici, non può sottacersi la permanenza in vigore dell’art. 27 del T.U. che espressamente fa salve quelle disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività lavorative. Ebbene, sulla stessa scia pare assestarsi anche l’opinione maggioritaria della giursprudenza che in più occasioni ha avuto modo di ribadire come l’esclusione del non-cittadino dalla funzione pubblica non costituisca una discriminazione, non

essendo altresì ravvisabile alcuna violazione della normativa costituzionale592. Preme comunque

sottolinearsi come parte della dottrina ritenga invero oramai superato e da superarsi tale criterio della cittadinanza, soprattutto in virtù del mutato contesto storico-politico attuale che dovrebbe maggiormente valorizzare la cittadinanza amministrativa basata sulla residenza nel rapporto tra

individuo e apparato statale593.

Caso che merita di essere in proposito menzionato è sicuramente quello originato a seguito dell’entrata in vigore della “Riforma Franceschini” del 2014 (D.L. n. 84/2014 poi convertito in L. n.106/2014). La stessa aveva difatti previsto l’apertura ai non-cittadini italiani alla selezione e dunque all’accesso a posizioni dirigenziali all’interno della pubblica amministrazione, nello specifico all’incarico di direttore di museo. Il relativo bando era stato per tale motivo sottoposto all’attenzione del TAR Lazio il quale con tre sentenze gemelle (nn. 6171/2017, 6719/2017 e 6170/2017) aveva accolto tali ricorsi, annullando il bando di gara e le eventuali procedure

590 Livio NERI, “Il lavoro”, in Paolo MOROZZO DELLA ROCCA (a cura di), op. cit., pp.208-209. 591 Legge del 30 luglio 2002, n. 189, "Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo". 592 Ex multis, Corte di Cassazione, sent. n. 18523 del 2 settembre 2014.

593 Matteo GNES, “L’accesso al lavoro nella pubblica amministrazione”, in Paolo MOROZZO DELLA ROCCA (a cura

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concorsuali già avviate, ritenendo la violazione della normativa sul pubblico impiego594 e la

necessità del requisito della cittadinanza italiana. Tali pronunce sono state poi riformate dal

Consiglio di Stato595, in virtù dei compiti di mera gestione tecnico-economica posti in capo ai

profili dirigenziali banditi. Gli stessi giudici di Palazzo Spada decisero comunque di sottoporre all’attenzione dell’Adunanza Plenaria un quesito che non erano riusciti a sciogliere, ovvero se dovesse ritenersi possibile o meno per un cittadino straniero (specificatamente dell’Unione

Europea) prendere parte alla selezione per il conferimento di incarichi di direttore museale596,

considerata la vigenza e ritenuta supremazia del principi costituzionali di cui agli artt. 56 e 57 che esplicitamente limitano tale chance ai soli cittadini italiani. Con sentenza resa nel giugno

seguente597, l’Adunanza Plenaria ha chiarito l’arcano dilemma, propendendo per una

disapplicazione della normativa domestica qualora in contrasto con quella sovranazionale598,

aprendo così alla partecipazione dello straniero (europeo) alla selezioni per suddette posizioni dirigenziali. La vicenda mostra dunque chiaramente il peso ancora rivestito dallo status civitatis nei procedimento concorsuali e nelle selezioni attinenti la pubblica amministrazione, in virtù di antichi sentimenti di affiliazione individuo-patria garanti di un più alto grado di fedeltà allo Stato.

Ulteriore questione particolarmente spinosa – questa volta in punto di multiculturalismo- che si è posta in relazione alla tematica qui in parola, è sicuramente quella del riposo settimanale in coincidenza con il giorno festivo stabilito in base ai precetti religiosi. La materia risulta invero

ancora ad oggi regolata dalla legge n. 260/1949599 la quale – all’art.2 – elenca i giorni da

considerarsi religiosi, poiché aventi rilevanza per la fede cristiano-cattolica; lista che si apre con

la previsione delle festività in tutte le domeniche600. Ebbene, il contenuto di tale disposizione

594 Nello specifico, i giudici amministrativi avevano ritenuto la violazione disposto dell’art. 38 del D. Lgs. n. 165/2001

(TU sul pubblico impiego) e dell’art. 1, lett. a), del DPCM 174/1994 e richiamato l’art. 45, par. 4 TFUE nella parte in cui deroga al principio di libera circolazione dei lavoratori qualora si tratti di impieghi inquadrati all’interno della pubblica amministrazione.

595 Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 3666/2017 del 24 luglio 2017.

596 Consiglio di Stato, sez. VI, sent. n. 677/2018 del 2 febbraio 2018. Per un commento alla sentenza si rimanda ad Amedeo

ARENA, “Status civitatis ed accesso alla dirigenza pubblica: alcune considerazioni in vista della pronuncia dell’Adunanza plenaria sui direttori dei musei”, in Eurojus.it rivista, pubblicato online il 12 febbraio 2018.

597 Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 9/2018 del 25 giugno 2018.

598 “[…] L’articolo 1, comma 1 del d.P.C.M. 174 del 1994 e l’articolo 2, comma 1 del d.P.R. 487 del 1994, laddove

impediscono in assoluto ai cittadini di altri Stati membri dell’UE di assumere i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato e laddove non consentono una verifica in concreto circa la sussistenza o meno del prevalente esercizio di funzioni autoritative in relazione alla singola posizione dirigenziale, risultano in contrasto con il paragrafo 2 dell’articolo 45 del TFUE e non possono trovare conseguentemente applicazione”.

599 L. 27 maggio 1949, n. 260, recante “Disposizioni in materia di ricorrenze festive”.

600 Invero, già l'art. 11 del Concordato del 1929 prevedeva quali giorni festivi tutte le domeniche, completate da un elenco

di feste cattoliche espressamente indicate. Altresì l'art. 6 dell'Accordo di Villa Madama del 1984 confermava la regola generale per cui erano da considerarsi festività le domeniche e contemporaneamente lasciava spazio alla negoziazione tra le due parti – tramite apposite intese – al fine di determinare formalmente ulteriori giorni festivi, di cui la prima venne siglata il 23 dicembre 1985. Il testo delle intese è stato poi recepito all’interno dell’ordinamento italiano mediante la sua trasposizione all’interno di Decreti del Presidente della Repubblica.

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pare scontrarsi con le necessità della società contemporanea fattasi multiculturale e dunque

portatrice di istanze religiose differenti601 per cui i lavoratori hanno coscienze e credi disparati,

che possono imporre loro il riposo in giorni che non corrispondono necessariamente con la domenica.

La problematica è stata risolta solitamente attraverso la contrattazione collettiva602 nonché per

il tramite della stipulazione di apposite intese con le confessioni religiose – o meglio con i suoi rappresentati – ai sensi del dettato costituzionale, nello specifico dell’art. 8 co. III Cost. Ne sono

un esempio le intese stipulate sia con il culto ebraico che con quello avventista603. In entrambe è

stato riconosciuto ai fedeli di tali religioni il diritto di godere, su loro espressa e personale richiesta, del riposo settimanale nel giorno di sabato, salvo poi dover recuperare le ore lavorative o la domenica o in altro giorno della settimana, indipendentemente dalla condizione lavorativo- contrattuale del fedele ma tenuto conto della flessibilità organizzativa del lavoro e della sua

qualificazione o meno come servizio essenziale imprescindibile604.

La stessa giurisprudenza è intervenuta sul punto confermando l’apertura pluralista dell’ordinamento italiano in punto di libertà religiosa, anche alla luce dell’art. 19 della Costituzione la cui lettera prescinde da ogni riferimento alla condizione di cittadinanza del fedele. Ebbene, i giudici di legittimità non hanno mancato di sottolineare la piena legittimità del diritto del lavoratore di assentarsi osservando il riposo durante le festività sancite dalle religioni aventi stipulato un’intesa, “in mancanza di una esigenza produttiva assolutamente preminente, relativa all'organizzazione dell'azienda, all'esigenza di conseguire i profitti o di assicurare alla collettività un servizio”605.

Ad ogni modo, è evidente che l’ampiezza della tutela offerta in materia sia determinata solo in minima parte dall’applicazione dei principi di uguaglianza e non discriminazione, dovendosi piuttosto ricondurre alla caratterizzazione del fedele come lavoratore, qualifica assorbente rispetto a quella di individuo e scevra da connotati riconducibili allo status civitatis. È innegabile inoltre come a fare la differenza sia altresì la capacità della confessione di stipulare un’intesa con lo Stato italiano606.

601 Maria Rosaria PICCINNI, Il tempo della festa tra religione e diritto, Cacucci Editore, 2013, p.276. 602 Ivi, pp. 253 e ss.

603 Rispettivamente legge n. 101 del 1989 e legge n. 516 del 1988.

604 Pasquale LILLO, “Rilevanza civile delle festività religiose in Spagna e in Italia”, in Diritto ecclesiastico, fasc.n.2,

1995, pag. 415 e ss.

605 Il riferimento in tal caso è all’ordinanza del Tribunale penale di Milano, del 7 aprile 1993 e alla decisione della Pretura

di Monza, sez. dist. Desio, del 20 marzo 1992 n. 82.

606 Stella COGLIEVINA, “Festività religiose e riposi settimanali nelle società multiculturali”, in Rivista italiana di diritto

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