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MULTICULTURALISMO E DIRITTI DI CITTADINANZA

3. Una cittadinanza a metà: la Demi-citizenship

Appare dunque stagliarsi con evidenza nel panorama internazionale una novella condizione giuridica, a metà strada tra la cittadinanza piena e la non-cittadinanza. Essa, guardando alla classica tripartizione dei diritti dei cittadini elaborata da T.S. Marshall, sembra andare a vestire quello status particolare in cui si trovano tutti quei residenti di lungo corso non-cittadini a cui sono riconosciuti i diritti sociali e civili ma non quelli politici. Tale situazione è stata definita –

nell’ultimo decennio del secolo scorso – da Tomas Hammar come “denizenship421”, termine già

418 Rainer BAUBÖCK, op. cit., 2002, p. 17.

419 Paolo CARETTI, Giovanni TARLI BARBIERI, op. cit., pp. 94-95. 420 Francesco PATERNITI, op. cit.

421 Tomas HAMMAR, “State, Nation, and Dual Citizenship”, in William Rogers BRUBAKER (edited by), Immigration

and the Politics of Citizenship in Europe and North America, University press of America, 1989 e Tomas HAMMAR, Democracy and the Nation State: Aliens, Denizens and Citizens in a World of International Migration, Aldershot, 1990.

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noto al vocabolario giuridico anglofono poiché impiegato per descrivere “one who lives habitually in a country but is not a native-born citizen; a foreigner admitted to residence and certain rights in a country; in the law of Great Britain, an alien admitted to citizenship by royal letters patent, but incapable of inheriting, or holding any public office422”.

Di fatto, dunque, secondo la ricostruzione di Hammar, la condizione di denization risulta essere quella di un non-cittadino privilegiato, poiché connesso con lo Stato ospitante tramite una serie fitta di diritti e doveri nonché dalla permanenza stabile dell’individuo sul territorio dello stesso, il quale comunque non può essere assimilato ai membri costituenti la cittadinanza. Tenendo in considerazione esclusivamente la residenza abituale, all’individuo – seppure non cittadino – viene in tal modo concesso di partecipare alla vita economica, culturale e sociale del

luogo ove ha deciso di spostare il proprio centro di interessi anche familiari423. Tale situazione

intermedia andrebbe quindi a qualificarsi più correttamente come una sorta di “membership sociale” per cui – sebbene esclusi dalla comunità politica – gli individui non sarebbero affatto emarginati poiché esercenti i diritti civili e sociali. Il pregio di tale formulazione risiederebbe

quindi nella preservazione della governance democratica, non intaccandone le basi sociali424.

Al favor statale fa invero da contrappeso la mancata ammissione a partecipare ai circuiti della rappresentanza politica. La condizione di denizenship finisce quindi per ostacolare di fatto

l’integrazione sociale dello straniero all’interno della comunità democratica di riferimento425. A

ben vedere, infatti, tale situazione potrebbe altresì essere interpretata in negativo come una cittadinanza “monca”, per cui individui non dotati del diritto di influire sui processi e sulle

politiche di uno Stato sono in ultima istanza condizionati da questi426. Oltretutto, seppur soggetto

ad evoluzione, il criterio della residenza continua a rappresentare una condizione necessaria

benché non sufficiente per l’esercizio della partecipazione politica427, tale per cui la negazione

dei diritti politici a soggetti stabilmente presenti sul territorio di uno Stato finisce per costituire una zona grigia del diritto.

422 Oxford English Dictionary, 1989. Invero, la prassi delle letters of denization emesse dal Re a favore dei non-cittadini

a cui venivano accordati dietro pagamento alcuni diritti, principalmente di natura civile, nacque e si diffuse nel Medioevo per posi essere formalizzata nell’Act for Denization del 1601 nonché ulteriormente confermata nel British Nationality Act del 1914. Con il tempo, però, tale prassi cadde in desuetudine, soprattutto poiché l’Act del 1914 facilitava il meccanismo di acquisizione della cittadinanza britannica per naturalizzazione.

423 Ekaterina YAHYAOUI KRIVENKO (edited by), Human rights and power in times of globalisation, Brill Nijhoff,

2018, p. 166.

424 Cfr. Laura ZANFRINI, op. cit., pp. 111.

425 T. Alexander ALEINIKOFF, Douglas KLUSMEYER, From Migrants to Citizens: Membership in a Changing World,

Brookings Institution, 2000, p. 435.

426 Cfr. Tendayi BLOOM, Noncitizenism: Recognising Noncitizen Capabilities in a World of Citizens, Routledge Studies

on Challenges, Crises and Dissent in World Politics, Routledge, 2017, pp. 234.

427 Rainer BAUBÖCK, “Expansive Citizenship: Voting beyond Territory and Membership”, in Political Science and

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Due sono le soluzioni elaborate per superare la denizenship. Da un lato, infatti, parte della dottrina ritiene opportuno completare il processo di riconoscimento dei diritti, ammettendo i non- cittadini residenti al godimento e all’esercizio dei diritti politici, senza comunque procedere ad un riconoscimento dello status civitatis. Dall’atro lato, invece, la strada pare individuarsi nell’ampliamento della platea dei cittadini, estendendo tale condizione giuridica anche allo

straniero mediante il canale della naturalizzazione428. La scelta fra le due opzioni risulta in fondo

determinata dalla volontà o meno del legislatore di rimodellare – in chiave estensiva e maggiormente inclusiva – le norme in punto di cittadinanza, riadattandole alle istanze della collettività sociale in continuo cambiamento. Non può comunque nemmeno omettersi una considerazione dal punto di vista del non-cittadino, il quale per poter finalmente partecipare alla politica e far sentire la propria voce nello spazio pubblico sarebbe di fatto obbligato a rinunciare alla propria cittadinanza originaria, acquisendo quella dello Stato di residenza per

naturalizzazione429.

Quel che è però certo è che la riflessione circa la denizenship impone di prendere atto del progressivo processo di distensione del legame sussistente tra cittadinanza e titolarità dei diritti e della conseguente possibilità di concepire un terzo modo di vivere la cittadinanza stessa. Quest’ultimo prescinde dai canali classici di acquisizione dello status civitatis (come il luogo di nascita o la nazionalità degli ascendenti) per guardare invece a criteri sicuramente più flessibili

e modellabili, quali l’integrazione sociale dell’individuo in base alla sua residenza stabile430. Ad

essere posto in evidenza sarebbe quindi il libero e riuscito inserimento dello straniero nella comunità di riferimento, dato che legittimerebbe l’avanzamento ed il successivo accoglimento della richiesta di pari trattamento in punto di diritti da questi rivendicati, indipendentemente dalla nazionalità e dalla cittadinanza.

Si potrebbe quindi correttamente parlare di una “post-national citizenship”431, ove a farla da

padrone sono i diritti umani e le relative istituzioni internazionali per cui passa necessariamente in secondo piano il legame di appartenenza sussistente tra l’individuo singolo e lo Stato.

428 T. Alexander ALEINIKOFF, Douglas KLUSMEYER, op. cit., p.460.

429 Non può peraltro sottacersi come parte della dottrina sia comunque critica nei confronti dell’istituto della

naturalizzazione posta la sua derivazione medioevale e il suo retaggio culturale, stante la nascita di tale meccanismo di acquisizione della cittadinanza in un contesto in cui non si poteva propriamente parlare di cittadinanza ma più correttamente di sudditanza. È stato difatti rilevato come essa presupponga la naturalezza del legame di soggezione esistente tra l’individuo e il potere sovrano nonché la perpetuazione vita natural durante di tale rapporto; assunti che male paiono conciliari con i principi democratici e consensuali. Cfr. Susan M. STERETT, “op. cit.”, in Law & Society Review, Vol. 33, n. 3, 1999, pp. 777-794.

430 Francesca BIONDI DAL MONTE, op. cit., pp.267-268.

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3.1 Una controversa dimensione della cittadinanza: la Global citizenship

Un’ulteriore declinazione ed evoluzione del concetto moderno della cittadinanza è quello della cosiddetta global citizenship. Essa, a partire da una lucida analisi della trasformazione in senso sovranazionale del concetto di popolo, riflette dunque i cambiamenti dettati dalla globalizzazione. Se è vero, infatti, che la normativa volta alla regolamentazione dello status di cittadinanza continua ad essere prerogativa del legislatore statale, è però indubbia la dimensione transnazionale assunta da tale istituto negli ultimi anni. Sintomatica di tale cambiamento è sicuramente la progressiva tolleranza delle situazioni di doppia cittadinanza come pure il

registrarsi di (sporadiche) ammissione dei non-cittadini a partecipare alle elezioni locali432, come

sopra ricordato. Inoltre, a fronte dell’emergere di crescenti pressioni provenienti dal panorama internazionale, lo Stato sembra affaticato nel cercare di soddisfare le richieste avanzate dai

cittadini in materia di diritti umani, come sociali ed economici433.

Nel secondo millennio, hanno altresì incominciato a riprendere piede teorie volte al

riconoscimento del demos globale come unico legittimo dal punto di vista democratico434. A

parere di cospicua parte della dottrina neo-kantiana cosmopolita435, infatti, la sovranità statale

risulta ad oggi pregiudicata dagli obblighi morali, e in secondo luogo giuridici, derivanti dalla garanzia dei diritti umani. Sembrerebbe quindi potersi individuare una autorità legale internazionale alla quale tutti sono in ultima istanza soggetti, tale per cui il legame ancora oggi esistente tra individuo e Stato-Nazione risulta essere unicamente morale. Proliferando le sedi di discussione democratica a causa della contrattazione multipla di norme su vari livelli, anche i luoghi di rappresentanza sembrano essere incrementati, posto l’assunto per cui tutti coloro che sono interessati dalla legge debbono poter avere l’occasione di esprimersi riguardo ad essa. A fronte di ciò, risultano pertanto emergere dei nuovi meccanismi di rappresentanza, dettati dalle connessioni tra individui e ordini costituiti a livello extra-nazionale. Ecco che in tale nuovo

432 Jean L. COHEN, “Changing Paradigms of Citizenship and the Exclusiveness of the Demos”, in Jo SHAW (edited by),

Citizenship and Constitutional Law, Edward Elgar, 2018, pp. 15-16.

433 Nigel DOWER, John WILLIAMS (a cura di), Global Citizenship: A Critical Reader, Edinburgh University Press,

2002, p.12.

434 Si pensi, tra tutti, a Robert GOODIN, “Enfranchising all affected interests, and its alternatives”, in Philosophy and

Public Affairs, vol. 35, n. 1, 2007, pp. 40-68.

435 Nell’opera Per la pace perpetua, difatti, Immanuel Kant presenta per la prima volta la teoria della legge della

cittadinanza globale, concernente le relazioni intercorrenti tra tutti gli individui e gli Stati stranieri. Tale diritto pare altresì trarre fondamento dal concetto di “ospitalità”, formulato dal filosofo tedesco quale diritto da riconoscersi ad ogni uomo in quanto potenziale partecipante alla repubblica mondiale. Si tratta in buona sostanza di un diritto a metà strada tra i diritti umani universali ed i diritti civili, estrinsecantesi nel diritto a non essere trattato da nemico in caso di ingresso pacifico nel territorio di un altro Stato ed espressione di una volontà e di un bisogno di associazione civile ed umana. Per tale ragione, tutti gli individui appaiono autorizzati a prendere parte all’ordine civile universale, a cui non corrisponde però un automatico riconoscimento dei diritti politici.

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modello di cittadinanza perde di rilevanza la dimensione territoriale statale tradizionale, avendo

elevato il discorso addirittura a tutto il globo436.

Seguendo tale ragionamento, inoltre, le preferenze accordate ai cittadini – in quanto membri di un popolo geograficamente e culturalmente situato - in punto di allocazione delle risorse e di riconoscimenti dei diritti (civili, politici e sociali) finiscono per essere immotivate e non

giustificate437. La tenuta del rinnovato concetto di cittadinanza globale risulta quindi dipendere

interamente dal grado di adesione ai diritti umani fondamentali nonché di coercizione – morale prima ancora che giuridica – che gli stessi possono essere in grado di esercitare.

Tale visionaria riflessione subisce però una battuta di arresto nel momento in cui ci si confronta con l’argomento della mancata corrispondenza tra una global citizenship e una global polity propriamente intesa. Non può infatti negarsi l’impossibilità di individuare a livello internazionale un’istituzione o comunque un organismo largamente inteso capace almeno di

somigliare ad un’organizzazione politica come quella statale438, che finisce dunque per

mantenere la propria preminenza e monopolio per quanto concerne la regolamentazione della cittadinanza.

Le difficoltà di affermazione di una cittadinanza globale risultano allora essere legate intrinsecamente alla persistente importanza rivestita dagli Stati-Nazione nel panorama internazionale, in cui paiono affacciarsi e affermarsi unicamente organizzazioni dotate di competenza limitata e specifica.

Ulteriore contestazione poi mossa alla cittadinanza globale è quella relativa alla sua vocazione cosiddetta “coloniale” posto che essa risulta essere foriera ed espressione di un modello di

cittadinanza specificatamente situabile nel mondo occidentale e nello Stato liberale439.

L’applicazione del medesimo paradigma giuridico su scala globale appare quindi essere il risultato di un’opera di esportazione concettuale che non tiene adeguatamente conto dei diversi modi di vivere e concepire lo status di cittadino nelle diverse esperienze giuridiche.