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di Marina Lalatta Costerbosa

2. Il diritto come le mura della città

In una delle sue opere più belle, Vita Activa (1958), Arendt ri- flette sulla condizione umana, ritraendola in forma tridimensiona- le. La condizione di vita dell’uomo ha a che fare innanzitutto con la necessità naturale e biologica da fronteggiare, di cui ci si deve appropriare per sopravvivere. Per questo l’attività lavorativa è co- stitutiva della condizione di vita. Così come è costitutiva della presenza dell’uomo sul pianeta, del suo essere nel mondo, la ca- pacità creativa materiale: l’operare proprio di un uomo che sa fabbricare il mondo degli oggetti, che sa costruire dimora e at- trezzi, quel mondo che diventa poi anche l’universo tecnologico con tutte le sue contraddizioni.

A queste due dimensioni della condizione umana se ne ag- giunge una terza, quella che individua quanto vi è di peculiare nell’umanità, ovvero il tratto, già incontrato, della socialità, della relazionalità. Gli esseri umani sono essenzialmente insieme gli uni agli altri.

La pluralità è la terza condizione dell’uomo alla quale corri- sponde l’attività più significativa, l’agire propriamente detto, il pensare e il comportarsi verso gli altri. La libertà dell’uomo rinvia al suo stare insieme agli altri, insiste nel comunicare, nel dialoga- re, nel contrario dell’isolamento. Si può lavorare da soli, si può fabbricare da soli, ma non si può agire da soli. «Se fosse vero che la sovranità e la libertà si identificano, allora nessun uomo po- trebbe esser libero, perché la sovranità, l’ideale di non compro- mettere l’autosufficienza e la padronanza di sé, è in contraddizio-

ne con la condizione della pluralità» 8. Abbiamo bisogno degli al-

tri per essere noi stessi in quanto esseri capaci di libertà, siamo creati come esseri in relazione. La libertà è sempre libertà con gli altri (in comunità).

Su questo sfondo il diritto è la condizione di possibilità della coesistenza tra individui, di questa forma di convivenza, la quale ruota attorno al valore della libertà e si avvicina, a nostro giudizio, a quella costellazione dell’anarchismo politico che afferma il pri- mato della ragione, di una ragione nella quale va riposta fiducia, contro le infinite guise del dominio, senza che questo implichi la riduzione della centralità del sentimento della compassione per il debole che subisce il dominio del più forte. «Il terreno comune del “canone” dell’anarchismo politico» non è tanto o prioritaria- mente «l’avversione per lo Stato», ma «la pietà per il dominato e l’inferiore, quale che esso sia, come che esso fenomenologicamen-

te possa darsi, con in più il “principio speranza”» 9.

Arendt ci sembra quasi (implicitamente) aver accolto come progetto, possibilità della e per la politica, l’ideale dell’anarchia 8 H. ARENDT, The Human Condition. Vita Activa, 1959, trad. it., a cura di A.

DAL LAGO, Vita activa, Bompiani, Milano 1964, p. 173.

9 M. LA TORRE, Nostra legge è la libertà. Anarchismo dei Moderni, DeriveAp-

nella formulazione che Kant aveva contemplato tra le forme pa- radigmatiche della relazione tra forza e libertà nella sua tipologia consegnata alle pagine dell’Antropologia pragmatica, ove si legge che l’anarchia corrisponde a «Gesetz und Freiheit ohne Gewalt» (legge e libertà senza violenza) 10.

Questo portato pretenziosamente normativo della proposta arendtiana spiega anche l’insistita polemica che scorre nelle pagi- ne di diversi scritti.

Arendt ingaggia una dura lotta contro la società di massa e denuncia l’incorso depauperamento della sfera pubblica. Reale rischia di rimanere solo il simulacro della dimensione pubblica, un “pubblico” fittizio, perché si tratta piuttosto di un privato di- latato e onnipervasivo, dell’annullamento dell’autonomia nell’iso- lamento e nella mercificazione di una condizione umana degrada- ta. Ogni volta in cui la forma dell’attività dell’uomo riconducibile al lavoro o quella corrispondente al costruire si assolutizza, la condizione umana diventa una condizione del vivere alienante. Se si assolutizza e si rende esclusiva la dimensione dell’attività lavo- rativa, la sfera pubblica svanisce per lasciare il posto a una sociali- tà da gregge. Se a fagocitare la condizione umana è l’attività del- l’homo faber, del fabbricare, dell’opera concreta e statica, la sfera pubblica cede il passo al mercato, al dominio della ragione stru- mentale e giù giù, lungo una china difficile da arrestare, alla di- sumanizzazione della ragione strumentale.

Solo l’agire rende pienamente ragione della sfera pubblica nel- la sua pienezza ed essenza. Solo l’agire riscatta gli esseri umani dall’isolamento che viceversa caratterizza gli altri due momenti. E agire è per Arendt comunicare tra diversi. La caratteristica strut- turale della sfera pubblica è il suo non sopravvivere «alla realtà del movimento che l(a) crea, ma scompare non solo con la spari-

10 I. KANT, Anthropologie im pragmatischer Hinsicht, 1798; trad. it., Antropo-

logia dal punto di vista pragmatico, Laterza, Roma-Bari 2001, Parte II, “E. Il carat-

tere della specie”, “Delineazione del carattere del genere umano”, II, p. 226 (tra- duzione modificata sostituendo «violenza» a «forza» per rendere il termine tede- sco Gewalt). Sulla tipologia kantiana delle diverse combinazioni di libertà, legge e violenza o forza cfr. M. LA TORRE, Nostra legge è la libertà, cit., pp. 10-11.

zione degli uomini […] ma con la stessa scomparsa e l’arresto delle loro attività. […] (È) ovunque le persone si raccolgano in- sieme, ma solo potenzialmente, non necessariamente e non per sempre» 11.

La sfera pubblica nasce dall’agire insieme praticabile grazie al diritto, dalla condivisione di parole e azioni. «Il potere è realizza- to solo dove parole e azioni si sostengono a vicenda, dove le paro- le non sono usate per nascondere le intenzioni ma per rivelare realtà, e i gesti non sono usati per violare e distruggere, ma per

stabilire relazioni e creare nuove realtà» 12 che possano mirare a

muoversi in concerto. Altrimenti non è più politica, non è più di- ritto, ma forza, potenza, violenza.

L’intuizione di Arendt concerne l’intreccio per l’uomo essen- ziale tra parola e agire, è attraverso il linguaggio e l’azione che «ci inseriamo nel mondo umano», un mondo ospitale se reso plastico e al contempo regolato in virtù del sotteso tessuto di norme. L’idea di fondo è che «(g)li uomini possono benissimo vivere sen- za lavorare, possono costringere gli altri a lavorare per sé, e pos- sono benissimo decidere di fruire e godere semplicemente del mondo delle cose senza aggiungere da parte loro un solo oggetto d’uso; la vita di uno sfruttatore o di uno schiavista e la vita di un parassita possono essere inique, ma essi certamente sono esseri umani […]. Ma una vita senza discorso e senza azione […] è let- teralmente morta per il mondo; ha cessato di essere una vita uma-

na perché non è più vissuta fra gli uomini» 13, perché ne tradisce

la libertà impedendogli ogni gesto creativo, ogni inizio di qualco- sa di nuovo nel mondo.

Possiamo dunque concludere provvisoriamente rilevando co- me la libertà abbia per Hannah Arendt bisogno del diritto e il di- ritto rintracci nella sua tutela la propria ragion d’essere.

11 H. ARENDT, Vita activa, cit., p. 146. 12Ibidem.

13 J.S. MILL, On Liberty, 1859, trad. it., Sulla libertà, SugarCo, Milano 1990,

Perché questo non sia contraddittorio, però, il diritto non può corrispondere all’inveramento di un modello astratto e astorico, ma deve essere espressione della libertà di soggetti concreti che con-vivono, che tendono a vivere “in concerto” in uno spazio co- mune.

Nei frammenti postumi si ritrovano pensieri decisivi a confer- ma di questa visione del diritto.

«Siamo così abituati a intendere legge e diritto, nel senso dei dieci comandamenti, come comandamenti e divieti il cui unico senso – spiega – è dato dal dovere di obbedirvi, da dimenticare facilmente l’originario carattere spaziale della legge. Ogni legge crea innanzi tutto uno spazio in cui essa ha valore, e quello spazio è il mondo in cui possiamo muoverci in libertà. Ciò che è al di fuori di quello spazio è privo di legge e, a rigor di termini, privo di mondo, ai sensi della convivenza umana è un deserto. […] Questo infra […] il mondo delle relazioni che si forma dall’agire, l’attività propriamente politica dell’uomo, è certo ben più difficile da distruggere del mondo fabbricato delle cose, in cui il fabbri- cante e produttore rimane l’unico signore e padrone. Ma se que- sto mondo di relazioni viene devastato, allora alle leggi dell’agire politico, in cui i processi sono in effetti difficilmente annullabili all’interno del politico, si sostituisce la legge del deserto» 14.

Il diritto per Arendt è come il muro delle città medievali, con- sente e qualifica il vivere di cittadini che sono tali solo dopo la co- struzione di quella robusta e imponente cinta perimetrale.

La legge (qui nel senso del nomos dei Greci e non della lex dei Romani) quindi, il diritto, crea, costituisce, lo spazio pubblico; è il momento prepolitico del fabbricare che precede e pone le pre- messe per l’agire, per il vivere politico. La legge «è costitutiva di ogni ulteriore agire politico e di ogni relazione politica. Come le mura della città, alle quali Eraclito paragona la legge, devono prima essere costruite affinché possa esistere una città identifica- bile nella sua forma e nelle sue demarcazioni, così la legge deter-

14 H. ARENDT, Was ist Politik?, 1993, trad. it., a cura di U. LUDZ, con Prefa-

mina la vera fisionomia dei suoi abitanti, che li distingue e discer-

ne da tutte le altre città e dai loro abitanti» 15.

Ricordando Alessandro Passerin d’Entreves e attribuendogli il merito di aver paragonato il diritto all’insieme delle regole del

gioco 16, in una nota importante del saggio Sulla violenza, Arendt

prosegue in questa metafora, sintetizzando così il proprio punto di vista sull’universo del diritto e sul suo valore per la convivenza in società.

«Fulcro dell’essenza delle norme giuridiche non è che mi sot- tometto a esse volontariamente o le riconosco teoricamente come valide, ma che nella pratica io non posso partecipare al gioco del

diritto finché io non mi conformo» 17; «la mia motivazione per ac-

cettare è il mio desiderio di giocare, e poiché gli uomini esistono solo nella pluralità, il mio desiderio di giocare coincide con il mio desiderio di vivere» 18.

Questo non significa subordinazione o asservimento passivo alle norme preesistenti in società. Esse si possono rifiutare, si può cercare di sovvertirle, si può promuovere persino una rivoluzione, si può disubbidire. Ma «negare le regole per principio non corri- sponde semplicemente alla “disubbidienza”, bensì al rifiuto di en-

trare a far parte della comunità umana» 19.