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di Marina Lalatta Costerbosa

3. Il naufragio dei diritt

La storicità come fattore caratterizzante il diritto ritorna anche nelle tesi arendtiane contro i diritti umani, la parte più controver- sa e forse a prima vista persino “scandalosa” o provocatoria della riflessione. Arendt critica la conquista giuridica e politico-morale

15 Ivi, pp. 87-88.

16 H. ARENDT, On Violence, 1968, in ID., Crisis of the Republic, Harvest

Book, San Diego-New York-London 1972, p. 193.

17 Ibidem.

18 Ibidem. Traduzione nostra. 19 Ibidem. Traduzione nostra.

rappresentata dal riconoscimento mondiale del diritti dell’uomo, si oppone cioè alla contromisura di giustizia e di indignazione che l’intero pianeta ha condiviso, quale risposta agli orrori della Se- conda guerra mondiale, ai lager e alle stragi atomiche.

La ratio di questa polemica non è però certo quella della difesa di un potere assoluto o di un realismo politico che liquidi il prin- cipio di libertà in nome di istanze d’ordine e di efficacia; e neppu- re un rassegnato nichilismo che non può non trasformarsi nel tempo nel più fedele alleato del dominio e della potenza.

La motivazione di fondo ricorda per certi aspetti (tra loro assai distanti) la ancora più vecchia critica di Bentham, di Burke e di Marx ai diritti umani e alla loro pericolosa astrattezza, al loro in- trinseco portato ideologico e al pericolo che tale implicito ingan- no determini conseguenze politiche. Vuoi in senso conservatore, tradendo le istanze democratiche della Rivoluzione; di questo era preoccupato Jeremy Bentham. Vuoi adulterando la realtà e smar- rendo il valore della tradizione e delle consuetudini radicate nella storia, per il conservatore Burke. Vuoi rendendosi portavoce di quello spirito borghese che contrabbanda progresso per sogge- zione; questa volta nella prospettiva marxiana.

Anche alla base della critica di Arendt vi è lo smascheramento di un errore teorico, quello concernente il riferimento normativo alla “natura” umana, concetto gravido di indesiderabili conse- guenze e mistificazioni paralizzanti e contraddittorie. In Vita acti-

va è cristallina sul punto.

«Il problema della natura umana […] pare insolubile sia nel suo senso psicologico individuale sia nel suo senso filosofico generale. È molto improbabile che noi, che possiamo conoscere, determina- re e definire l’essenza naturale di tutte le cose che ci circondano, di tutto ciò che non siamo, possiamo mai essere in grado di fare lo

stesso per noi: sarebbe come scavalcare la nostra ombra» 20. L’an-

golo visuale di Arendt è dunque sempre storicizzato, riferito alla

condizione umana che «non coincide con la natura umana» 21. Si

20 H. ARENDT, Vita activa, cit., pp. 9-10. 21 Ivi, p. 9.

deve guardare all’essenza dell’uomo, ove per essenza umana però Arendt non intende «la natura umana in generale (che non esiste) né la somma totale delle qualità e dei difetti dell’individuo, ma l’essenza di chi è», la storia di una vita, di ciascuna esistenza parti- colare.

La confutazione arendtiana dei diritti umani si fonda inoltre sul riconoscimento di un errore pratico: la scelta di uno strumento sbagliato per il perseguimento di un ideale di giustizia corretto.

Tale ideale comprende un principio di eguaglianza che passa attraverso il riconoscimento della diversità: l’idea che gli esseri umani sono uguali in una cosa su tutte, l’unicità che li caratteriz- za, e rivendica pertanto un rispetto senza condizioni. A questa idea si accompagna, in un nesso biunivoco strettissimo, il princi- pio di libertà che consiste essenzialmente nella capacità di dare inizio a qualcosa di nuovo; con ancora una metafora, è la natalità che pertiene a ogni persona.

Nel riconoscimento dei diritti il rispetto di questi due principi, che ne sono gli ispiratori, viene tradito dalla loro traduzione sto- rico-politica. I diritti umani falliscono nel loro intento, nella loro presunta difesa della libertà e della dignità delle persone. In fon- do è come se sotto la bandiera dei diritti umani si potessero solo sempre difendere diritti fondamentali positivi ovvero riconducibi- li a uno stato nazione, dunque capovolgentisi nel loro contrario, diventando da universali particolari e nazionali.

Così argomenta Arendt nel saggio del 1949 The Rights of Man.

What are They?; più estesamente nel capitolo del 1951 delle Ori- gini del totalitarismo, “The Decline of the Nation State and the

End of the Rights of Man”; come pure nel saggio sulla Disubbi-

dienza civile.

Il «diritto di avere diritti» 22, per riprendere la celebre espres-

sione arendtiana, si trasforma in una prospettiva che nel ricono- scere i diritti dell’altro nega di fatto il diritto, ad averne, di altri.

Questa critica ai diritti umani è la critica al loro portato ideo-

22 H. ARENDT, The Origin of Totalitarianism, 1951, trad. it., Le origini del to-

logico, controproducente, tale da innescare una viziosa circolari- tà. Il principio di giustizia a monte dei diritti umani è ciò che deve essere preliminarmente fondato e protetto. Esso consiste appunto nel «diritto ad avere diritti» che pertiene agli esseri umani come tali, indipendentemente dalla loro appartenenza nazionale, e in quanto esseri fatti per vivere insieme, esseri viventi ai quali ineri- sce la condizione della pluralità.

Ad Arendt tutto questo si chiarisce ben presto con evidenza, allorquando nella temperie tardoweimariana e poi nell’incubo na- zista, le si presenta in carne e ossa il problema della apolidicità.

Gli apolidi, coloro che «una volta lasciata la patria d’origine»,

«rimasero senza patria» 23, «privati dei diritti umani garantiti dalla

cittadinanza, si trovano a essere senza alcun diritto, la schiuma

della terra» 24.

La condizione dell’apolidicità consente di intuire il limite ap- plicativo, reale della libertà difesa attraverso i diritti. Diritti garan- titi dal riconoscimento dell’appartenenza nazionale hanno una na- tura bifronte: con una mano assicurano libertà, ma con l’altra so- no pronti a ritirarle, qualora i presupposti di tale assicurazione vangano meno sulla base di sempre possibili mutamenti politici.

«La dichiarazione dei diritti dell’uomo alla fine del XVIII se- colo […] documentava l’emancipazione del genere umano da qualsiasi tutela, la sua condizione di maggiorenne. Vi era però an- che un’altra implicazione […] Essa intendeva essere una garanzia per gli individui che, con l’inizio della nuova epoca, non erano più sicuri della condizione acquisita con la nascita o dell’egua- glianza di fronte a Dio come cristiani. In altre parole – continua Arendt in un rapido excursus storico –, nella nuova società secola- rizzata […] fu opinione concorde che i diritti umani dovessero essere invocati ogni qual volta gli individui avevano bisogno di protezione contro la sovranità dello stato e l’arbitrio della società. Poiché tali diritti erano inalienabili e irriducibili e non derivavano la loro validità da altri diritti o leggi, non occorreva nessuna auto-

23 Ivi, p. 372. 24 Ibidem.

rità per istituirli; l’uomo stesso ne era la fonte e il fine ultimo» 25.

Ma questa narrazione ha un carattere paradossale per Arendt, poiché affida la tutela dei diritti a un’idea rarefatta e irrealistica dell’individuo. «Il paradosso implicito nella dichiarazione degli inalienabili diritti umani consisteva nel prendere in considerazio-

ne un uomo “astratto”, che non esisteva in nessun luogo» 26.

E qui si radica il cortocircuito teorico. Si muove dall’esigenza di tutela della sfera di integrità e autonomia dell’individuo. La si sostiene ponendo in gioco una fondazione di essa che trascende la dimensione empirica e concreta della sua esistenza. Ci si scontra con il limite che tale astrazione porta con sé, ovvero la sua non traducibilità nella realtà storica determinata e particolare. L’appli- cazione che ne deriva non può dunque che passare dalle maglie della dimensione nazionale della comunità politica, entrando in una tensione drammatica, di più, in una latente contraddizione con l’idea di giustizia dalla quale si erano prese le mosse.

«La questione dei diritti umani si intrecciò ben presto – avan- za Arendt nella sua lettura – inestricabilmente con quella dell’e- mancipazione nazionale; solo la sovranità del popolo, del proprio popolo, sembrò capace di garantirli […] i diritti dell’uomo erano stati definiti inalienabili perché si presumeva che fossero indi- pendenti dai governi; ma ora si scoprì che, appena gli individui perdevano la protezione del loro governo ed erano costretti a contare sul minimo di diritti che dovevano avere acquistato con la

nascita, non trovavano nessuna autorità disposta a garantirlo» 27.

È come se la condizione limite dell’apolidicità avesse svelato ad Arendt un elemento di perversione nella dinamica sottesa alla istituzionalizzazione dei diritti.

«I diritti umani si sono rivelati inapplicabili, persino nei paesi che basavano su di essi la loro costituzione, ogni qual volta sono apparsi degli individui che non erano più cittadini di nessuno sta- to sovrano […] così durante l’ultima guerra gli apolidi si sono

25 Ivi, p. 403. 26 Ibidem. 27 Ivi, pp. 403-404.

inevitabilmente trovati in una posizione peggiore degli stranieri nemici, che continuavano a essere indirettamente protetti dai loro governi in virtù degli accordi internazionali» 28.

In questo percorso difficile, perché seriamente controcorrente, scomodo ed esposto a facili fraintendimenti, a emergere è l’esigen- za teorica e pratica di una rimessa in discussione della presupposta autosufficienza della rivendicazione astratta dei diritti individuali. A ben vedere, infatti, essa non può essere disgiunta dal riconosci- mento dello status nazionale, dell’appartenenza a una determinata comunità politica. Ma la diarchia di libertà individuale, nella sua astrattezza, e appartenenza nazionale, nella sua concretezza, altera – secondo la filosofa tedesca – irreparabilmente la pretesa univer- salistica dei diritti, ridotta a chimera, eppure dichiarata sulla carta, una carta sotto questa luce fuorviante. «La disgrazia degli indivi- dui senza status giuridico non consiste nell’esser privati della vita, della libertà […], ma nel non appartenere più ad alcuna comunità di sorta, nel fatto che per essi non esiste più nessuna legge, che

nessuno desidera più neppure opprimerli» 29.

Negando l’appartenenza si negano contemporaneamente an- che i diritti. Occorre dunque andare oltre o fermarsi un passo pri- ma rispetto ai diritti umani. Sicuramente nella visione di Arendt vi sarebbe bisogno di una strada alternativa, per raggiungere in modo più affidabile e certo l’obiettivo indispensabile e urgente della messa in sicurezza della pretesa legittima della loro titolarità.

«Ci siamo accorti dell’esistenza di un diritto ad avere diritti (e ciò significa vivere in una struttura in cui si è giudicati per le pro- prie azioni e opinioni) solo quando sono comparsi milioni di indi- vidui che lo avevano perso e non potevano riacquistarlo a causa della nuova organizzazione del mondo […] Solo perché l’umanità era completamente organizzata la perdita della patria e dello status politico poteva identificarsi con l’espulsione dall’umanità stessa» 30.

28 Ivi, pp. 406-407. 29 Ivi, p. 409. 30 Ivi, p. 411.

In questa chiave interpretativa, ancora più grave della revoca dei diritti fondamentali, è per un individuo l’espulsione dalla co- munità, la marginalizzazione, l’annullamento della sua apparte- nenza, il diventare raminghi, “figli di nessuno”, eredi senza patria.

«L’individuo può perdere tutti i cosiddetti diritti umani senza perdere la sua qualità essenziale di uomo, la sua dignità umana. Soltanto la perdita di una comunità politica lo esclude dalla uma-

nità» 31. E così, il diritto che «corrisponde a questa perdita, non

può essere formulato nelle categorie del XVIII secolo perché esse presuppongono che i diritti scaturiscano immediatamente dalla “natura” dell’uomo […] Il punto decisivo è che tali diritti, e la dignità umana a essi legata, dovrebbero rimanere validi e reali an- che se un solo uomo esistesse sulla terra; essi sono indipendenti dalla pluralità umana e dovrebbero quindi conservare il loro valo-

re anche se un individuo fosse espulso dalla società» 32. Infatti,

«quando furono proclamati per la prima volta, i diritti dell’uomo furono considerati indipendenti dalla storia e dai privilegi che la storia aveva accordato a certi strati sociali […] I diritti storici fu- rono sostituiti dai diritti naturali, e la “natura” messa al posto del- la storia, nella tacita presunzione che essa fosse meno estranea

della storia all’essenza dell’uomo» 33. Invece, il dominio dell’uomo

sulla natura, giunto sino al punto estremo della possibilità della sua distruzione, rende evidente la precarietà della natura, l’insta- bilità di essa quale punto fermo o fondamento di leggi e diritti.

È una critica questa che si avvicina molto a quella di Burke, Arendt lo riconosce espressamente, eppure ella preferisce ricavare la sua confutazione da uno sguardo sui «superstiti dei campi di

sterminio, gli internati dei campi di concentramento e gli apolidi» 34.

«La concezione dei diritti umani è – conclude Arendt – nau- fragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro

31 Ivi, p. 412. 32 Ivi, p. 413. 33 Ibidem. 34 Ivi, p. 415.

qualità umana. Il mondo non ha trovato nulla di sacro nell’astrat- ta nudità dell’esser-uomo» 35.

Per questa via Arendt approda a un concetto di diritto e a una critica coraggiosa (al di là delle riserve che pensiamo essa possa suscitare) della nozione dei diritti dell’uomo, lontani da ogni chi- na giustificazionista, poiché ostinatamente ancorati all’ideale della libertà come «natalità» nello spazio plurale.

Il diritto e i diritti, sotto i suoi occhi, riscoprono il valore della storia come rispetto e considerazione per la concretezza del vivere delle persone, la durezza dei loro bisogni, la violenza della loro sofferenza. È a partire da questa consapevolezza che Arendt si dovrebbe ricercare la via più sicura per il perseguimento del- l’ideale della libertà.

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Storicità del diritto e interpretazione