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Il baricentro concettuale del saggio in esame intorno al quale si concentra il ragionamento kantiano è rappresentato dalla transizione di quel processo che dall’oscurità tende alla chiarezza, dalla minore alla maggiore età. Esso è possibile alla sola condizione che si pensi da sé, senza affidare agli altri l’incombenza di questa «fastidiosa occupazione». L’uomo “si illumina”, si rischiara allorché riesce ad abbandonare una condizione di cui peraltro è responsabile, rappresentata da uno stato di sudditanza nei confronti di chi, facendogli da “tutore”, lo tiene in una condizione di “minorità”: pur potendo contare sul proprio intelletto, rinuncia a farne uso.

Dopo aver accertato che la «minorità» è quello stato nel quale l’uomo, pur potendo contare sul proprio intelletto, rinuncia e non ne fa uso proprio dell’intelletto, che è la condizione che permette all’uomo di permanere nella pigrizia e nella viltà,255 che

molteplici e di differente natura tuttavia sono i vincoli che rendono difficile l’esercizio autonomo del pensiero e non consentono di venir fuori dalla minorità,

254Kant chiarisce la connessione illuminismo-autonomia nel saggio del 1786 Che cosa significa orientarsi nel pensiero: «Pensare da se stesso significa cercare in se stessi (cioè nella propria ragione) la suprema pietra di paragone della verità; e la massima di pensare che invita a pensare sempre da sé è l’Illuminismo», p. 66

255 «Viltà (Feigheit)- come assenza di coraggio-e pigrizia (Faulheit)-come sostegno del difetto di

decisione -sono le cause per cui tanta parte degli uomini restano volentieri minorenni per tutta la vita e è la causa per cui resta facile ad altri erigersi a loro tutori» (I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminsmo? p.15)

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Kant afferma che esistono alcune persone, ad esempio i tutori, interessate a farci permanere in tale condizione Ciò accade quando, ad esempio, questi personaggi decidono per noi, e, se anche tentiamo di fare un salto, senza essere allenati, non è facile uscire dalla minorità. Se alcuni restano minorenni, in quanto «viltà» e «pigrizia», inclinazioni peculiari della natura umana, minano il risveglio razionale dell’uomo, altri sfruttano tale “attitudine” alla minorità e diventano e si propongono come tutori dei minorenni. Naturalmente pigro, l’uomo si abitua alle situazioni giungendo persino ad amarle. Ecco perché lavorare per uscire dalla minorità si presenta come un’azione «difficile per l’uomo» ed è divenuta per lui quasi una «seconda natura», una situazione nella quale si sente sicuro e garantito ed «è realmente incapace di valersi del suo proprio intelletto, non avendolo mai messo alla prova e, per il momento».256

Ma, si può anche decidere di restare minorenni tutta la vita, semplicemente pagando, per non avere l’incombenza della «fastidiosa occupazione» di «pensare con la propria testa», e, in tal modo, “affidare” l’esistenza propria a tutori che si assumono il compito di pensare al posto nostro, di decidere, di scegliere.

L’uomo, tuttavia, non è il solo e unico responsabile della sua condizione di minorità, termine utilizzato ad indicare colui che è ancora «non maggiorenne»257 (un-

mündig), non legato a una condizione anagrafica, ma ad una forma precisa della

quale ciascuno è colpevole. Alla sua permanenza concorrono, come dicevamo, in misura diversa, anche altri soggetti. Entrano in scena, a questo punto del ragionamento kantiano, soggetti anch’essi colpevoli della permanenza nello stato di minorità che, per interessi più o meno personali, e non sempre noti, agiscono come “tutori” e si assumono “l’incombenza”, o “il compito” di esercitare un controllo o “un’alta sorveglianza”,258 provvedendo inoltre a dissuadere quanti a loro

si affidano dal “muovere un passo” senza la loro guida. Kant, ancora una volta, pennella un ritratto, marcatamente duro e il suo attacco, ironico ed aspro, è nei

256 I. Kant, ivi

257 Kant ripropone la nozione di maggiore età (Mundgkeit) in Antropologia dal punto di vista

pragmatico, tr.it. cit. pp. 82-88 e nella Critica della ragion pratica: «Un intelletto in sé sano (senza difetti) può essere difettoso nell’esercizio, il che richiede il rinvio della maggiore età del soggetto fino a raggiunta maturazione o la nomina di un curatore dei suoi affari civili, L’incapacità (naturale o legale) di un uomo, peraltro normale, all’uso del proprio intelletto negli affari civili prende il nome di tutela, se dipende dai non raggiunti limiti di età, è detta minorità;se dipende da disposizioni leali relative agli affari, si chiama tutela giuridica o civile»

258«la stragrande maggioranza di uomini (e con essi tutto il gentil sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggior età oltre che difficile e pericoloso, provvedono quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza, l’alta sorveglianza sopra costoro (i loro simili minorenni)»

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confronti dei «tutori», di coloro che, nella vita di ciascuno di noi, assurgono alla “pretesa” di pensare al posto nostro.

Così, accanto alla «pigrizia» e alla «viltà» che distolgono dall’occupazione del pensare, si affiancano le “attenzioni” e le “premure” di quegli officianti che si sono arrogati la pretesa di controllare e guidare “i passi” di chi aspirerebbe a diventare maggiorenni. Imprigionati nel girello come bambini, ai minorenni viene affettuosamente sconsigliato di camminare da soli, per i tanti pericoli e le insidie che potrebbero minacciare il tentativo di muoversi senza l’assidua assistenza dei tutori:

dopo averli istupiditi come animali domestici e aver accuratamente impedito che queste creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui li hanno ingabbiati.259

Il cammino verso la maggiore età, verso la libertà per Kant è difficile e complesso in quanto l’uomo, da un lato, per abitudine tende ad affidarsi ad una guida esterna per risolvere i propri problemi, dall’altro, quegli stessi tutori ai quali ha scelto di affidarsi, mantengono nei suoi confronti un rapporto di dipendenza e sudditanza. E’ proprio come bambini che decidono di non abbandonare il girello,260 una sorta

metaforica di “coercizione esterna”, per non affrontare il difficile compito dell’emancipazione dell’autonomia verso la libertà, per il cui raggiungimento è necessario aver coraggio di usare la propria ragione eludendo pigrizia e viltà, che spingono la maggior parte degli uomini a restare per sempre minorenni subendo la violenza di quelli che si ergono a loro tutori».261

259 Ivi, p.15

260 La metafora del girello o delle briglie di cui Kant si avvale molto di frequente nei suoi scritti,

perolopiù in chiave pedagogica, indica l’intervento temporaneao di una “coercizione esterna” che dovrà presto essere sostituita con un’autonomia. Compare anche nella Dottrina del metodo della Critica della ragion pratica, quando afferma che: «Non si può certo negare che, per instradare un animo ancora rozzo oppure corrotto sul cammino del moralmente buono sono necessarie alcune istruzioni preparatorie per attrarlo col suo vantaggio o spaventarlo col suo danno; ma appena questo meccanismo, queste dande, abbiano sortito qualche effetto, bisogna assolutamente porre innanzi all’animo il motivo determinante morale, il quale, poiché è l’unico idoneo a fondare un carattere (un modo di pensare pratico, coerente e fondato su massime immutabili), e anche perché insegna all’uomo a sentire la propria dignità, on ferisce all’animo una forza, che esso stesso non si aspettava, per liberarsi da ogni affezione sensibile tendente a divenire predominante e trovare nell’indipendenza della sua natura intelligibile e nella grandezza d’animo a cui l’uomo si sente destinato, un ampio compenso dei sacrifici che fa» I. Kant, Critica della ragion pratica, tr.it. p. 170 Dottrina del metodo. E’ interessante rilevare che ne La metafisica dei costumi (Parte Seconda, Introduzione alla dottrina delle virtù) Kant fornisce una definizione di habitus come “facilità di agire”: « […] è una perfezione soggettiva dell’arbitrio. Ma non ogni facilità è una libera abitudine perché quando essa diventa consuetudine, vale a dire quando la ripetizione frequente dell’azione ci fa una necessità di conformarci a questa, allora l’abitudine non procede più dalla libertà, non è più un’abitudine morale»

261 P. Salvucci, in Coscienza trascendentale e mondo degli uomini, in L’uomo di Kant, Argalia

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La «tutela» che espropria l’uomo dell’autonoma capacità di «far uso del proprio intelletto» è esercitata non solo dall’imposizione di individui che controllano direttamente, ma anche dall’esistenza di due strumenti, «regole» e «formule» che lo limitano nell’uso attraverso la cui procedura, i tutori sono capaci di impedirci di far funzionare il nostro intelletto in maniera autonoma e di esercitarlo in modo sottile.

«Regolamenti (Satzungen) e formule (Formeln), strumenti meccanici di un uso razionale - o meglio, si potrebbe dire strumenti di un “abuso dei suoi doni di natura” - sono i ceppi di un’eterna minorità»262 mediante cui viene ribadito il divieto di fare uso delle proprie facoltà intellettuali. Sebbene Kant non fornisca esplicitamente le motivazioni per le quali regole e formule rappresentino l’impedimento a fuoriuscire dallo stato di minorità, se ne possono intuire i motivi: in entrambi i casi si assiste ad una sostituzione di un ragionamento libero a vantaggio di formule compendiose. Esse non si discutono mai, per loro natura, ma sottraggono all’uomo l’uso autonomo e libero dell’intelletto, nel senso che, nel dirci cosa fare e non fare, regole e formule si mostrano nella loro natura dispotica, quasi dogmatica e, ogni qual volta si presentano come uso di espressioni complesse e impegnative, si propongono come indiscutibili, di fronte alle quali non si può che tacere, rendendo difficile l’uso delle proprie facoltà intellettuali. Questi “strumenti meccanici di un uso razionale” rappresentano le catene di una eterna minorità, alla quale l’uomo sarà sempre condannato se decidesse di “subire” e “non di non uscire” dalla minorità, di non imparare cioè a far uso della propria testa. Attraverso essi si esprime il divieto di usare in maniera autonoma le proprie capacità intellettuali, ma anche l’impedimento a fuoriuscire dallo stato di minorità, in quanto, in entrambi i casi, si assiste ad una sorta di sostituzione di un “ragionamento libero” con l’irrigidimento di formulazioni che, a volte, ne rendono difficile l’uso delle proprie potenzialità intellettuali.

Dunque, regole e formule, espresse sia come forma di comando che come divieto, si sostanziano come obblighi di fronte ai quali ogni pretesa di assurgere all’autonomia razionale deve in qualche modo soccombere, finendo per agire come meccanismi oggettivi, come veicoli di un “impersonale assoggettamento”, che contribuisce a conservare lo stato di minorità.

262 Ivi, p.15

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Dopo aver individuato nelle regole e nelle formule quei meccanismi oggettivi che espropriano l’uomo della autonoma capacità di far uso del proprio intelletto, di pensare con la propria testa, Kant dice che:

chi anche li rigettasse, farebbe tuttavia solo un salto insicuro, anche sopra il fossato più stretto, poiché non è abituato a un simile movimento libero.263

Kant sottolinea ed esorta alla «fuoriuscita permanente dallo stato di minorità», non in maniera rapsodica, ma sistematica, sebbene solo pochi siano riusciti a svincolarsi dalla minorità con un’educazione del proprio spirito:

Ce ne sono pochi a cui sia riuscito, con un particolare lavoro sul proprio spirito, svincolarsi dalla minorità e camminare con una passo sicuro.264

Certo è che non ci si potrà illudere di conseguire la liberazione attraverso una rivoluzione; piuttosto la rivoluzione potrà forse determinare l’affrancamento da un dispotismo personale, ma mai produrre una «vera riforma nel modo di pensare».265 Maggiori possibilità ci sono per un pubblico che sia in grado di illuminare se stesso dato che, se gli viene concessa la libertà di farlo è un processo inevitabile: in tal caso, si potranno trovare alcuni liberi pensatori che, dopo essersi scrollati di dosso autonomamente il giogo della minorità renderanno palese intorno a sé il sentimento di stima razionale del proprio valore e dunque, la vocazione di ciascun uomo a pensare da sé.266 Lo stesso pubblico a cui avevano imposto quel “giogo”, in un secondo momento li costringe a restarvi sotto, istigato da quelli (fra i tutori) che invece risultano incapaci di qualsiasi illuminismo. Questi danni sono prodotti da chi semina pregiudizi che finiscono per ricadere su coloro che l’hanno generati. Per questo motivo un pubblico può accedere gradualmente all’illuminismo. Una

263 Ivi, p.15

264 Ivi, pp.15-17. Lo sviluppo del saggio kantiano evidenzia elementi di convergenza con il racconto

della caverna di Platone, all’inizio del VII libro della Repubblica, quando viene esplicitata una analoga ipotesi: «Se poi qualcuno riuscisse a liberarsi», ripresentando un medesimo impianto metaforico: «[…] solo alcuni sono riusciti a svincolarsi dalla minorità e camminare poi con passo sicuro». Nel testo platonico si legge: «Uno di questi incatenati viene liberato […] è costretto ad alzarsi, a girare la testa intorno, a mettersi in cammino verso l’uscita e a volgere gli occhi alla luce». Kant presenta una situazione analoga vicina al saggio in questione quando si dice: “Se pure qualcuno riuscisse a liberarsi” e “solo pochi sono riusciti a districarsi dalla minorità camminando, al contempo, con passo sicuro” Si legge nel testo platonico: “Uno di questi incatenati viene liberato…è costretto ad alzarsi, a girare la testa intorno, a mettersi in cammino verso l’uscita e a volgere gli occhi alla luce” (Platone, Repubblica, Libro VII, 515 c, 6-8)

265 Ivi, p.17. Va sottolineato che Kant, sullo stesso concetto di rivoluzione del modo di pensare, torna

più volte: ricorre nel saggio La religione nei limiti della semplice ragione, tr. it., a cura di A. Poggi, Modena 1941 ed anche nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura (B XVI, tr. it., p.44)

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rivoluzione potrà conseguire il crollo di un regime di dispotismo personale o di potere, ma non una riforma della mentalità e n nuovi pregiudizi, al contrario, serviranno da briglie per la gran massa di coloro che non fanno uso del pensiero. Le premesse di una pars construens del ragionamento kantiano vengono poste nella tensione antinomica tra Revolution, incapace di procurare un’autentica liberazione e Reform, mutamento del «modo di pensare», obiettivo cui dovrebbe tendere l’uscita (Ausgang) dalla minorità: per conseguire il rischiaramento serve niente altro che, afferma Kant, la libertà, la più inoffensiva che consiste nel fare in ogni campo uso pubblico della propria ragione. Se prevale l’appello a non ragionare si verifica la restrizione e la limitazione della libertà personale, come nel caso dell’ufficiale che invita ad applicarsi ad esercitazioni militari senza ragionare, o l’uomo di finanza che chiede di pagare, astenendosi dal ragionare, o l’ecclesiastico che esorta a credere anziché ragionare. Il solo rimedio sarà quello di rivendicare un uso libero della propria ragione.

Potremo concludere, seguendo l’evoluzione del ragionamento kantiano, che si diventa «maggiorenni», reagendo a pigrizia e viltà, avendo il coraggio e decisione necessari per “uscir fuori” dalla condizione di minorità, indicando unica via possibile perché ciò si realizzi è fare uso pubblico della propri ragione. Avendo il coraggio di «pensare da sé» si diventa “adulti” e si combina indissolubilmente l’aude con l’esercizio del sapere. Per divenire «maggiorenne», in cui il sapere si configura come un atto di coraggio, è possibile connettere il legame tra due universi concettuali considerati nella tradizione culturale dell’Occidente fino a questo testo Kantiano, a volte contraddittori e incompatibili: l’ambito del conoscere, con quello della volontà, la teoria con la prassi, l’ambito cioè con cui si organizza la conoscenza e quello con cui si organizza l’azione, il dominio della volontà. Per «sapere», è necessario «audere», nel senso che se si vuole conoscere, si deve «aver coraggio». Dunque «l’attitudine conoscitiva» non è di per sé sufficiente per conoscere, esattamente come non lo è «crescere la conoscenza», se non viene accompagnata, dice Kant, da una precisa scelta di carattere etico, come l’aver coraggio, ad esempio, senza cui non c’è il sapere. E’ come se la conoscenza si determinasse alla sola condizione che sussistano coraggio, ardimento, altrimenti si rischierebbe di restare nella condizione di minorenni.

La strada da percorrere è una soltanto e consiste nel «fare uso pubblico della propria ragione» sottraendosi con ciò alla tutela di chi pretenderebbe di pensare al nostro

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posto. In questo senso «l’uscita che caratterizza l’Aufklärung è un processo che ci emancipa dallo stato di minorità».267 Lo stesso Foucault rileva come «l’uscita» sia

presentata da Kant in modo ambiguo: da un lato come processo in fieri, dall’altra come obbligo e compito. Infatti dall’incipit del saggio Kant evidenzia come l’uomo sia responsabile del suo stato di minorità responsabilità dell’uomo che potrà abbandonare solo «grazie ad un cambiamento che volontariamente opererà su se stesso».268