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2. L’esercizio critico di «pensare da sé»

2.5. Le «massime del pensare»

Un analogo concetto di Illuminismo, per certi versi identico, sebbene più accurato e diffuso, viene riproposto da Kant in un altro passo cruciale della Critica della

facoltà del giudizio nel quale raffigura le tre massime del pensiero, del comune

intelletto umano. Questa volta l’Aufklärung interviene nel pieno della Deduzione

dei giudizi estetici. Proprio nel § 40 Kant prende in esame le massime «del senno

comune» di ciò «che gli uomini hanno in comune».443In tale contesto esse non

partecipano propriamente alla critica del gusto, ma possono servire da chiarimento dei suoi principi444 e sono:

1. «pensare da sé»; 2. «pensare mettendosi al posto al posto di ciascun altro»; 3.

«pensare sempre in accordo con se stessi». Afferma Kant nel passo testuale:

La prima è la massima del pensare libero da pregiudizi, la seconda quella del pensare ampio, la terza di quello conseguente. La prima è la massima di una ragione non mai passiva. Si chiama pregiudizio la tendenza alla passività, e quindi all’eteronomia della ragione e il maggiore tra tutti è di rappresentarsi la natura come non sottoposta alle regole che l’intelletto pone a fondamento di essa mediante la sua propria legge essenziale: vale a dire la superstizione. La liberazione dalla superstizione si chiama illuminismo*, poiché, sebbene questa denominazione spetti anche alla liberazione da pregiudizi in genere, quello merita di esser chiamato pregiudizio per eccellenza (in sensu eminenti), in quanto la cecità in cui la superstizione trascina, richiedendola anzi addirittura come un obbligo, rende riconoscibile in modo eminente il bisogno di essere guidati da altri e quindi lo stato di una ragione passiva.

443 E. Garroni, Estetica.Uno sguardo attraverso, Milano,1992, p. 200, in A.De Simone, Tra

Gadamer e Kant.Verità ermeneutica e cultura estetica, Quattroventi, Urbino 1996, p.252

444 I.Kant. Critica della facoltà del giudizio,158, tr. it., a cura di E.Garroni e h.Hohenegger, §40,

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In nota al paragrafo Kant aggiunge:

[…] si vede subito che l’illuminismo è cosa facile in thesi, ma assai difficile in hypotesi, poiché l’essere non passivi con la propria ragione, ma dare sempre la legge a se tessi, è qualcosa di assai facile per l’uomo che vuole essere adeguato solo al proprio scopo essenziale e non pretende di sapere ciò che sta al di là del proprio intelletto; ma, dal momento che il tendere a quest’ultima cosa non può difficilmente essere evitato e che non mancheranno mai tra gli altri coloro che assicurano con grande sicurezza di poter soddisfare questo desiderio di sapere, allora deve essere difficilissimo mantenere o realizzare l’elemento semplicemente negativo (che costituisce il vero e proprio illuminismo) nel modo di pensare soprattutto quello pubblico).

Questo passo non costituisce una precisazione incidentale nell’ambito dei giudizi di gusto, ma dimostra il progresso di auto-consapevolezza compiuto dalla ragione dall’onda della Dialettica trascendentale e, la corrispondenza tra idee trascendentali e le tre massime appare labile non perché si è assopita o illanguidita nella contemplazione del bello, piuttosto ha rafforzato la prospettiva della domanda critica. L’illuminismo dunque rappresenta non solo l’habitus di un soggetto che si sottrae al pregiudizio e peraltro, difficile da acquisire, ma anche il primo elementare stadio della critica in cui la Dialettica trascendentale espelle dall’orizzonte della ragione il presupposto metafisico, predisponendo a sé le sue possibilità conoscitive.445 Le massime infatti sono non solo precetti, ma situazioni della

ragione che acquisisce consapevolezza. In questo passo il richiamo allo scritto del 1784 viene rafforzata e ciò in modo particolare prendendo in considerazione il pregiudizio e la sua negazione che rinvengono una forma privilegiata, la superstizione.446 Quest’ultima, forma più alta del pregiudizio sta nel rappresentarsi

la natura come non sottoposta alle regole che l’intelletto pone a suo fondamento mediante la sua propria legge essenziale. Per questo l’Aufklärung «è facile in tesi ma difficile in ipotesi», è difficile informare il modo di pensare collettivo, è qualcosa che troverà sempre, di fronte a sé, una debolezza, un’ignavia del pensiero che chiede una guida e male sopporta l’autonomia.447

Aufklärung, come modo di «pensare da sé» libero dal pregiudizio, nel quale è invece

insita la tendenza all’uso passivo della ragione, diviene la massima dell’intelletto, per la sua portata gnoseologica, di ciò che Kant stesso definisce, nella nota seguente,

445 F.Fraisopi, Adamo sulla sponda del Rubicone. Analogia e dimensione speculativa in Kant,

Armando, Roma, 2005, p.379

446 F. Fraisopi, op.cit. p.221

447 Di ignavia ratio, Kant parla in un passo della Critica della ragion pura quando afferma che “Il

primo danno che deriva dall’assunzione di un’idea d’un essere supremo, anziché come semplicemente negativa, come costitutiva, è l’ignavia della ragione” (I.Kant, Critica della ragion pura, A 689/B 717, tr.it., p.536)

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«sensus communis logicus»: estirpando il pregiudizio, la ragione si dimostra attiva. Se dunque il «pensare da sé» risulta alieno dal pregiudizio, si identifica a quella facoltà di giudizio (Urteilskraft) autonoma di cui è maestra e scolara la ragione stessa e il saper giudicare, come Urteilskraft, come momento attivo, è ciò che si oppone all’autorità pregiudiziale delle sentenze e detti.448 E’ questo l’apice teoretico

e pedagogico della critica della ragione: anche al di là di orizzonte storico e teoretico in cui si pretende di collocarla, l’Auklärung, come autonomia, come ragione che domanda che sa giudicare e si sa orientare mostra un interesse antropologico. Nella pagina kantiana della Critica della facoltà del giudizio, la nozione del senso

comune appare permeata di una complessità e sovrapposizione di significati. Come

afferma Gadamer, il sensus communis449 non solo perde nella modernità ciò che lo

legava alla tradizione etico-politica dell’umanesimo (per il quale rappresentava «un momento del vivere sociale»,450 ma in Kant «viene completamente separato dalla

filosofia morale»451 in quanto il carattere imperativo proprio della moralità «esclude

radicalmente il confronto con altri»,452 inoltre, anche in relazione all’impianto

stesso del criticismo (che aveva indotto Vico a individuarlo come forma di saggezza esperienziale capace di fare accedere alla verità), Gadamer sostiene che, anche un possibile uso logico del sensus communis non contiene più kantianamente alcun “principio proprio” essendo la sua funzione estranea alla dottrina trascendentale del giudizio.453 Diviene pertanto una facoltà teoretica di giudicare accanto alla

coscienza morale e al gusto. Dunque, se il sensus communis, viene ricondotto alla «capacità di giudizio» di sussumere un particolare sotto un universale, e riconoscere

448 I.Kant, Logica, (a cura di). L. Amoroso, Laterza, Roma-Bari 1984, pp.69-70

449 Nel corso del XVIII secolo il sensus communis fu spogliato del suo aspetto politico e perdette

significato critico, indicando così una facoltà teoretica, la capacità teoretica di giudicare che si poneva accanto alla consapevolezza morale (coscienza) e al gusto. Il sensus communis venne così subordinato a una divisione delle facoltà fondamentali 3 divenne anch3e campo dell’estetica. (H.G.Gadamer, Verità e Metodo, a cura di G.Vattimo, Bompiani, Milano 1960 p.50). Ciò spiegherebbe il motivo per cui nel settecento tedesco venga connesso al concetto di giudizio, la facoltà di giudicare, che mira a rendere adeguatamente il termine latino Judicium, inteso come dote fondamentale dello spirito. Così se ricondotto alla capacità di giudizio di sussumere un particolare sotto un universale, di riconoscere qualcosa come caso particolare di una regola generale, secondo la nota distinzione, il concetto di senso communis riceve restringimento. Per Gadamer il giudizio non può essere insegnato in termini generali, ma deve esercitarsi caso per caso e in questo è una facoltà analoga ai sensi; è qualcosa che non si può imparare non c’è alcuna dimostrazione in base a concetti che possa dirigere l’applicazione di regole a casi particolari (H.G.Gadamer, Verità e Metodo, p.55)

450 H.G.Gadamer, Verità e Metodo, cit. p.56 451 H.G.Gadamer, op. cit. p.57

452 Ibidem

453 A. De Simone, Tra Gadamer e Kant. Verità ermeneutica e cultura estetica, Quatroventi, Urbino

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la distinzione kantiana, riceve un restringimento di significato e non trova «collocazione alcuna». Quando Kant parla del gusto come vero «senso comune», non tiene più conto della tradizione politico-morale, ma si uniscono due momenti: «l’universalità che spetta al gusto in quanto prodotto del libero gioco delle nostre facoltà conoscitive e non è limitato a un settore specifico come uno dei sensi esterni» e «comunicabilità» in quanto, secondo Kant fa astrazione da tutte le condizioni soggettive nel senso di private, come gli stimoli sensibili e l’emozione. L’universalità di questo “senso”, quindi, «è determinata in entrambe le direzioni in modo negativo, mediante ciò da cui esso fa astrazione, e non positivamente attraverso ciò che rende possibile la comunicazione e fonda l’accordo».454

Nel passaggio cruciale del § 40 della terza Critica, appare la portata critico ermeneutica della tesi speculativa kantiana, sul carattere intersoggettivo e comunicativo del giudizio di gusto455 e del senso comune. Kant infatti recupera il

senso comune, riattualizzato in chiave trascendentale, di cui esalta il valore sociale «che nel giudicare, non si risolve in mero procedimento tecnico (quello proprio del buon senso che applica le regole in concreto), ma diventa la radice del confronto con i giudizi altrui, e dunque, apertura dialogica, instaurazione di possibili relazioni tra i soggetti giudicanti».456 Ecco che il sensus communis differente e distinto dal

sensus privatus può esser considerato un senso comunitario «e non solo come

espressione di una comunità già data, ma in modo più radicale, quale tendenza ad esprimere il bisogno di una comunità estetica o riflettente ancora da realizzare».457

La sottolineatura di Kant nel §40 richiama il senso comune come senso comunitario capace di essere condiviso e comunicato universalmente quando afferma che «per

sensus communis si deve intendere l’idea di un senso che abbiamo in comune, cioè

di una facoltà di valutare che nella sua riflessione ha a riguardo (a priori) nel pensiero al modo rappresentativo di ogni altro per mettere a fronte il suo giudizio con la ragione umana e sfuggire a un’illusione che avrebbe un’influenza svantaggiosa sul giudizio […] Ora questa operazione della riflessione sembra essere toppo artificiale per attribuirla a quella facoltà che chiamiamo senso comune, ma di

454 H.G.Gadamer, op. cit., p.69

455 Cfr. A. De Simone, «Senso comune, metacritica del gusto e filosofia della comunicazione

estetica: Gadamer e la Kritik der Urteilskraft di Kant», in Tra Gadamer e Kant.Verità ermeneutica e cultura estetica, Quattroventi, Urbino 1996, pp.195-262

456 F. Menengoni, L’apriori del senso comune in Kant: dal regno dei fini alla comunità degli uomini,

in «Verifiche» 19, 1990, pp.40-41

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fatto essa sembra tale solo se la si esprime in formule astratte».458

Il senso comune avrebbe «la sua sede in un soggetto trascendentale che non può essere pensato al modo di un soggetto individuale, ma pensato al modo di un soggetto collettivo, una comunità trascendentale»459 (di una pluralità di soggetti

uniti fra loro). Di conseguenza, il senso comune non sarebbe qualcosa di «semplicemente comune a ogni singolo», ma qualcosa che tutti noi uomini presupponiamo di avere in comune», una facoltà di valutare che nella sua riflessione tiene conto, a priori del giudizio di ogni altro. Ciò accade secondo Kant «grazie al fatto che il proprio giudizio viene accostato ai giudizi degli altri, non tanto a quelli effettivi, quanto piuttosto a quelli semplicemente possibili e, ci si mette al posto di ciascun altro, «semplicemente astraendo dalle limitazioni che ineriscono contingentemente al nostro proprio giudizio»:460 In tal senso, il soggetto

trascendentale dell’esperienza estetica diventerebbe il «noi», come sostenuto da Kant, quando afferma che il giudizio del gusto deve essere considerato «non egoistico», bensì «pluralistico» per sua natura. Kant fa emergere una

consapevolezza moderna dell’importanza dell’intersoggettività della

comunicazione attivata mediante l’esercizio del giudizio estetico,461 recuperando

l’aspetto socializzante del senso comune volto ad indagare sul piano trascendentale «quelle strutture che nel soggetto stanno a fondamento di ogni sua possibile rappresentazione e comportamento, privato o pubblico, logico o paretico di qualsiasi forma comunitaria».462 Le tre «massime del senso comune», raffigurate

nella terza Critica, che nelle intenzioni di Kant indicherebbero «ciò che gli uomini hanno in comune»,463 sono una delle testimonianze significative nell’ambito del

tema dell’intersoggettività: esse dovrebbero consentire all’uomo di essere un attore sociale protagonista e rappresentante di un senso comune (come sentimento di una comunità formata tra uomini).

Come indicato in premessa di paragrafo, le «massime del senso comune» (des

gemeinen Menschenverstandes), formulate nel §40, che pur non partecipando

458 I. Kant, Critica della facoltà del giudizio, §40,157, tr. it., p.130

459 L. Amoroso, Senso e consenso. Uno studio kantiano, Napoli 1984, p. 177, in A. De Simone, Tra

Gadamer e Kant.Verità ermeneutic e cultura estetica, Quattroventi, Urbino 1996, pp.250-252

460 I. Kant, Critica della facoltà del giudizio, §40,157, p.130

461 Cfr. A. Philonenko, Introduction a E. Kant, Critique de la Facultè de Juger, Paris, pp. 7-16, 1989,

in A. De Simone, op. cit. p.251

462 F. Menengoni, L’apriori del senso comune in Kant: dal regno dei fini alla comunità degli uomini,

in «Verifiche» 19, 1990, p.41

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propriamente alla critica del gusto possono servire alla spiegazione complementare dei suoi principi, se poste in relazione con il senso comune, assumono ciascuna il proprio significato.

La prima massima, «pensare da sé», riferita all’intelletto, come lo stato di una ragione mai passiva, indica la massima del modo di pensare libero da pregiudizi e superstizione - che rappresenta la autentica tendenza dell’Aufklärung dall’eteronomia della ragione: Essa è anche principio razionale dell’Aufklärung che svela l’autonomia della stessa ragione nel porre e risolvere la domanda.

«Il maggiore di tutti (i pregiudizi) è di rappresentarsi la natura come non sottoposta alle regole che l’intelletto pone a fondamento di essa mediante la sua propria legge essenziale, vale a dire la superstizione: la liberazione dalla superstizione si chiama illuminismo».464

La seconda massima del modo di pensare, «pensare nella posizione di ogni altro», riferita alla capacità di giudizio, rappresenta il modo di pensare ampio, e che riflette sul proprio giudizio dal punto di vista universale. Infatti tale espressione «non riguarda la facoltà della conoscenza, ma il modo di pensare per cui se ne fa un uso finalistico» cioè di farne un uso conforme agli scopi:

e per piccoli che siano l’estensione e il grado cui giungono i doni naturali dell’uomo (il talento), indica tuttavia un uomo dal modo di pensare ampio, se egli si pone al di sopra delle condizioni soggettive private del giudizio entro le quali molti altri sono come bloccati, e riflette sul suo proprio giudizio da un punto di vista universale(che egli può determinare solo mettendosi dal punto di vista degli altri.465

Una volta acquisita la prima massima (liberandosi da ogni pregiudizio e rendendosi attivo), l’atteggiamento dell’uomo non sarà ampio, se non si eleverà al di sopra delle condizioni private e soggettive del giudizio; inoltre, esso dovrà riflettere sul proprio giudizio mettendosi, dal punto di vista altrui, ossia nel punto di vista universale. La seconda massima è quella che Kant attribuisce alla capacità di giudizio sia in quanto «riguarda non il bagaglio di talenti intellettuali (ingegno produttivo, sagacia,, originalità di pensiero), ma il modo di farne, piccolo che sia, un uso in concreto»,466 sia perché mette in luce la dimensione dell’intersoggettività,

cioè si riferisce non al giudizio privato che viene dai singoli sensi, ma ad un giudizio pubblico», cioè a quella capacità di giudizio «che si consegue quando si abbandona

464 I.Kant, Critica della facoltà del giudizio, 158, §40, tr. it., p.130 465 I.Kant, op. cit. § 40, 159, p.131

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la prospettiva egoistica dell’almeno per me per conquistare quella dimensione pluralistica che si ottiene solo mettendosi dal punti di vista degli altri».467 Ecco che

questa seconda massima ha un carattere pluralistico, tipico del senso comune, quella facoltà di giudicare che tiene conto del giudizio altrui e quindi del pensiero dell’altro.

La terza massima del pensare, «pensare sempre i accordo con se stessi», riferita alla ragione, libera e autodeterminantesi, già pervenuta a saggezza, indica il modo

conseguente (logico), consequenziale di pensare.468 E’ la dimensione più complessa

e «più difficile da raggiungere», ma non può esserlo «solo in forza del legame delle prime due e dopo una loro frequente osservanza divenuta un’abilità».469

Resta assodato, come osserva Kant, che la più importante rivoluzione nell’interno dell’uomo è «la sua uscita dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso».470 Mentre fino a quel momento, altri pensavano per lui, ed egli soltanto li

imitava o si lasciava condurre con le dande, ora invece egli osa camminare con i propri piedi sul suolo dell’esperienza, quand’anche ancora con qualche titubanza. Le potenzialità eristiche presenti nella prima parte della terza Critica, in particolare nella riflessione sviluppata da Kant sul rapporto-connessione tra capacità di giudizio (Urteilskraft), senso comune (Gemeinsinn) e gusto (Geschmack) hanno orientato criticamente, come osserva De Simone,471 la lettura della filosofia politica

kantiana in alcune personalità della Teoria del giudizio politico (Theorie der

politischen Urteilskrft), tra cui Hannah Arendt nelle riflessioni sul “giudizio”.472 2.5.1. Giudizio e sensus communis

467 Ibidem

468 I.Kant, op. cit., § 40, 160, p.131; I. Kant, Antropologia pragmatica, Laterza, Roma-Bari 2009,

p. 117

469 I.Kant, op. cit., § 40, 160, p.131

470 Cfr.I. Kant, Antropologia pragmatica, tr. it. a cura di G.Vidari, riv. da A.Guerra, Laterza, Roma-

Bari 2010, § 59, p. 118

471 De Simone, op. cit., pp.250-257

472 H.Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1971; Teoria sul giudizio politico. Lezioni

sulla filosofia politica di Kant, 1987). Gli interpreti del “giudizio politico”, muovendosi tra ermeneutica, filosofia politica e criticismo ritengono di rintracciare nella trattazione kantiana del giudizio estetico i fondamenti di una “diversa filosofia politica” basata sulle connessioni funzionali tra capacità di giudizio, senso comune e gusto e sul legame che le avvince alla sfera pubblica del vivere sociale e dell’agire politico degli uomini. Per questi, la possibilità dell’interpretazione della capacità di giudizio in senso politico consiste in un ‘estensione di tale capacità cui Kant dedica la terza Critica. “Il giudizio è capace di cogliere l’universale, il bello o il fine nel singolo caso concreto e di rendere comunicabile questa scoperta. In questa forma di comunicazione intersoggettiva, di tipo non teoretico, questi interpreti fondano l’analogia tra giudizio riflettente e politico. (Cfr. l’interessante trattazione, in precedenza indicata, che il filosofo De Simone dedica a tale questione)

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L’attenzione e l’interpretazione in senso politico della capacità di giudizio da parte dei teorici della politische Urteilskraft è rivolta alla nozione kantiana di senso comune risponderebbe a un duplice bisogno. Da un lato, quello espresso dalla cultura contemporanea «di individuare un accesso ad un ordine problematico complesso, caratterizzato da strutture capaci di rendere ragione del convenire degli uomini su principi universali in base a un comune modo di sentire a monte del processo conoscitivo, al trarre conclusioni più o meno apodittiche, all’argomentare, al dialogare come condizione di possibilità comune a queste esperienze»,473 e non

a procedimenti di tipo scientifico deduttivi; dall’altro, al bisogno attuale «di individuare strutture emozionalmente o razionalmente connotate che siano capaci che siano capaci di orientare, dirigere o spiegare i fenomeni che si danno nel mondo dell’agire umano, sia esso inteso come agire individuale o come agire collettivo, sociale politico».474 Il giudizio in tal senso, non è il carattere logico formale entro

il quale si iscrive l’analisi del discorso, concetti, giudizi, sillogismi che la logica, a partire da Aristotele, ha proficuamente prodotto. Piuttosto, è inteso come facoltà di discernimento da parte di individui responsabili a contatto con l’esperienza varia e mutevole delle cose umane. Si tratta di una logica della filosofia in nome della quale è possibile assegnare al pensiero che riflette nel e sul mondo, una sostanziale autonomia di metodo e comportamento. In questa prospettiva, il giudizio si colloca tra vita teoretica e vita pratica, costituendo un transito necessario, complesso e problematico, aperto al confronto. In tal senso, pensare con una mentalità ampia, vuol dire educare la propria immaginazione a “recarsi in visita”, cioè” astrarre dalle limitazioni attinenti al proprio giudizio”, “un elevarsi al di sopra delle sue condizioni soggettive”, trascurando quell’interesse personale che, a detta di Kant, non è né illuminato, né capace di illuminismo, ma costituisce un favore limitativo. Da un lato, a Kant si è riconosciuto «il merito di aver guardato nella direzione della