2. L’esercizio critico di «pensare da sé»
1.5. Si può «insegnare a pensare?»
Se accettiamo l’ipotesi che persone diverse, poste a confronto, “pensano diversamente”, è evidente che c’è “chi pensa meglio di altri”. Questo «meglio», «il miglior modo di pensare», individuato da Dewey nel pensiero riflessivo, una delle mete di più alto livello della formazione scolastica, che si sostanzia, nella sua lezione, nell’interesse di come sviluppare la capacità di pensare dell’alunno e come crearne le condizioni che lo promuovono o e lo mettono alla prova, porta ad interrogarci se e come di può “insegnare a pensare”. Un pensiero, afferma Dewey, astratto, non connesso con “un aumento di efficienza per l’azione” e con l’imparare un po’ di più su noi stessi e sul mondo nel quale viviamo, zoppica. Pensare è un attivo e dinamico processo di ricerca che richiede allenamento, esercizio delle proprie capacità riflessive orientato all’interrogazione socratica per l’acquisizione di “buoni abiti per pensare”. L’interazione vitale tra soggetto e oggetto (ambiente) attraverso l’esperienza vissuta funge da «processo di ricostruzione e riorganizzazione continua, a partire dal potenziale di vita, la curiosità e la tendenza autonomia dell’immaturo».578 Ciò significa che per “insegnare a pensare” sono
necessarie sempre due dimensioni correlate, quelle sociali e quelle cognitive che producono l’azione riflessiva della mente in grado generare pensieri, valutare, deliberare. Il profilo dell’immaturo tracciato da Dewey, di chiara evocazione
576 J. Dewey, Come pensiamo, op. cit. p. 142 577 Ivi.p. 145
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kantiana, descrive non colui che è “inferiore” ma chi deve ancora maturare per poter sviluppare ed esprimere al meglio tutte le sue potenzialità favorite dall’azione del “maestro” che permetterà di “estrarre l’elemento intelligente della sua esperienza”. Il ruolo determinante giocato dall’educatore consiste nell’aiutare “l’immaturo” a maturare, a formare il proprio pensiero: in tal senso l’atto del pensare ci spinge ad andare oltre, al di là dei nostri orizzonti e di immaginare e vedere oltre, ad essere “intellettualmente interessati”. In ciò l’educazione, sostiene Dewey, aiuta a “emancipare i giovani dalla necessità di sostare in un passato superato”. Il concetto “immaturità” non ha a che fare con un “giudizio di valore” o delle sue capacità: semplicemente in alcune fasi e situazioni è diverso, è un essere in divenire che deve ancora maturare, acquisire esperienze e conoscenze per diventare adulto
consapevole e autonomo (la coincidenza con la nozione di minorità kantianamente
intesa si intreccia ed è influenzata da Aristotele nella distinzione tra il potere dell’essere e essere in potenza, e dal concetto piagetiano di vita come sviluppo. Secondo l’approccio piagetiano, infatti, il pensiero si modifica e progredisce qualitativamente all’interno di un ambiente di sviluppo attraverso una maturazione delle abilità mentali di complessità crescente rendendo possibile prestazioni cognitive sempre più elevate, entro un ambiente di sviluppo che trova la sua variabile più significativa nelle strutture intellettuali elaborate dal soggetto in un certo tempo. Conseguenza dovrebbe essere che persone di età diversa dovrebbero pensare a livelli di astrazione razionale diversi e persone di età uguale dovrebbero trovarsi allo stesso stadio cognitivo indipendentemente dall’ambiente educativo in cui crescono. Ma di fatto la realtà è diversa579 infatti, stando a quanto detto, le
differenze individuali (per esempio tra un pensare adulto e un pensare infantile) determinano la qualità globale del pensare e “performance intellettuali”580 particolari. Il mancato raggiungimento da parte di adulti dello stadio ipotetico- deduttivo, previsto dalle fasi evolutive stadiali piagetiane, e la conseguente non piena capacità di padroneggiare operazioni formali complesse, non dipenderebbe necessariamente da una “caduta” sul versante cognitivo, ma anche da altri fattori, come l‘ambiente, la «limitata familiarità e conoscenza posseduta degli ambiti disciplinari testati»,581 la scarsa motivazione e l’azione di un «povero
579 Cfr. M.Santi, Ragionare col discorso, p.32 580 Cfr. Ibidem
581 McShane, «Poetry, prose and Piaget», in R.G.Fuller, Piagetian programs in higher education,
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condizionamento sociale».582 Molti individui mostrano difficoltà adoperare a livello
di pensiero ipotetico deduttivo formale quando, ad esempio, affrontano il nuovo o ambiti sui quali non si è ancora acquisito una retroterra di conoscenze sufficiente a gestire produttivamente contenuti e procedure e sviluppano modalità e strutture di ragionamento alternative a quelle puramente formali, che, nel pensare quotidiano, funzionano bene e vengono utilizzate con un’economia di «sforzo cognitivo»,583
soprattutto in quei contesti che non richiedono un livello formale di ragionamento, impiegando questa logica quotidiana.
Che solo il trenta per cento circa delle persone ragiona normalmente a livello formale del pensiero, come sostiene Pontecorvo,584 non può costituire scredito del restante settanta percento e dirimere la questione: è invece interessante riconoscere la pregnanza, il valore i meccanismi, le procedure le funzioni le potenzialità e i limiti di tali forme di ragionamento e cercare di comprendere il peso nei processi di apprendimento.
Il compito dell’intervento educativo deve consistere nel creare le “migliori condizioni” affinché la qualità globale del pensare non venga in qualche modo inficiata a livello di metacognizione, di atteggiamenti, di motivazioni, di contesti di apprendimento e affinché tutti gli studenti possano valorizzare appieno le loro intelligenze, realizzare apprendimenti significativi, costruttivi e motivati, orientando spazi riflessivi del pensare nei quali la complessità delle dinamiche del pensiero e la sua multidimensionalità vengano favorite. Ecco allora che «insegnare a pensare» diventa possibile a patto di potenziare questa dimensione interattiva, reimpostando il rapporto tra contenuti di conoscenza e processi del pensiero cogliendoli nella dialetticità, avvalorando l’intendimento kantiano secondo il quale contenuti senza i processi sono vuoti e i processi senza contenuti sono ciechi.
L’acquisizione di informazioni è pedagogicamente giustificabile e
psicologicamente rilevante nei limiti della sua risoluzione nell’esercizio del pensiero oltre la frammentarietà e la dispersione delle molteplici “materie scolastiche”.585 Il rapporto tra contenuti di conoscenza e processi del pensiero,
582 Development and learning: Complementary or conflicting aims in humanities education?, in R.G.
Fuller in Naverson 1980 in Piagetian programs in higher education, Lincoln, NE,ADAPT Program,1980, in M. Santi, op. cit. p.33
583D.N. Perkins, R.Allen, J.Hafner«, Difficulties in everyday reasoning», in W. Maxwell, Thinking,
Philadelphia, Franklin Istitute Press,1983, in M. Santi, p.33
584 C. Pontecorvo, «Interazione di gruppo e conoscenza», in Età evolutiva, 24, pp. 85-95,1986 585 Metelli di Lallo, Analisi del discorso pedagogico, Marsilio, Padova,1966, p.572-573
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solleva la questione di «insegnare a pensare» “meglio”, solo a coloro che sanno già “pensare bene”, o altrimenti detto, non è possibile insegnare a pensare senza chiamare in causa un bagaglio di conoscenza, o senza acquisire conoscenza senza coinvolgere processi di pensiero. Il problema è noto nella prassi scolastica in cui l’efficacia della progettazione didattica viene misurata sulle prestazioni dei più “bravi”, coloro che di fatto traggono comunque il vantaggio maggiore e più significativo dalla scolarizzazione quando invece si dovrebbe riflettere sul come dell’apprendere e del conoscere. La modalità del pensare, cioè «il come e il suo utilizzo è un aspetto determinante della qualità globale e del suo incremento, connesse alle dinamiche di transfer e di accesso alla conoscenza»586 mediante cui il soggetto riesce a far uso produttivo e creativo di quanto appreso Ma per poter trasferire le conoscenze (dichiarative e procedurali) a situazioni nuove, occorre poter attingere a delle informazioni vecchie, “relazioni operanti”, non “statiche” giacché il quantum enciclopedico di conoscenze, memorizzato meccanicamente, non è garanzia sufficiente del progresso cognitivo e non incrementa i processi del pensiero e di apprendimento, ma alimenta il bagaglio di conoscenza inerte «Inert
Knowledge» cioè quell’insieme di informazioni che rimane immobile e
sostanzialmente muto negli apprendimenti successivi, dunque non trasferibile al momento opportuno. Perché la conoscenza acquisita sia effettivamente produttiva e utile, contribuisca cioè a fare la differenza tra un “pensatore esperto” da un “pensatore principiante”, essa deve esser prima di tutto disponibile, trasformabile e riutilizzabile in contesti diversi.587 Infatti il grado di elaborazione, plasticità o ricchezza di connessioni tra le unità di conoscenza è un fattore determinante perché tale conoscenza sia dinamica. Una buona organizzazione della conoscenza, come sostiene Polya,588 è un fattore importante più della stessa conoscenza che consente al soggetto di avanzare la qualità globale del pensare, agire nelle zone d’ombra, risolvere in modo autonomo perché si possa parlare di effettivo progresso nel pensare. Perché la scuola possa rispondere a questo altissimo compito racchiuso
586 Il transfer è “la capacità che uno ha di attingere o di accedere alle proprie risorse intellettuali nelle
situazioni in cui queste risorse possano essere rilevanti” (R.S. Prawat, «Promoting access to Knowledge, strategy, and disposition in students: a research syntesis», in Rewiew of Educational Research, 59-1, pp.1-41, 1989, p.1)
587 L.B. Resnik, «Imparare dento e fuori la scuola», in C. Pontecorvo, A. M. Ajello, A.M., C. Zucchemaglio, I contesti sociali dell’apprendimento. Acquisire conoscenze a scuola, nel lavoro, nella vita quotidiana, LED, Milano 1995, p.p. 61-83)
588 G. Polya, Introduction and analogy in mathematic, Princeton NJ, Princeton University Press,
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nella domanda “come si può insegnare a pensare?” occorre, sostiene Dewey, formare personalità aperte, curiose intellettualmente partecipative con attori-autori ai processi decisionali della comunità. Il ruolo determinante svolto dagli insegnanti consiste nella capacità di saper osservare, ascoltare, interrogare le situazioni in cui gli studenti manifestano se stessi, cogliere il loro modo di esprimere e saper fare, nel ruolo di guida e non di controllo La stessa progettazione intelligente sul piano educativo presuppone una intenzionalità riflessiva che comporta un’epochè, “fermarsi a pensare” accettando la sfida dell’esperienza, anticipando le complesse variabili. In fondo non è poi questa la situazione che oggi viviamo nel sistema formativo? La pretesa in qualche modo di continuare a credere nel sapere, in un’esperienza codificata, sistematizzata e collaudata che si possa trasmettere in modo uniforme, offrendo ancora una visione del mondo salda, completa e enciclopedica.
Alla luce di queste considerazioni, la nostra attenzione si rivolge a ricercare quello stile di pensare che consente di trattare in modo coerente e razionale «fatti e pensieri». Analizzeremo come favorire la costruzione di «abiti di pensiero» critico e riflessivo utili alla formazione del “miglior modo di pensare” attraverso la capacità di «cambiare i propri modi personali fino a renderli più efficienti fino a che no riescano a far meglio il lavoro che il pensiero può fare e che altre operazioni mentali non saprebbero fare altrettanto bene».589 L’habitus mentale, con il quale il
soggetto affronta creativamente il reale e l’ignoto, vedremo, nella lezione deweyana, coincidere con il pensiero riflessivo.
192 2. L’abito del pensiero