Quando si parla di Illuminismo, c’è sempre un riferimento alla luce che evoca la pretesa della ragione adulta di comprendere e con le «immagini di luce» si potrà trasmettere l’esperienza dell’inizio, illuminare il mondo, rendendo l’uomo padrone
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e protagonista del proprio destino, emancipandolo da ogni dipendenza. La parabola simbolizza la presa di coscienza del mondo che dall’oscurità transita verso la luce, di cui il possesso del sapere è simbolo. La luce diviene l’esito di una pratica che «porta fuori», fa uscire da una precedente condizione negativa. La concettualizzazione dell’illuminismo approda a Kant e «si compie proiettando la dinamica insita nell’immagine di rischiaramento».213
Approfondendo il significato del sostantivo Aufklärung, «rischiaramento» utilizzato da Kant214 ed esplorandone i richiami simbolici connessi alla nozione di “luce”, come ciò che rischiara, come ciò che si manifesta e consente di vedere, l’argomentazione può assumere una pregnanza maggiore. Tenendo ferma l’associazione «Illuminismo» e «illuminazione»215 e andando alla radice linguistica
e concettuale dei due termini si intende dare rilevo più che a lux, che indica una realtà, un fatto, a lumen, che indica un processo un’attività, quella di portare alla luce e fare chiarezza, a supporto della nostra assunzione di Aufklärung come «rischiaramento».
L’antichissima metafora della luce, fin dalle sue origini complessa e polisemica, ripresa dall’Illuminismo come età dei Lumi, contiene il senso dell’«attualità del presente», parafrasando Foucault. Quando la luce rischiara, fa vedere secondo una luminosità che retrocede la luce che prima era quasi al rango di tenebra: l’attualità della luce odierna oscura la luce di ieri. Ma nel tempo stesso, ogni luce, pur fioca, è già luce, anche se potrà aumentare. Già ieri, era oggi, perché proprio sull’asse del presente quella fioca luminosità si fa largo nelle tenebre e si attesta come luce. Così, la luce, nell’attualità del suo illuminare, è sempre un oggi che, tuttavia ritrova le tracce nelle tenebre di ieri e anticipa un futuro di maggiore rischiaramento.216 La
213 A. Tagliapietra (a cura di), Che cos’è l’illuminismo: i testi e la genealogia del concetto, B.
Mondadori, Milano 2000, Introduzione, p.XXXV
214 Come ricorda il Paton, l’unico modo per penetrare nel criticismo è quello di «fermare la nostra interpretazione di un passaggio nella luce di un altro, fino a che gradualmente l’intero diventa chiaro e se capita che la nostra interpretazione sia contraddetta da altri passi, conviene riprenderla in esame per assicurarsi della sua aderenza o meno al testo» (H.J.Paton, Kant’sMetaphysic of Experience. A commentary on the First half of the “Kritik der reinen Vernunft”, I vol., London, 1961, p.18, in P. Venditti, Filosofia e società, Montefeltro Edizioni, 1983, p.163
215 G. Pasqualotto, Illuminismo e illuminazione, Donzelli, Roma, p.10. L’autore segnala che nella
trazione sono preenti esempi nell’uso che Cicerone e Lucrezio ne fanno (tr.it. G. Bellardi, in M.T.Cicerone, Le orazioni, Utet, Torino 1981, p.943; tr.it. L. Canali, in Lucrezio Caro, La natura delle cose, Rizzoli, Milano 1983
216 Cfr. U. Perone, L’Illuminismo come categoria ermeneutica, in «Hermeneutica», Morcelliana
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luce della ragione non è estranea alla natura, anzi il tema della natura217 nell’età dei
Lumi, teso a definire la razionalità, è parte integrante della cultura perché aiuta a rischiararla. La cultura dei Lumi, probabilmente, resterebbe una «sfera opaca» se non si tenesse conto del significato della sintesi newtoniana, basti pensare, anche fuor di metafora, il fiat lux di Pope, legato al primato dell’ottica. Newton, ricordiamo, non si limitò a unificare in una elegante legge matematica la meccanica celeste di Copernico, Galileo, Keplero, ma segnò una svolta creativa nel completare le leggi dell’ottica fisica, geometrica fisiologica con la pioneristica teoria della luce e dei colori, esempio di metodo. Come osserva Paolo Casini, la ricezione della fisica newtoniana ebbe un’influenza enorme sulla cultura dei Lumi, tanto che la ricerca storica ha dato un diverso spessore alla metafora della luce, non più come espressione retorica di un antico tòpos teosofico, ma come via privilegiata di ricerca per accedere ad un punto di intersezione e convergenza tra ricerca scientifica e riflessione epistemologica.218 Proprio in tal senso, il progresso della conoscenza può connettersi anche, ma non unicamente, agli eventi della rivoluzione scientifica. L’immagine della «luce di natura», associata alla “legge di natura” usata da Locke per indicare la verità iscritta nella ragione umana, diversa dalla rivelazione, maturò nella cultura europea del XVIII secolo «fino a diventare un’espressione convenzionale, veicolo di alcuni tratti caratteristici quali il rifiuto del principio di autorità, la fiducia nella libera critica e nell’esercizio della ragione, le idee di tolleranza e di progresso, la lotta contro la superstizione e il fanatismo».219
L’origine antichissima del termine italiano «luce» risale alla base sumera luh, che significava purificare, di cui si rinviene traccia anche nel greco leukós, cioè «candido» (sulla cui radice era formato l’epiteto indicato da Apollo: lykéios, «che manda il giorno»). Da ciò derivano i termini latini lucere e lucescere, «brillare» e
217 Esiste ormai una nutrita letteratura alla quale non è sfuggita né l’eredità biblica, evangelica, teosofica, magico-ermetica, alchemica insita nell’antica immagine della luce, né la sua parafrasi più recente in senso scientifico come adombrata dal celebre distico di Alexander Pope su Newton: «La natura e le sue leggi sono sepolte nella notte; Dio disse: sia Newton e tutto fu luce». Anche in Scienza nuova (1744), Vico oppone «i tempi illuminati, colti e magnifici» delle nazioni alle «origini dell’umanità...picciole, rozze, oscurissime» e Diderot nella satira Les bijoux indiscrets (1748) introduce i progressi del metodo sperimentale con l’immagine di una «fiaccola la cui luce si spande lontano nell’aria»; Rousseau in Discours sur le sciences et les arts (1750) ricostruì negativamente lo sforzo dell’umanità intenta a «dissipare con i Lumi della ragione le tenebre nelle quali la natura l’aveva avvolta» e d’Alembert tracciò una genealogia dei progressi della ragione facendo risalire ai dotti della Rinascenza «la luce che a poco a poco, per gradi insensibili, avrebbe illuminato il mondo» e attribuì alle matematiche «la diffusione improvvisa e generale della luce» (cfr.ibidem pp.15-16)
218 P. Casini, L’Illuminismo: teorie e pratiche, in «Hermeneutica», Morcelliana 2010, pp.17-18 219 P. Casini, ivi, p. 14
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«cominciare a risplendere». Nel termine latino che indica luce convivono due differenti, ma complementari accezioni: ciò che risplende (in contrasto col buio della notte), che annuncia il giorno e un luogo sottratto al lavoro dei campi, riservato all’epifania del sacro. Entrambe, accomunate dall’intendere la luce sia come ciò che rischiara, brilla, che come processo di manifestazione, come cioè, ciò che rende visibile, consentendo dunque di vedere ciò che altrimenti resterebbe invisibile. Non solo la natura ma anche la sopranatura, ciò che mediante la luce si s-vela, si libera dal velo che la nasconderebbe alla «vista» del nostro intelletto. Riferendoci al termine greco Phos, legato a pháinomai, cioè apparire, mostrarsi, connessa a questa origine etimologica, la luce è sia ciò che appare e ciò che consente di vedere. E’ dunque «rischiaratrice», in quanto rende visibile, ma è anche qualcosa che si manifesta.
La tradizione occidentale permeata della componente greco-latina, identifica il vedere con il conoscere. La metafora alla base di questa definizione è di tipo visivo: passare dall’oscurità della precedente condizione, alla chiarezza portata dal lume ragione che come una luce rischiara e dissolve le tenebre. La superiorità della vista rispetto ad ogni altra esperienza sensoriale che può esercitarsi solo dove sia sostenuta dalla luce, è un tratto della nostra cultura occidentale: basti pensare al linguaggio alle differenze riscontrabili tra il modo con cui viene designata l’attività del vedere e gli oggetti intorno cui si esercita, rispetto ai molteplici significati connessi agli altri sensi. Nel mondo greco classico, la predominanza della vista è evidente dalla identità sussistente tra i termini che designano forme e contenuti del vedere e del conoscere. Pensiamo all’Idéa e l’atto dell’idéin, del «vedere», fulcro dell’attività conoscitiva che consiste nella costruzione di un edificio i cui elementi costituenti sono le idee. Analogamente, tra vedere e conoscere (theorìa, e dunque, visione) usato per designare il modo in cui le idee si organizzano in forma organica e ben strutturata.220 Dalla radice greca, dunque, attraverso la mediazione latina, questo uso si diffonde e giunge fino alle lingue moderne nelle quali si riscontra che ciò che è pertinente alla visione diventa anche requisito della conoscenza. Basti pensare nella lingua italiana i termini italiani «chiarezza», «e-videnza», o
220A tale proposito, M. Heidegger: «Sappiamo che Platone, come in generale i Greci, concepisce il
conoscere autentico come un vedere, theorèin (composto di thèa, «vista», e onìo «vedere») e invero, l’autentico conoscere l’ente nel suo essere viene simboleggiato appunto dal vedere sensibile, dal vedere con gli occhi» (M. Heidegger, L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul Teeteto di Platone, Adelphi, Milano 1997, p.132)
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«brillante-oscuro», o le metafore «panoramica» «illuminazione» nei quali la totalità del vedere o l’instaurazione di una condizione fondamentale per esercitare la vista, quale è la luce, alludono anche alla completezza del conoscere o all’atto del cogliere immediato qualcosa, prima ignoto. Verosimilmente, può dirsi per altri termini come “prospettiva” o “punto di vista”, usati indifferentemente sia in riferimento alla vista o alla conoscenza. La forza di questo legame è anche confermata a altre espressioni linguistiche relative all’universo della visione, come intùito o intuizione, che designano operazioni conoscitive che presuppongono un intus-ire, un “andare dentro”, (con l’udito o il tatto, con l’olfatto o il gusto.) comprensibile se riferito alla capacità che gli occhi possiedono di dar accesso a ciò che è “dentro” la realtà di qualcosa, rendendola visibile.221 Anche nelle lingue moderne come inglese, si
riscontra un’analogia: il termine sharp “brillante”, perlopiù utilizzato per indicare la luminosità, è anche utilizzato per segnare la qualità di un discorso o ragionamento particolarmente chiaro (Peirce); oppure altre espressioni come clear-headed o clear- sighted, in cui la “chiarezza” (clear) è usata come attributo della testa per alludere a un’intelligenza brillante o alla vista, come capacità di vedere distintamente. In sede filosofica, l’universo che unisce «visione, pensiero, verità» assume in Platone i contorni della nostra tradizione, infatti l’identità tra vedere e conoscere viene da lui stesso evidenziata e posta in un passo cruciale dei suoi scritti, l’Apologia di Socrate222: «l’idea, l’essenza, (idéa, éidos) cioè l’aspetto, la veduta
rappresenta la «cosa stessa», cosicché la verità tende a coincidere con la capacità di assurgere alla forma superiore di visione nella quale abita la conoscenza.
221 Cfr. U. Curi, La forza dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p.10. L’atto dell’intuire,
dal punto di vista filosofico, come modo di guardare e insieme di conoscere viene descritto da Severino Boezio, riferito alla conoscenza che Dio ha del mondo: « […] Se è lecito un confronto tra presente divino e presente umano, come voi vedete alcune cose in questo vostro presente temporale, così egli le penetra tutte nel suo eterno[…] Come voi, quando vedete contemporaneamente un uomo che cammina sulla terra e il sole che sorge in cielo, distinguere l’una cosa dall’altra, per quanto le vediate insieme[…] così l’intuito divino, discernendo ogni cosa, non stravolge per nulla la qualità delle cose che sono a lui presenti» S. Boezio, La consolazione della filosofia (a cura di) Luca Orbetello, Rusconi, Milano 1996, p. 231
222 Platone richiamando il motto delfico dice che se si vuole comprendere il significato più profondo
e autentico del motto delfico e quale sia l’ammonimento sotteso «conosci te stesso» (ghnóthi seautón) sarà necessario riferirci al solo esempio che aiuta ad afferrarne il senso, la vista. Se l’iscrizione fosse rivolta all’occhio, come è rivolta all’uomo e dicesse «guarda te stesso» si potrebbe capire più facilmente quale consiglio ci venga rivolto. E, analogamente, come per guardare se stesso, l’occhio deve indirizzarsi su quella parte di un altro occhio” in cui risiede la capacità visiva”, l’anima, “se vuole conoscere se stessa, dovrà orientarsi su quella parte dell’anima che custodisce la sapienza che, dell’anima, è la specifica potenza» (Platone, Alcibiade I, 132 d e 133 b, I-5. Inoltre, sul tema dell’identità tra vedere e conoscere si veda anche G. Reale, Introduzione al pensiero di Platone, in Platone, Tutti gli scritti, (a cura di) G. Reale, Rusconi, Milano 1991, I, p. XXX
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L’identità tra vedere conoscere torna anche in Aristotele nei libri dedicati alla «filosofia prima»223 in cui il «desiderio di vedere» appare non come semplice
tendenza, ma uno specifico desiderio che coinvolge tutti gli uomini, ad essi connaturato, appartiene cioè alla loro stessa originaria natura,224 per il fatto stesso di essere nati.
Espressione e suggello nella modernità della concezione che assimila la conoscenza alla visione, è tracciata nella ricerca che va da Cartesio a Husserl, passando per Kant. Sull’evidenza225 cartesiana convergono chiarezza e distinzione, attributi del
vedere, ma il pieno compimento si trova nel filosofo che ha inteso la propria riflessione come una meditazione in margine al pensiero cartesiano.226 La «visione delle essenze», l’husserliana (Wesenschau), reinterpretata alla luce dei più rigorosi sviluppi di impianto fenomenologico, in Heidegger e Merleau-Ponty, coincide con «fedeltà al vedere». In questo percorso, il passaggio kantiano entra in gioco con l’assunzione in chiave categoriale dei requisiti del vedere, infatti quando spazio e tempo vengono definite le forme pure dell’intuizione sensibile (coordinate peculiari della vista) diventano le condizioni di esistenza di ogni possibile attività conoscitiva.227 Un tratto invece negativo tra vedere e conoscere è quello posto nella tradizione filosofica occidentale da Heidegger, uno dei maggiori interpreti del Novecento secondo il quale, la «storia della metafisica occidentale» da Platone a Nietzsche è rappresentata da un mutamento sul modo di intendere la verità: dalla accezione di determinazione riferita all’essere stesso, in Eraclito e Parmenide, fino a Platone, diviene un carattere che l’essere assume in rapporto all’uomo che la conosce, passaggio dalla verità, come a-létheia, «svelatezza» e «manifestazione» dell’essere, alla verità come orthóthes, conformità assume la connotazione di
223 «Tutti gli uomini, per natura, desiderano il vedere», Aristotele, Metafisica, 980 a, I
224 “Per natura” Aristotele – spiega nella Fisica (libro II, cap.I) intende quelle proprietà che
riguardano per sé gli enti naturali, parti ineliminabili della oloro essenza, del loro modo di essere, di ciò che sono. «Ne consegue che chi, fra gli uomini, non possedesse questa caratteristica, non sarebbe uomo» (E. Berti e C. Russitto (a cura di) in Aristotele, Il libro primo della «Metafisica», Laterza, Roma-Bari 1997, p.53
225 Il criterio cartesiano dell’«evidenza» risale ai Principia philosophiae (1644). «Chiarezza» è il
principio che denota che gli oggetti agiscono abbastanza fortemente, e i nostri occhi sono disposti a guardarli»; «distinzione» è la percezione «talmente precisa e differente da tutte le altre da on comprendere in sé se non ciò che appartiene manifestamente a chi la considera come si deve» (Cartesio, Discorso sul metodo, Regulae ad directionem ingenii, 3 e Mediazioni metafisiche, 3)
226 U. Curi, La forza dello sguardo, cit. p.15.
227 Ulrich Sonnemann ricorda che Kant, riferendosi all’intuizione, evocatrice del vedere, come fonte
di conoscenza sensibile conferma il privilegiare l’occhio rispetto all’orecchio (spazio rispetto al tempo) attribuendo alla vista «la funzione di orizzonte della conoscenza (Il tempo è una forma di ascolto. Sulla natura e le conseguenze di un disconoscimento kantiano dell’orecchio in U. Curi (a cura di), Dimensioni del tempo, F. Angeli, Milano 1987, p.65)
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qualcosa che è pertinente alla «correttezza» della visione del modo in cui l’uomo si rapporta all’essere, che lo vede - e - conosce.
La tendenza ad identificare i due ambiti, originariamente distinti, riferiti ad operazioni differenti, non è capace di spiegare la motivazione per la quale la vista abbia da sempre goduto di un primato sugli altri sensi almeno nel mondo classico greco latino.
1.4.«Was ist Aufklärung?»
Il testo kantiano «Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo?»228 rappresenta
il più celebre contributo al dibattito sull’Aufklärung sviluppatosi all’interno di un circolo di eminenti personaggi della vita culturale e pubblica tedesca. Cornice e sfondo ineliminabile di questo fervente dibattito sono la Berlino della Società del mercoledì e il suo organo di stampa, la rivista mensile «Berlinische Monatsschrift» che trova la sua maggior diffusione negli anni di Federico il Grande per poi spegnersi, in seguito di attacchi della censura del gabinetto Wöllner, sotto il regno di Federico Guglielmo II.
Sulla stessa rivista «Berlinische Monatsschrift»,229 compare nel 1784 lo scritto
kantiano «Was ist Aufklärung?», in risposta a un interrogativo proposto nel fascicolo precedente del dicembre 1783 da un religioso berlinese, il pastore J. F. Zöllner230 il quale chiedeva, in una nota a piè pagina, con tono provocatorio, che
228 «5 dicembre 1783, p. 516», sottotitolo originale. Sotto il titolo del suo saggio, Kant, come era
d’uso nei dibattiti ospitati nelle riviste dell’epoca, appone il rinvio al numero e alla pagine della «Berlinische Monatsschrift» in cui era apparsa la rivista con la domanda provocazione di Zöllner. Kant alla stesura del saggio ignorava l’esistenza della risposta di Mendelssohn
229 Cfr. L’edizione più recente dello scritto kantiano, originariamente comparso nel numero di
dicembre della «Berlinische Monatsschrift», Haude und Spener, Berlin 1784, IV, pp. 481-494. Inoltre, i testi della rivista «Berlinische Monatsschrift», con ampie note informative sono disponibili in N. Hinske e M. Albrecht (a cura di), Was ist Aufklärung? Beiträge aus der «Berlinische Monatsschrift», Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1973
230 Cfr. «Berlinische Monatsschrift», 1783, II, p.516 [nota]. Johann Friedrich Zöllner pubblicò un
articolo contro l’istituzione del matrimonio civile (J.F. Zöllner, Ist es rathsam, das Ehegebundnis nicht ferner durch die Religion zu sancieeren? («È opportuno non sancire più il vincolo matrimoniale con la religione?») Berlinische Monatsschrift, II, 1783, pp. 508-517, ivi p. 508), difendendo, nell’interesse dello Stato, l’unione coniugale religiosa. Al concetto di “illuminismoˮ Zöllner univa una nota a piè pagina che conteneva una domanda, dal tono provocatorio «Che cos’è l’illuminismo?», alla quale rispondono cinque grandi esponenti del movimento dell’Aufklärung: Moses Mendelssohn, Immanuel Kant, Johann Georg Hamann, Gotthold Ephraim Lessing e Johann Gottfried Herder. Trattano il fenomeno storico e morale dell’illuminismo in base alle proprie idee filosofiche fondamentali e con toni più o meno accesi: E’ interessante che, al di là dell’occasione suscitata dal contributo di Zöllner, fondamentale per analizzare la posizione della domanda da parte di Kant, nella stesura del testo un altro contributo suscitò il suo interesse, in particolare il «Saggio
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qualcuno si prendesse la briga di spiegare che cosa fosse l’illuminismo e ne offrisse una definizione. Questo scritto fu occasionato dalla discussione sorta sopra un altro articolo scritto da Erich Biester (editore insieme a F. Gedike della rivista berlinese, ma pubblicato anonimo) sulla «Proposta di non incomodare più i religiosi con la celebrazione dei matrimoni» (Vorschlag, die Geistlichen nicht mehr hei
Vollziehung der Ehen zu hemuhen) e volto a difendere le idee laiche dei matrimoni
proposte dal movimento dei Lumi in Germania.231 Il pastore, sdegnato per la possibile eliminazione del matrimonio religioso a favore di quello laico, lamenta la confusione intellettuale e morale nata «sotto il nome dell’illuminismo», accusando i sostenitori dell’illuminismo di fondare in modo non adeguato sul piano teoretico la loro impresa. In un passaggio del suo articolo affermava:
«Che cos’è l’Illuminismo? Questa domanda che è quasi altrettanto importante come quella: che cos’è la verità?, dovrebbe ottenere una risposta prima che si inizi a rischiarare (aufklären)! Eppure non ho mai trovato questa risposta da nessuna parte!».
Lo stesso organo di stampa dell’Illuminismo tedesco ospitò anche la risposta di Moses Mendelssohn, uno dei più autorevoli esponenti della deutsche Aufklärung, che uscì nello stesso numero di quella kantiana e dal titolo «Sulla domanda: che cosa significa rischiarare?» (Über die Frage: was heist aufklären?), in risposta alla stessa provocazione del teologo Zöllner che avrebbe attirato l’attenzione di Kant. Questo quesito risuona anche in altri scritti, come quello di Wieland, intitolato “Sei domande sull’illuminismo”.232
Kant, accettando la sfida del predicatore Zöllner, fornisce in maniera chiara ed altrettanto provocatoria rispetto al passato, la propria interpretazione dell’Illuminismo, scrivendo così un articolo destinato ad avere un’influenza
d’una introduzione alla morale valevole per tutti gli uomini, senza distinzione di religione, con un’appendice sulla pena di morte» (parte I) Berlino 1783. (Versuch einer Anleitung zur Sittenlehre für alle Menschen ohne Unterschied der Religion, nebst einem Anhange von den Todesstrafen, tr. it.