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2. L’esercizio critico di «pensare da sé»

2.6. Libertà di pensare

Il «pensare da sé», costitutivo per l’illuminismo, viene compreso non più in senso negativo soltanto, come libertà dalla tutela intellettuale, ma in senso positivo, cioè connesso a quell’istanza che esso deve seguire: «Pensare da sé» significa cercare in se stessi (cioè nella propria ragione) la pietra ultima di paragone della verità, e la massima che invita a pensare sempre da sé è l’illuminismo».488

In accordo con il saggio sull’illuminismo, Kant rivendica la libertà del discorso illuministico dalla «costrizione sociale», esercitata attraverso la detenzione di cariche e posizioni, e dalla «costrizione della coscienza» che, attraverso l’autorità spirituale, inibisce l’esercizio autonomo del pensiero; ma (oltre a tali libertà negative dell’illuminismo) Kant rivendica la libertà della ragione da tutte le leggi, eccetto che da quelle «che essa stessa si dà».

In questo saggio del 1786, nel ragionamento sul tema del pensare con la propria testa ha fatto irruzione il tema della libertà, un altro richiamo allo scritto del 1784 sul questo stesso concetto. Se nella Risposta, la libertà si traduceva nel far uso pubblico della ragione attraverso la comunicazione scritta delle proprie idee ad opera dei filosofi e dei sapienti in generale, nel saggio «Che cosa significa orientarsi nel pensiero?» raggiunge maggiore sistematicità, e si domanda se sia concretamente possibile una illimitata libertà di pensare. In tale circostanza, la libertà di pensare viene affrontata sotto due aspetti, due forme repressive la costrizione sociale e la

costrizione della coscienza. Da un lato, emerge, se si guarda alla realtà che «alla

libertà di pensare viene opposta la costrizione civile».

Afferma Kant che si è soliti dire che un potere superiore, lo Stato, «può privarci

486 Ivi, p. 551

487 H.Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1971, p.551

488I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1996, p. 66, Nota di Kant

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della libertà di parlare o di scrivere, ma non di pensare»489 unico tesoro rimastoci

in mezzo alle imposizioni sociali. La costrizione sociale coincide con un potere superiore esterno che strappa all’individuo la facoltà di parlare e scrivere, ostacolando la libera espressione del pensiero. La libertà umana, che ha una dimensione pubblica, verrebbe ad essere danneggiata se non sottoposta al confronto dialettico e se, dunque, un potere coercitivo esterno, venisse a limitarne la libertà d’espressione e a pregiudicarne la libertà del pensiero. Kant parte da un assunto, largamente condiviso, e cioè che un potere superiore esterno, un dispotismo, un regime autoritario, una condizione di soggiogamento che strappa all’individuo la libertà, può impedirci di parlare, di scrivere, ma non di pensare, Dunque, la conoscenza e la sua comunicazione sono due facce della stessa medaglia. Poi aggiunge con acutezza che noi non pensiamo bene se non pensiamo «in comunità con gli altri», ai quali socializziamo e partecipiamo i nostri pensieri e viceversa: «Ma quanto, e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che essi ci comunichino i loro?».490

Kant mette radicalmente in questione questa semplice distinzione, cioè se un potere superiore, che ci impedisce di comunicare con gli altri, ci lasci però pensare, se, cioè, può esserci un pensiero, che non sia un pensiero in rapporto agli altri. Non si pensa bene, se non «in comunità con gli altri»491 ai quali si partecipano i propri

pensieri e, essi stessi, comunicano i loro. L’istanza collettiva dell’intelligenza è in qualche modo, per Kant, connaturata al pensiero dell’uomo. Senza comunicazione non c’è il sapere poiché il concetto è sempre l’esito e il risultato della mediazione, della condivisione e della compartecipazione.492 Chi ha la pretesa di possedere una

misteriosa intuizione della verità «si mette fuori della comunicazione fra gli uomini e si fa violento perché egli può imporre solo con la forza quello che per lui è la verità e che gli altri non possono riconoscere perché ciò che è accertato nel privato di una intuizione misteriosa, non può essere dimostrato né comunicato, bensì solo vissuto nella solitudine estrema».493 La libertà di pensare rivendicata dal genio, ad

esempio, è la sua e non quella di tutti gli altri uomini, che è invece la condizione

489I. Kant, ivi, op.cit.p. 62 490I. Kant, ibidem 491I. Kant, ibidem

492 Cfr. P. Salvucci, Introduzione a: I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensare, R. Carabba,

Lanciano 1975, p.53

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per pensare in comune e per crescere insieme con gli altri nel progresso e nell’allargamento delle conoscenze. E conclude dicendo se lo Stato, ad esempio, o una potenza superiore sottrae all’uomo la libertà di comunicare e discutere in pubblico i pensieri, li priva anche della libertà di pensare: «Quindi si può ben dire che quel potere esterno che strappa agli uomini la libertà di comunicare (parola e scritto) pubblicamente i loro pensieri, li priva anche della libertà di pensare, cioè dell’unico tesoro rimastoci in mezzo a tutte le imposizioni sociali, il solo che ancora può consentirci di trovare rimedio ai mali di questa condizione»494. Se uno Stato

non riconosce ai cittadini il diritto a esercitare un uso pubblico della ragione, e toglie loro il diritto di discutere i pensieri, li priva anche della libertà di pensare; diversamente, quando c’è il diritto alla libertà della manifestazione scritta (libertà di stampa, di diffusione) del pensiero, allora il pensiero umano si fa «maturo», libero.

Alla libertà di pensare talvolta si oppone «la costrizione esercitata sulla coscienza», che si verifica quando, eliminata ogni costrizione esterna, alcuni cittadini si ergono, in materia di religione, a «tutori» di altri cittadini e, anziché far valere delle argomentazioni, utilizzano «formule di fede precostituite», suscitando così negli altri uomini l’ansioso «timore pungente» dei «pericoli di un’indagine autonoma», dei pericoli potenziali che scaturirebbero da «una ricerca personale», riuscendo in tal modo a bandire «ogni esame della ragione», facendo leva sul timore «mediante un precoce condizionamento degli animi».495

Ed è così che «l’uomo di Chiesa - già citato da Kant nel saggio sull’Aufklärung dice: non ragionate, ma credete!»,496 ma né religione, né legislazione possono

sottrarsi alla critica cui tutto soggiace.497

Come i reggitori dello Stato si ergono a padri della patria in quanto capiscono meglio dei loro sudditi come possono rendersi felici, mentre il popolo viene condannato a una perenne tutela, allo stesso modo il clero mantiene il laico sotto la

494 I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, (a cura di) F. Volpi, Adelphi, Milano 1996,

pp. 62-63

495 Ivi, p.63

496 Cfr. I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? a cura di M. Bensi, ETS, Pisa 2013,

p.19.

497 Nella prefazione alla Prima edizione della Critica della Ragion pura, Kant torna sull’epoca della

critica, cui tutto deve venire sottoposto: «con la sua santità, la religione e, con la sua maestà, la legislazione pretendono solitamente sottrarsi alla critica ma in tal modo sollevano nei propri riguardi un fondato sospetto, compromettendo quella stima non simulata che la ragione può concedere solo a ciò che si sia rivelato in grado di resistere al suo libero e pubblico vaglio» (I. Kant, Critica della Ragion pura, A XII, tr.it., p. 65)

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propria tutela: l’uomo, per il clero tutore, non ha né voce né capacità di giudizio per comprendere la strada per percorrere il Regno dei cieli, né avrà bisogno dell’occhio proprio dell’uomo per arrivarvi, ma sarà condotto da altri.498 Gli uomini non

vengono rispettati per la loro dignità, ma subiscono un trattamento meccanico, come fossero macchine quasi prive di pensiero e di ogni capacità critica. D’altra parte, per Kant, un governo che stabilisce come i cittadini devono agire è «il più grande dispotismo che si possa immaginare».

«Libertà di pensare» per Kant significa realmente che «la ragione non si sottomette ad alcuna altra legge che a quella che essa stessa si dà»,499 ma a ciò, si contrappone

la tesi di «un uso senza legge della ragione» per «vedere più lontano di quanto si resta entro i limiti delle leggi di ragione».500

Immediata conseguenza è che «se la ragione non vuole essere sottomessa alle leggi che essa stessa si dà, bisogna che subisca il giogo delle leggi che un altro (clero, governo) le dà»,501 sebbene in assenza di una legge che la diriga e la orienti, nulla

può spingere lontano la ragione. È infatti pericoloso, dice Kant, affidarsi a tutori che cercano di bandire con ogni argomento qualsiasi verifica razionale delle questioni religiose. Concepire la libertà senza una legge che la orienti preliminarmente, non è possibile poiché la ragione non può spingersi lontano. Dunque, conseguenza inevitabile di questa assenza di leggi nel pensare - o di un affrancamento dalle restrizioni imposte dalla ragione stessa - è che la libertà di pensare vi trova da ultimo la propria fine.502 La libertà si perde a causa del disumano

orgoglio «di poter fare a meno di leggi nel pensare e nell’uso di ragione, come tipicamente fa, nella sua presunzione, il genio che recide il rapporto con la ragione, affidandosi all’intuizione scambiandola per vera ricchezza, poi contraddicendosi, mantenendo il linguaggio di quella stessa ragione».503 Anzi, ciò che l’uomo

definisce “entusiasmo” ovvero la stravaganza, la massima impotenza e nullità di una «ragione sovranamente legislatrice», il genio, - che si ritiene privilegiato dalla natura - la chiama «illuminazione».

La libertà di pensare, dunque, quando giunge sino a volersi liberare dalle leggi

498 Cfr. P. Salvucci, Introduzione a: Che cosa significa orientarsi nel pensare, R. Carabba, Lanciano

1975, p.55

499 I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1996, pp.

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500 I. Kant, ibidem 501 I. Kant, ibidem 502 I. Kant, ibidem

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stesse di ragione finisce per annientarsi con le sue stesse mani e «distruggere se stessa».504 La ragione è capace di dare “prescrizioni universalmente valide per tutti”

(in quanto oggettive e dimostrabili), ma là dove mancano, uniche possono esser riconosciute dall’uomo ragionevole, è inevitabile la guerra.505 Senza la Critica, la

ragione è delirio, follia perché per Kant la Kritik è il tribunale luogo delle «dispute della ragione: essa soltanto può eliminare e le antinomie aberrazioni in cui la ragione precipita. Non è condannata a restare per sempre in sé. Quando la ragione non si è sollevata alla posizione critica o quando viene trascesa per altro (fede, intuizione), c’è lo stato di guerra. Solo la ragione illuminata dalla Kritik mette fine alle contese: è la condizione della pace e della costruzione di un bene comune. La ragione non tollera asservimento a nessun oggetto quale che ne sia la natura»506 ed

è guida e bussola nel suo procedere.

La ragione tende verso la libertà ma, nel suo cammino, quando potrà liberarsi dalle sue catene (asservimento, tutori esterni, etc.), l’ esercizio che farà della libertà a cui non era abituata «degenererà in abuso»,507 in una «una fiducia nell’indipendenza

della sua capacità di pensare» rispetto ad ogni costrizione, cioè si trasformerà nella «persuasione della sovranità esclusiva della ragione speculativa» e la ragione ammetterà solo ciò che può giustificarsi con fondamenti e «convinzioni dogmatiche», leggi oggettive respingendo tutto il resto. Da ciò scaturisce un atteggiamento di “incredulità” che si verifica quando si rinuncia al bisogno reale della ragione. Ecco, dunque, come Kant solleva il suo accorato appello:

«Voi vi credete amici dell’umanità e di ciò che le è più sacro! Assumete pure ciò che a un esame schietto e accurato vi pare più credibile, si tratti di fatti o di motivi razionali, ma non contestate alla ragione il privilegio di essere la pietra di paragone decisiva della verità perché è proprio questo privilegio che fa della ragione il bene supremo sulla terra».508

La libertà non è concepibile senza un criterio direttivo che la orienti preliminarmente: essa può scegliere di sottomettersi alla legge che essa stessa si dà (la tensione verso il bene) o piegarsi al giogo di leggi imposte da altri. Di conseguenza, la condotta non può quindi persistere in uno stato di

504 Ivi, p. 61 Jacobi ha preteso di liberarsi dalla ragione, Mendelssohn ne ha fatto un uso dommatico

sono per Kant i responsabili del possibile esito dell’autorità politica volto a negare la libertà

505 Cfr. p.59 506 Ivi, cit. p. 59

507I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1996, p. 64

508 I. Kant, op. cit., pp.65-66. La preoccupazione di Kant, cui fa riferimento, è legata al contesto

politico della sua epoca, alla possibile repressione politica post-federiciana perché sa bene che, agli occhi dell’autorità governativa, il mezzo più efficace per evitare il disordine consiste «nell’abolire la libertà di pensare sottomettendo come ogni altra attività alla legislazione ordinaria»

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indeterminazione, la libertà rappresenta la potenzialità propria della ragione umana che mira all’autonomia e rifiuta qualsiasi forma di eteronomia: essa è infatti «la pietra ultima di paragone della verità».

Riflettendo su questa asserzione, potremo dire che Kant sta dicendo che per potersi orientare nel pensiero, come è il titolo del suo saggio, è indispensabile la «libertà», cioè non è possibile pensare, se non vi è libertà. Tale libertà, tuttavia, non può essere soltanto la libertà del pensiero, astrattamente considerata, perché se non si è in condizione di comunicare il risultato dei propri pensieri e di conoscere il risultato dei pensieri altrui, in altri termini, se è interdetta o vietata la comunicazione, lo è anche la libertà del pensiero, dunque, non pensiamo, non siamo in condizione di pensare?

Un’affermazione molto importante, ripresa, dopo quasi due secoli di distanza, anche da Heidegger:509 per la ricerca della verità è necessario il pensiero, come

tentativo di ritrovare nella propria ragione il “criterio” e “la pietra di paragone della verità”. Ma, non è possibile pensare, se non in un rapporto costante con i pensieri altrui. Pertanto, anche qualora venisse tolta la libertà di comunicare i propri pensieri verrebbe cancellata la libertà di pensare. Kant mostra che senza la possibilità di entrare in un rapporto con gli altri, non si realizza neppure la possibilità di pensare e neppure di pensare con la propria testa. Dunque, per pensare con la propria testa è necessario entrare in comunicazione con gli altri, e occorre che vi sia la libertà della comunicazione mediante la parola scritta o orale pronunciata.

La questione della libertà è decisiva per la verità: Kant aveva già detto che per pensare con la propria testa è necessario poter fare un uso libero e autonomo della propria ragione, ed ora, ribadisce che non è possibile pensare se non c’è libertà.

509 Martin Heidegger, in «Che cosa significa pensare», pone la formulazione della domanda, «Was heisst», intesa «cosa significa», ovvero «cosa ci chiama». La risposta all’interrogativo, posta nel titolo del saggio, evidenzia che, se si vuole davvero capire «che cosa significa pensare», è necessario misurarci con una duplice questione. Da un lato, siamo noi (crediamo di essere noi) a chiederci «che cosa vuol dire», dall’altro, è il pensare stesso a «chiamarci», nel senso che il pensiero ha bisogno di essere attivato, come di una sorta di chiamata a pensare. Se per Kant, pensare vuol dire «pensare con la propria testa», per Heidegger si può «arrivare a capire cosa significa pensare quando noi stessi pensiamo», quando cioè ci apriamo nei confronti della «chiamata a pensare». La conclusione problematica del saggio segnala che “ciò che ci dà da pensare non è in nessun modo stabilito da noi”; piuttosto, “ciò che ci dà da pensare è il fatto che noi ancora non pensiamo”, nel senso che non sappiamo cosa ci chiama a pensare. La conclusione fortemente problematica del saggio heideggeriano sottolinea che, a differenza dei nostri antenati pensatori, i quali non si ponevano il problema, La nostra epoca, pone il pensiero verso questo enigma, come cioè il più «considerevole». (M. Heidegger, Che cosa significa pensare (a cura di) G. Vattimo, Mursia, Milano 1957, p. 85-95)

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Questa libertà non può essere circoscritta a libertà di pensiero, ma deve essere anche libertà di comunicazione con gli altri, altrimenti non sarebbe possibile il pensiero e quindi la verità.

163 PARTE SECONDA

164 CAPITOLO PRIMO – Verso uno stile di pensiero

Com’è penoso avere soltanto una precisa età!

Si vorrebbe avere contemporaneamente due età, e saperlo. “Quanti anni ha?”. “27 e 65”. “E lei” .”41 e 12”. Da queste età si potrebbero derivare nuove seducenti forme di vita.

Elias Canetti