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L’habitus nella tradizione

2. L’esercizio critico di «pensare da sé»

2.1. L’habitus nella tradizione

Ogni azione continua a creare noi stessi, ogni azione tesse il nostro abito multicolore. Ogni azione è libera, ma l’abito è necessario. La nostra esperienza di vita – questo è il nostro abito.

FriedrichNietzsche, Aurora

Il concetto di habitus, hexis, in greco antico, discende da Aristotele che, nell’Etica

Nicomachea, affronta la questione e lo definisce «stato o disposizione», operando

una distinzione tra abiti intellettuali, che riguardano la conoscenza e i processi cognitivi e abiti morali, relativi invece all’agire umano, nel bene (virtù) e nel male (vizi). Intorno alla virtù,590 fondamento e sostegno dell’agire morale, Aristotele riformula la filosofia dal punto di vista pratico e, definendo gli esiti cui giunge l’agire umano, classifica le potenzialità e i risultati conoscitivi della mente, in virtù dianoetiche, e i modelli del vivere sociale, in virtù etiche.591 L’ethos, l’abitudine, quale espressione e modo abituale di agire, di parlare, di comportarsi (…) guida gli uomini, dà forma alle loro visioni, al pensiero, al modo di comportarsi così come al loro habitus che produce e si qualifica come modus agendi determinato che

590 Cfr. Aristotele, La Metafisica, Libro V, 20, 1022 b, 10, Utet, Torino, 2014, p. 331. Nel pensiero

di Aristotele la «virtù» è un «abito» (hexis) ed esso è una «disposizione stabile». L’«abitudine» (ethos), invece ,è l’attività (enérgheia) che produce l’abito. L’abitudine, riferita al carattere (alla virtù) non riguarda il comportamento in sé, ma il modo di agire. Infatti, è dallo stesso comportamento che derivano tanto la virtù quanto la sua assenza, nel senso che nascono disposizioni diverse in funzione del modo in cui una determinata attività viene compiuta, come nell’abito del coraggio, ad esempio, che si acquisisce quando l’uomo si abitua ad agire in modo coraggioso (Etica Nicomachea, Libro II, I, 1103 b, 10-25, Laterza, Roma-Bari 1999). Dunque si diventa virtuosi sia grazie alla ragione, che per abitudine. L’educazione alla virtù, attraverso la coltivazione della ragione, giunge dopo che la formazione di abiti virtuosi è avvenuta. Occorre iniziare con l’educazione ad abitudini virtuose orientate verso la ragione per affrontare l’educazione alla virtù tramite ragione che, nella forma della saggezza rende possibile la comprensione del giusto mezzo proprio della vera virtù. Nei giovani gli abiti caratteriali si formerebbero abituandoli ad agire in certe situazioni, e la modalità di azione sarebbe deuteroappresa cioè acquisita parallelamente all’agire stesso e fissata come abito d’azione, come propensione ad agire in un tale modo, ad esempio agire coraggiosamente creerebbe una propensione stabile, un abito appunto, ad agire. Inoltre, la strutturazione dell’abito rappresenta in Aristotele non la ripetizione meccanica dell’agire, ma l’abituarsi a provare una sensazione di rammarico o piacere per l’azione compiuta, una sorta di rinforzo che richiama l'interessante contributo di Bateson con «il processo di apprendimento nel contesto» che affronteremo più avanti.

591 La «virtù dianoetica» trae in buona parte origine e crescita dall’insegnamento e necessita di tempo

ed esperienza, la «virtù etica» deriva dall’abitudine, dalla quale ha preso il nome con una piccola modificazione il termine “abitudine” (ethos) (Aristotele, Etica Nicomachea, Libro Secondo, 1103a, Laterza, Roma-Bari 1999, p.47). La virtù rappresenta uno «status abituale» grazie al quale l’uomo è buono.

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scaturisce dall’ambiente circostante e dalla capacità dell’uomo ad agire eticamente. L’habitus ha dunque origine nell’esperienza, in quelle azioni che il soggetto trasforma in abitudini per mezzo della memoria e che si differenziano dalle azioni isolate. Da un lato, l’abitudine è duratura, trattiene le esperienze per il futuro e viene immagazzinata grazie ai processi corporei, dall’altro, non si esaurisce nel presente, è orientata verso il futuro, come modello per il futuro agire. L’habitus (hexis), è dunque la facoltà intellettuale di produrre azioni, una capacità che si forma nell’esperienza su cui si costruiscono le azioni future. Proprio in quanto deriva da azioni pratiche, l’habitus ha la facoltà di costruire valori e generare un sapere legato all’agire riferito a casi singoli. Già con Aristotele, l’abito è fissato come «stato disposizionale» e come elemento di «pertinenza» rispetto all’educazione, espresso sotto forma di abiti emotivi, consoni alla virtù morale.592 L’atteggiamento virtuoso va formato, esercitando abitudini orientate alla ragione e in armonia con essa, per rendere efficace l’insegnamento secondo ragione, ma la coltivazione della ragione risulta produttiva se preparata da adeguate abitudini593 verso le quali il giovane deve abituarsi a provare piacere per azioni buone e dolersi per azioni non buone. Educare alla virtù attraverso la coltivazione della ragione può essere assicurato soltanto dopo la formazione di abiti virtuosi,594 educare le abitudini prima, per rendere educabile

la ragione poi. Gli abiti caratteriali, che rientrano nell’educazione, si formerebbero, per Aristotele, orientando e abituando i giovani ad agire in un determinato modo la cui modalità di azione verrebbe deuteroappresa, acquisita cioè parallelamente all’agire per poi essere fissata come abito d’azione ed infine proseguire ad agire in tal modo. Si verrebbe così a strutturare l’abito non con la ripetizione sterile, ma con l’interiorizzazione di un meccanismo di autocompiacimento o autodispiacimento, un abituarsi a provare piacere o rammarico, determinandosi una sorta di apprendimento nel contesto, in senso batesoniano, “imparare ad imparare”.

592 Cfr. M. Baldacci, p.122. L’essere abituati, ciò di cui parla Aristotele nell’Etica Nicomachea, è

riferito all’abitudine, al modo di godere o rammaricarsi delle azioni rispetto al significato di buono o cattivo; pertanto, non si parla di abitudine in senso meccanico, ma di abito, come modo di vedere e sentire le cose.

593 Aristotele, Etica Nicomachea, Libro X, 1179 b, 25-30, Laterza, Roma-Bari 1999

594 Per la trasformazione del nostro modo di essere è decisivo l’esercizio pratico delle virtù che sono

«stati abituali» che si acquistano solo perché «le abbiamo esercitate in precedenza»; l’esercizio è decisivo perché «non è facile modificare le abitudini che il carattere ha assunto da molto tempo solo con i discorsi[…] Il ragionamento poi e l’insegnamento, probabilmente non hanno effetto in tutti i casi, ma l’anima del discepolo deve essere esercitata attraverso i propri costumi a provare godimento e disgusto in modo corretto» (Aristotele, Etica nicomachea,1142 a, 23; 1102 a, 31;1179 b, 17-25)

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Attraverso l’abitudine, va formato l’atteggiamento virtuoso proprio perché la ragione, sviluppandosi lentamente, può avere piena efficacia soltanto se preparata da abiti orientati nella sua direzione: se il carattere è già strutturato dall’abitudine, il ruolo della ragione porterà un individuo ad essere sordo alla ragione, qualora il carattere si sia formato in modo irrazionale con abiti non virtuosi, diversamente, condurrà l’individuo a far prendere consapevolezza del bene presente in essi, qualora gli abiti siano di tipo virtuoso.595

Aristotele sembra aver intuito quello che le neuroscienze hanno dimostrato, ossia che il processo decisionale, cuore della sua proposta etica, si giova dell’esercizio a decidere che fa riferimento agli esiti di passate esperienze delle quali restano tracce emotive inscritte nel corpo, definito da Antonio Damasio «marcatori somatici»596. Che generano una sorta di «segnale emozionale» che non è sostituto del ragionamento, ma aumenta l’efficienza e lo velocizza. Marca opzioni ed esiti attribuendo valenza positiva o negativa e restringe lo spazio di decisione e aumenta la possibilità di confermare l’azione presente a quella passata. In particolare, quando sostiene che l’abilità della decisione (prohairesis), nel senso di scelta, di deliberazione e risoluzione e determinatezza, non coinvolge solo la ragione” ma è partecipe della ragione e del desiderio”, “è un pensiero desiderante o desiderio pensante”597. La decisione richiede infatti sia l’attivazione della sfera intellettuale

(occorre comprendere quale sia la giusta cosa da fare e saperne dare conto con ragionamenti adeguati) che quella emotiva (necessita di una ragione emozionale appropriata capace di vincere paure, resistenze, indecisione). Aristotele sembra, in

595 Cfr. M. Baldacci, Trattato di pedagogia generale, pp.152-153. L’autore, mette in evidenza il

pericolo che il ruolo della ragione sia limitato alla giustificazione di abitudini buone già contratte con il rischio di cadere nella legittimazione ideologica della cultura d’origine; in tal modo l’educabilità rischierebbe di essere limitata alle abitudini con la riduzione del processo educazionale al meccanismo dell’abitudine, divenendo eteronoma. Interessante è la riflessione sulla portata trasformatrice rispetto ad abiti già strutturati: per Aristotele, l’uomo può agire contro le abitudini se la ragione indica ciò che è migliore e preferibile e al di là dall’eteronomia imposta dalle abitudini, la ragione tende a salvaguardare l’autonomia dell’uomo.

596 A. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano 1995, p.245. I marcatori somatici

generebbero una specie di segnale emozionale che marca opzioni ed esiti attribuendo loro una valenza positiva o negativa, che restringe lo spazio di decisione e aumenta la probabilità di conformare l’azione presente all’azione passata. Il segnale non è costituito dal ragionamento vero e proprio, ma ha un ruolo ausiliario, aumenta cioè l’efficienza e lo velocizza. In qualche caso, piò renderlo superfluo quando respingiamo immediatamente un’opzione che condurrebbe ad un disastro sicuro o viceversa cogliamo al volo un’opportunità garante di successo. Interessante che il segnale emozionale può operare al riparo dalla coscienza, l’individuo può non avere cognizione di queste operazioni implicite nelle quali intuiamo una decisione e la mettiamo in atto in modo rapido ed efficace, senza aver conoscenza dei passaggi intermedi. (A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimento e cervello, Adelphi, Milano, 2003 pp.180-181)

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tal senso, anticipare quanto è oggi confermato dalle neuroscienze cioè che “ogni decisione etica è costantemente “orientata a trovare un equilibrio, non solo razionale, ma anche emotivo, tra i valori in cui crediamo, tra ciò che riteniamo importante per il nostro progetto di vita e gli elementi su cui non possiamo esercitare un controllo cosciente”.598 Per questo Aristotele affida tale compito non alla

ragione, ma al «carattere (ethos),599 consapevole che per vivere secondo virtù (stati abituali degni di lode, 1103 a,9), fine dichiarato nell’etica, non basta una “conoscenza retta “occorrono volontà, prontezza di spirito, correttezza, calma, capacità di riflessione di decisione senno e perspicacia.600

Il carattere ben formato è «unità di pensiero e desiderio nella quale la scelta ha fuso a tal punto questi due elementi, un desiderio attento al pensiero, e un pensiero sensibile al desiderio, che entrambi possono fungere da guida, senza che intervenga alcuna differenza»601 il cui raggiungimento dipende dal lungo esercizio alla pratica e all’assimilazione delle virtù “perché divengano parte integrante della nostra natura” per poter valutare se tali abilità siano effettivamente state trasformate in una “disposizione permanente” del carattere. L’esercizio è legato alla riflessione ragionata e consapevole di vivere secondo virtù, infatti “nessuna virtù morale nasce in noi per natura […] ma è nella nostra natura accoglierle e sono portate a perfezione per mezzo dell’abitudine d cui deriva la morale.602 Non solo non acquisiamo le virtù

se prima non siamo esercitati, ma l’esercizio che ci chiama a coltivarle non si limita a correggere il nostro modo di pensare e di agire, trasforma anche il nostro modo di essere. Ciò che rende interessante la posizione di Aristotele è che non intende spiegare quale sarebbe la cosa giusta da fare in ogni circostanza eticamente problematica, ma fare di noi persone capaci di saperlo valutare di volta in volta, agendo di conseguenza, esercitandosi a diventare tali, «cosa dovremmo diventare» e fare del miglioramento di se stessi, la leva per il miglioramento del mondo. In tal senso, l’etica aristotelica appare come una sorta di addestramento pratico che permette di sviluppare, acquisire, mettere alla prova, nella relazione con il mondo, non solo le virtù, ma un habitus alle virtù, una sensibilità e una capacità etica che, debitamente esercitata, diviene abituale in noi da trasformarsi in un vero e proprio

598 L. Boella, Neuretica, Raffello Cortina Editore, Milano 2008, pp.81-82 599Aristotele, Etica Nicomachea, 1111 b 6

600 Aristotele, op.cit. 1142 b, 2-43 a, 25

601 M. Nussbaum, La fragilità del bene, Il Mulino, Bologna,2004. Secondo Nussbaum nel

ragionamento interviene anche immaginazione, empatia, comprensione circostanziale e sensibilità

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modo di vivere. Ciò significa che la realizzazione umana richiede l’esercizio di alcune facoltà che definiscono la vita, infatti «non si può dire che una persona si realizzi in quanto essere umano se non esercita facoltà peculiarmente umane».603

Al centro si pone il ruolo di una persona capace di saper valutare, di volta in volta, agendo di conseguenza, facendo del miglioramento di sé, leva per migliorare il mondo.

Il concetto di abito - reso con il termine latino habitus604 - è trattato da S. Tommaso

nella Prima e Seconda parte della Summa Teologica,605 in cui approfondisce la natura degli abiti umani, le cause del costituirsi, il loro sviluppo e distruzione. Di fatto, viene ripreso da Aristotele come «disposizione ad agire», infatti «l’abito è una disposizione secondo la quale uno è disposto bene o male o in se stesso o in rapporto a un altro, così come è un abito la salute».606 Partendo dalla considerazione che

habitus deriva da habere, Tommaso osserva che «due sono le fonti di derivazione:

la prima nasce dal significato che ha il termine avere, quando si dice che un uomo, o altri esseri hanno [o possiedono] qualcosa; la seconda viene desunta [dall’aversi] dal significato riflessivo il quale indica la disposizione che una cosa ha in sé o in rapporto a un’altra».607

L’habitus608 è per Tommaso d’Aquino «una proprietà pertinente, la predisposizione

durevole di una cosa», esprimendo, in tal modo, il carattere mediano dell’habitus, tra potenza pura e atto puro. L’habitus sarebbe una sorta di “leva di cambio” tra potenzialità (potenza pura) e compimento e attuazione di un’azione (atto puro).

603 J. Barnes, Aristotele, Einaudi, Torino, 2002, pp. 117-118. Lo studioso riconosce la centralità

dell’esercizio, funzionale, come sostiene Aristotele, all’azione pratica di cui se ne dà prova nell’incontro con il mondo. L’esito dell’esercitarsi, oggi, si mostra in quella condizione che chiamiamo “abilità” del soggetto in esercizio

604 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, Libro IV, 77, ESD Bologna, 2001

605 Nella Prime e Seconda Parte della Somma Teologica, dalla questione 49 alla questione 54,

Tommaso tratta ella natura degli abiti umani, il soggetto degli abiti, la generazione degli abiti, l’aumento degli abiti, la dissoluzione e diminuzione degli abiti, la distinzione degli abiti. A partire dalla questione 55 esamina le virtù nella loro essenza, le virtù intellettuali, la distinzione tra virtù morali e intellettuali, i rapporti tra virtù morali e passioni, le virtù cardinali, teologali, la causa delle virtù, il giusto mezzo delle virtù, la connessione delle virtù e l’uguaglianza, la permanenza delle virtù dopo questa vita.

606 Tommaso, La somma teologica, Vol.2, Seconda Parte, Questione 49, 1996, p.369. Cfr. Aristotele,

La Metafisica, Libro V, 20, 1022b, 10, Utet, Torino 2014, p.331

607 Ivi, p. 368

608 Nelle opere di Tommaso si possono rintracciare diverse tipologie di abiti, activus, corporis,

athleticus e diversi habitus intellettuali, come quello delle deduzioni, dell’intendimento razionale e della giusta scelta. L’habitus è una nozione capitale, non traducibile con la parola “abitudine” che esprime un meccanismo fisso, una routine, a costituisce al contrario una capacità inventiva perfettiva della facoltà in cui esso si radica e a cui conferisce una perfetta libertà nell’esercizio.

197 2.2. L’abito e la dimensione sociale

L’attualità della concezione deweyana degli abiti trova spazio e confronto con le considerazioni che Pierre Bourdieu, in versione diversa ma non incompatibile, ha dedicato alla questione. Il filosofo sociologo francese usa il termine «habitus» per indicare un sistema di disposizioni durevoli, generate dall’esperienza sociale dell’individuo e capaci di organizzare la sua esperienza futura.609 L’habitus esprime

dunque una capacità generatrice, propria dell’uomo, di costruire e sviluppare strategie consone ad affrontare situazioni i previste e mutevoli della realtà. Emerge chiaro il richiamo a Dewey, al suo concetto di habit e al «principio di continuità dell’esperienza», del quale Bourdieu ne ha sviluppato la dimensione socioantropologica.

La caratterizzazione che qui se ne offre, in analogia con l’idea di habit in senso deweyano, volta ad esprimere il rapporto attivo e creativo con il mondo, come sistema durevole e trasponibile di schemi di percezione, di valutazione ed azione,610 considera l’habitus come un sistema di schemi sociali di comportamento, acquisiti dal singolo individuo in maniera inconscia e incorporati, “nel suo cervello”. Come già per Dewey, l’abito informa i modi della nostra sensibilità, le attività di selezione, scelta, comparazione, configura le nostre forme di vita così profondamente che al limite l’individuo si trova a essere agito socialmente.611 In Bourdieu, l’habitus -

usato nell’accezione singolare, diversamente da Dewey che ne esplicita un uso plurale - diventa il principio unico che genera le diverse pratiche sociali passibili di classificazione e fornisce i criteri impliciti di classificazione delle differenti attività umane. Esso è un principio unificatore e generatore di tutte le pratiche, dei criteri per classificarle e valutarle, attraverso il quale il singolo individuo si trova conformato, senza alcuna consapevolezza, allo stile di vita della classe sociale dominante o dominata cui appartiene. Agisce dunque come un creatore di metafore o come un operatore analogico che trasferisce gli stessi criteri di classificazione e di valutazione morale, estetica, politica da un campo all’altro dell’esperienza umana.

609 P. Bourdieu, Per una teoria della pratica, Raffaello Cortina, Milano 2003, pp. 206-207

610 M.C. Michelini, Educare il pensiero. Per la formazione dell’insegnante riflessivo, Franco Angeli,

Milano 2013, p. 16

611R. Dreon, «John Dewey: l’abito fa il naturalismo culturale», in D. Davidson, Azioni ed eventi, Il Mulino, Bologna 1992

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Bourdieu definisce l’habitus come sistema di «strutture strutturate» dalle condizioni di un preciso ambiente, di esistenza di un certo gruppo culturale o di un classe sociale.612 L’habitus sarebbe il prodotto della socializzazione e dell’inculturazione

e, sin dalla prima educazione, inizia ad agire e ad essere inculcato nell’uomo, così che sulla sua strutturazione incide in modo rilevante l’apprendimento, influenzato dal gruppo familiare e dalle figure di riferimento adulte. Reca con sé la traccia socio culturale che rende simili individui tra loro diversi e costituisce l’incorporazione durevole dei modi di vedere le cose, di pensare, agire specifici del proprio gruppo d’origine. L’habitus è anche definito come sistema di «strutture strutturanti», espressione e principio unitario di pratiche che consisterebbe in un sistema di «disposizioni percettive e d’azione», che fungerebbe come un principio generativo unitario rispetto alle situazioni con cui l’individuo si rapporta, determinando omogeneità del suo stile di comportamento.613 Grazie all’habitus, pochi sono i principi impliciti che governano la condotta in una pluralità di circostanze e le pratiche da esso prodotte sono determinate dall’anticipazione implicita delle loro conseguenze secondo meccanismi predittivi iscritti nello stesso habitus,614 capaci di equilibrare e armonizzare la volontà dell’individuo con quanto da lui stesso ritenuto possibile ottenere in base alle proprie esperienze passate.

A distinguere l’habitus (disposizione a vedere le cose in un certo modo e ad agire in determinate maniere) dall’«abitudine» (comportamento acquisito mediante la reiterazione e ripetizione di un certo comportamento in forza della consuetudine con esso) intesa come capacità ripetitiva - sarebbe proprio la capacità «generativa». L’habitus, in Bourdieu, è una categoria nella quale far rientrare tutte le cose condivise in una certa classe (comportamenti, gusti, idee, giudizi)615 e sintetizza la capacità generatrice dell’uomo di costruire strategie per affrontare situazioni

612 Ibidem

613 Cfr. B. Krais, G. Gebauer, Habitus, Armando, Roma 2009, pp. 23-24

614 P. Bourdieu, Per una teoria della pratica, Raffaello Cortina, Milano 2003, pp.209-210

615 Cfr. I. Paoletti, Il problema di significato nelle scienze strutturali, academia.edu, contributo

telematico. L’habitus non è un destino, ma l’inconscio collettivo di una classe sociale la quale non sa di avere un habitus, prodotto del mondo sociale. Esso cerca di spiegare il modo in cui un essere sociale interiorizza la cultura dominante, riproducendola. L’individuo sarebbe condizionato da un lato da un campus che struttura l’habitus, un sistema di relazioni oggettive, in quanto inserito in uno spazio sociale istituzionalizzato nel quale vigono le regole del gioco, ciò fa sì che il suo interesse sia di conservare o migliorare la propria posizione (campo economico, religioso, artistico); dall’altro dall’habitus che contribuisce a costituire il campus, una soggettività socializzata, in quanto l’individuo ha incorporato delle norme, valori, disposizioni che gli fanno piacere il mondo che determina i suoi modi e stili di vita e dunque sarebbe una sorta di “ordine sociale incorporato”. In ciò l’habitus si definisce come struttura strutturante e strutturata.

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sempre impreviste e mutevoli della realtà.616 In quanto sistema di «disposizioni

durevoli», che renderebbero l’individuo incline a certe pratiche e rappresentazioni