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Dudaev e Eltsin: fréres ennemis

Non dobbiamo avere l’impressione che la natura della crisi cecena sia diversa da quella delle crisi che coinvolsero altre regioni dell’Europa orientale dopo il crollo del- l’Unione Sovietica. Nei primi anni ’90 l’intera area visse una drammatica deindu- strializzazione, un’impennata della criminalità, l’emigrazione di massa, la diffusione di traffici illeciti, il saccheggio del patrimonio economico e l’impoverimento di gran parte della popolazione. Sono fenomeni noti a tutti. Ci si deve domandare piuttosto come queste condizioni di fondo si siano trasformate nel corso politico che portò alla guerra in Cecenia. Possiamo cercare la risposta a tale quesito osservando le parabole personali di Dudaev e Eltsin. Le loro biografie e i loro stili di comando presentano incredibili analogie, che non possono essere congedate come pura casualità. Precise condizioni strutturali traspaiono dallo studio di queste due personalità.

Anzitutto, sia Dudaev che Eltsin sono nati in un ambiente di assoluta povertà, da genitori che avevano subito il peggio della repressione staliniana. Eppure, entrambe le famiglie avevano beneficiato della fine della seconda guerra mondiale e dell’incredi- bile espansione delle istituzioni sovietiche nei due decenni che la seguirono. Fu pro- prio negli anni ’50 e ’60 che Eltsin e Dudaev vennero formati e intrapresero promet- tenti carriere. Boris Eltsin, figlio di contadini russi poveri e ignoranti, già a 30 anni lavorava come ingegnere nella direzione di una grossa società di costruzioni degli U- rali. Ben presto venne nominato funzionario di partito e governatore della provincia. Nel 1985, il nuovo Segretario generale Gorbachev portò questo provinciale senza peli sulla lingua ad epurare l’amministrazione comunale di Mosca dai vecchi burocrati conservatori.

La carriera di Dudaev non è meno sorprendente. Figlio di poveri contadini cece- ni, Dudaev era scampato alla deportazione, senza che ciò gli impedisse di far doman- da per accedere alla scuola militare e diventare poi pilota. Come molti ceceni che si a- doperavano per migliorare la propria posizione all’interno del contesto sovietico, an- che Dudaev accusava il solo Stalin per la deportazione della sua gente, rimanendo sal- do nella sua fedeltà verso l’Unione Sovietica. Durante l’invasione sovietica dell’Af- ghanistan, l’ufficiale dell’aeronautica Dudaev era impegnato attivamente nella piani- ficazione dei bombardamenti dei villaggi afgani e non si faceva troppi scrupoli nei confronti dei fratelli musulmani sulle cui teste sarebbero cadute le bombe sovietiche. In quegli anni, a Dudaev non interessavano molto né l’Islam né le tradizioni cecene (come è noto, sposò una giovane russa proveniente da una famiglia di militari). Allo stesso modo, da risoluto funzionario comunista quale era, Eltsin evidentemente non

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ebbe alcun scrupolo nell’ordinare la distruzione del Palazzo di Ipatiev, nel cui semin- terrato era stato ucciso insieme alla sua famiglia Nicola II, l’ultimo Zar di Russia.

Fu per la loro determinazione che i superiori iniziarono ad apprezzare sia Eltsin che Dudaev. Erano entrambi impazienti di dimostrare il loro valore in incarichi di difficile gestione, sempre risoluti ed esigenti verso i loro subordinati. In breve, uno divenne un bravo comandante militare, conseguendo il grado di generale, mentre l’altro divenne un ambizioso dirigente, raggiungendo in poco tempo il grado di membro del Politbureau.

Fu proprio in questi anni che entrambi andarono oltre i limiti. Fin tanto che il sistema burocratico dell’Unione Sovietica mantenne una sua coerenza, Dudaev e Eltsin sembravano sapere come agire entro i limiti dell’ammissibile. Ma quando la perestroika di Gorbachev aprì prospettive impreviste, i due ambiziosi carrieristi si smarrirono: a Mosca, Eltsin si dimostrò troppo zelante e finì pubblicamente licenzia- to in modo alquanto umiliante; il generale Dudaev nel 1990 iniziò a mostrare in mo- do palese le proprie ambizioni politiche e venne semplicemente trascinato dagli even- ti. Dudaev, infatti, sempre nella sua uniforme dell’aeronautica, godeva imperterrito dell’adorazione della folla durante le adunate. Questo però era troppo agli occhi dei suoi superiori: venne messo a riposo, senza neanche ottenere un appartamento in cui vivere. Decise quindi di trasferirsi nella casa del fratello, a Groznyj.

Una volta cacciati dalle gerarchie ufficiali, Dudaev e Eltsin vennero adottati dai movimenti politici dell’intelligentsiya critica che, pur in modo informe, crescevano rapidamente. Portarono all’interno dei movimenti di opposizione virtù apprezzate quali l’esperienza da leader e l’aura di bravi capi rinnegati che preferivano passare dalla parte della gente. Ben presto, i colti rappresentanti l’intelligentsiya democratica vennero offuscati da questi due nuovi leader autoritari e carismatici. Dalla leadership condivisa da molte stelle nascenti della politica, Eltsin e Dudaev avanzavano verso la posizione esclusiva di vozhd, unico capo supremo.

I due vozhdi rimasero all’opposizione per breve tempo, poiché il rapido disfa- cimento dell’Unione Sovietica li portò a ricoprire le cariche dei loro antichi opposito- ri. Dopo aver destituito Gorbachev, Eltsin si trasferì al Cremlino, nel momento in cui Dudaev prendeva il posto di Zavgaev nell’imponente palazzo del governo di Groznyj. Si può soltanto tentare di immaginare cosa provassero Eltsin e Dudaev durante questi eventi che trasformarono le loro esistenze. Tutto poteva sembrare loro possibile, dalla rapida transizione della Russia alla prospera economia di mercato, fi- no alla trasformazione della Cecenia in una nazione indipendente e fiorente grazie al suo petrolio, “proprio come il Kuwait” (per citare una promessa che Dudaev ripeteva spesso ai suoi sostenitori).

Nel biennio dal 1992 al 1993 entrambi i progetti fallirono. L’indipendenza della Cecenia, dichiarata unilateralmente, non venne riconosciuta dagli organismi interna- zionali, l’apparato statale andò in pezzi, mentre il petrolio si perse nei meandri degli intrighi mafiosi, lasciando solo pochi spiccioli per i piani faraonici di Dudaev o anche solo per gli stipendi del personale sanitario e degli insegnanti. Il destino della Russia non fu granché diverso: le sue ricchezze vennero saccheggiate, le sue speranze deluse, il suo prestigio internazionale ridotto ai minimi livelli. Quale fu la reazione dei due grandi leader?

DALLA RIVOLUZIONE ALLA GUERRA 63 Dudaev e Eltsin decisero di fare rimpasti, scagliandosi contro i burocrati corrotti e promettendo miracoli, per poi finire in una lunga ed oscura depressione. I due presi- denti si trovarono presto a lottare contro i loro stessi parlamenti, ricorrendo infine al- le armi. Questo, almeno per il momento, sembrava funzionare. I nemici politici veni- vano dispersi e umiliati. Eppure ciò non aiutò l’economia. E poi?

“Patriottismo, ultimo rifugio delle canaglie”, come aveva detto Lev Tolstoj. In pieno collasso dell’economia russa, Eltsin spendeva miliardi di dollari per ristruttura- re i palazzi imperiali del Cremlino e restaurare le chiese. Al limite delle sue capacità finanziarie, Dudaev allestiva parate militari a Groznyj e faceva restaurare le moschee. Eppure, tutto ciò ha un valore simbolico: i due leader reagivano al meglio proprio nelle situazioni di maggior crisi. Parlarono da sopra un carrarmato, ed erano i carrarmati ciò di cui avevano bisogno in quel momento. Fu proprio in quel periodo, nell’inverno tra il 1992 e il 1993, che gli abili leader del Tatarstan fiutarono il perico- lo e avviarono rapidamente una trattativa con Mosca. La Cecenia post-rivoluzionaria di Dudaev non fu però in grado di compiere una manovra simile e mantenne un a- perto atteggiamento ostile verso Eltsin.

Se nella geometria le parallele non si incontrano mai, nella politica si scontrano sempre. Eltsin cercava uno scontro anche quando si nascondeva, per motivi di di- plomazia, dietro i suoi consiglieri e i generali. Una breve guerra dagli esiti vittoriosi, come sempre. Dudaev sembrava più indeciso, poiché era consapevole delle poche probabilità di vittoria in uno confronto militare diretto con l’enorme esercito in cui lui aveva un tempo fatto carriera. Eppure, pare che Dudaev si rassegnasse fatalmente alla prospettiva di una guerra. Da generale dell’esercito, desiderava il momento di chiarezza che un buon combattimento porta.

Sia Dudaev, sia Eltsin sbagliavano: la guerra non sarebbe stata né buona, né breve, né vittoriosa.

Le guerre