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La seconda guerra

Tre anni dopo, quando Vladimir Putin – con il pretesto di un raid del solito Basaev sconfinato nel Dagestan – lancia la nuova guerra in Cecenia, sembra di vivere in un’altra Russia. La maggior parte dell’opinione pubblica è favorevole all’offensiva, le voci degli intellettuali liberali non si levano più sui teleschermi a difendere i diritti umani della popolazione civile, nelle strade delle città russe si perpetua un vero e proprio apartheid nei confronti degli “individui di nazionalità caucasica”, termine et- nologicamente assurdo e fintamente politicamente corretto utilizzato dai media fino a venire introdotto, in tutta la sua sgrammaticatezza, nel linguaggio comune. Nel mezzo c’è stata una parentesi di tre anni, che ha visto i russi alle prese con il declino definitivo di Eltsin, il crack finanziario del 1998 e una crisi economica e politica che ha aperto le porte al risorgere del nazionalismo; per i ceceni, sono stati tre anni di paraindipendenza segnata da caos, faide tra i clan dei vincitori e l’arrivo dell’islami- smo che ha attecchito rapidamente in una repubblica devastata e misera. La luna di miele tra i giornalisti e i ceceni è finita in una serie di sequestri, che hanno visto vittime anche star illustri che avevano contribuito notevolmente all’esito della prima guerra, come la coraggiosa reporter dell’NTV Elena Masjuk. Il giornalista non è più visto come l’amico del popolo ceceno, ma come una merce da scambiare, e il business dei sequestri ha praticamente interrotto il flusso di informazioni dal Caucaso, più pe- ricoloso per i reporter in tempi di pace che di guerra.

In questo nuovo contesto politico irrompe Vladimir Putin, con il suo ormai storico “Ammazzeremo i ceceni anche nel cesso”. La frase che tre anni prima gli sarebbe costata come minimo il disprezzo della parte più illuminata dell’opinione pubblica, lo trasforma in un eroe e diventa la pietra fondante del suo mito dell’uomo forte, che dura tuttora. La guerra procede sul terreno più o meno come nel 1994, con le stesse difficoltà, ma sul teleschermo appare diametralmente diversa. Le lezioni del primo conflitto sono state imparate. Ai giornalisti, russi e stranieri, viene impedito l’accesso al teatro bellico, se non dotati di un accredito speciale rilasciato dai militari russi, in gite organizzate scortati da soldati. Chi prova, memore dei vecchi tempi, a entrare in Cecenia appoggiandosi agli indipendentisti e alla popolazione locale, viene perseguitato senza pietà: arresti, espulsioni,

LA GUERRA IN CECENIA ATTRAVERSO I MEDIA RUSSI 173 fermi e minacce diventano all’ordine del giorno. Ma non basta nemmeno il guinzaglio corto: il 24 luglio 2001 la troupe dell’NTV si scontra a Shali con il capo dello Stato mag- giore Anatolij Kvashnin che accusa i giornalisti di “lavorare male. Voi lavorate per la guerra, noi per la pace”.4 Per chi non ha capito il messaggio, o interpreta ancora il proprio

dovere di reporter come una missione, può finire male: nel settembre 2002 Roddy Scott, un freelance britannico che lavorava per l’agenzia Frontline, viene ucciso dai militari russi vicino al villaggio Galashki, sul confine tra Inguscezia e Cecenia, dopo quattro settimane di marcia insieme a un gruppo di guerriglieri dalla Georgia. E ancora prima, nel gennaio- febbraio 2000, il mondo segue col fiato sospeso la vicenda l’odissea di Andrei Babickij, inviato di Radio Liberty con buoni contatti negli ambienti dei guerriglieri. Viene arrestato dai militari russi per “partecipazione a formazione armata illegale” mentre sta investigando gli orrori del “campo di filtrazione” di Cernokozovo, dove i servizi russi portano i sospetti terroristi, e dove si praticano torture e uccisioni. In seguito Babizky viene “scambiato” e consegnato a un gruppo di guerriglieri in cambio di tre soldati russi, tenuto prigioniero da una banda di ribelli filorussi, e infine – dopo che in sua difesa era intervenuto il Di- partimento di Stato Usa – rilasciato con un passaporto falso e immediatamente riarrestato per possesso di documenti falsi. Un’odissea ancora piena di lati oscuri, tra i quali quello più inquietante è il coinvolgimento dei vertici del potere russo.

Di conseguenza, nonostante il 65% dei russi continui a lamentare una “insufficiente informazione” dalla zona del conflitto,5 la guerra in tv assume colori del tutto diversi. Chi

prova ad aggirare i paletti della censura viene fermato: la trasmissione “Inchiesta indipendente” di Nikolaj Nikolaev, reporter dell’NTV tra i più incisivi nella prima guerra cecena, viene chiusa dopo aver indagato nelle circostanze strane e contraddittorie degli attentati che nel settembre 1999 hanno servito da casus belli per l’invasione della Cecenia, lasciando capire che dietro ai palazzi esplosi lasciando circa 300 vittime a Mosca e in altre città russe, potrebbero esserci non i ceceni, ma i servizi. Nei mesi successivi, dopo un’offensiva giudiziaria ed economica violenta, l’Ntv viene presa in mano da Gazprom (in altre parole, dallo Stato), che la strappa all’oligarca liberale Vladimir Gusinskij, co- stringendolo all’esilio. Anna Politkovskaya, inviata della Novaya Gazeta che diventa forse la voce più informata della nuova tragedia caucasica, indaga coraggiosamente le stragi dei civili in Cecenia, viene catturata dai militari e minacciata di morte. Elena Masjuk, in un’intervista alla radio Eco di Mosca del maggio 2007 si dichiara “interdetta dalla professione fino a che in questo Paese c’è questo potere”. L’unica voce che è concesso far sentire ai russi è quella del comando, e quando nel 2002 l’americana ABC intervista l’imprendibile Basaev per la prima volta un media occidentale viene privato dell’accredito per operare in Russia. Nel frattempo, però, la propaganda ha funzionato e il 52% dei russi disapprova l’idea degli americani di dare il microfono a un terrorista (il mondo è cambiato dopo l’11 settembre).

Il quadro mediatico della Cecenia diventa così monocromo, e per quanto la maggior parte degli spettatori continui a fidarsi poco dei comunicati ufficiali, e a ridere delle nu-

4 Citato da Newsru.com il 24 luglio 2001.

ANNA ZAFESOVA 174

merose volte in cui la guerra viene ufficialmente dichiarata “finita”, lentamente la propa- ganda comincia a funzionare. Già dal maggio 2002 il numero di quelli che pensano che la situazione stia peggiorando comincia stabilmente a scendere, fino a diventare un’esigua minoranza del 10% nel 2006, mentre circa la metà dei russi è convinta che la situazione sia stabile, e cresce il numero di quelli che la vedono migliorare.

Un cambiamento radicale dovuto anche al ribaltamento delle simpatie nei confronti dei ceceni. La campagna contro gli “individui di nazionalità caucasica” è onnipresente, e ogni giorno decine di programmi dedicati alla criminalità – trasmissioni pulp popola- rissime sulla tv russa, dal Dorozhny patrul al Chrezvychainoe proishestvie a Petrovka 38 e tante altre – raccontano le malefatte dei caucasici, creando l’impressione che tutti gli omicidi e le rapine in Russia vengano commessi da stranieri. Per la prima volta nell’im- maginario collettivo interviene anche il cinema, ripresosi da un decennio di catalessi, e

Voina (Guerra) di Alexej Balabanov è il primo esempio di film sulla Cecenia, fatto

secondo i canoni classici: i terroristi sanguinari contro gli eroici militari russi. Ne segui- ranno altri, prodotti di massa come la fiction Speznaz sulle teste di cuoio russe: la guerra non viene più rimossa dalla cultura come accadde con il primo conflitto ceceno, anzi, esce dalla cronaca (diventata fiction propagandistica) per entrare in un universo parallelo dove i soldati russi vincono sempre.