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La prima guerra

“Shamil Basaev, parli più forte. Parli più forte, non la sento!”. Un uomo con un abito di buon taglio, circondato da assistenti, combatteva inutilmente con la batteria di telefoni sulla sua enorme scrivania. La sua voce, abituata al comando, assumeva note sempre più isteriche, mentre dall’altro capo la cornetta la teneva un barbuto guerrigliero ceceno, vestito con una tuta mimetica e addobbato di bandoliere di pal- lottole, aspettava tranquillo, con un ghigno ironico. “Altro che grande potenza”, lan- ciò a un certo punto dell’attesa a quelli che lo circondavano, “non riescono nemmeno a instaurare un collegamento telefonico”.

Era il 18 giugno 1995 e la Russia stava vivendo in diretta televisiva uno dei momenti più drammatici della prima guerra in Cecenia: la presa degli ostaggi di Bu- dennovsk. Il comandante ceceno Shamil Basaev aveva lanciato un raid in territorio rus- so, passando in un ciclone di sangue per le strade della tranquilla Budennovsk, ucci- dendo decine di persone e barricandosi dentro il reparto maternità dell’ospedale locale, con centinaia di ostaggi, soprattutto donne. Non solo si è trattato di un’operazione senza precedenti nella storia mondiale del terrorismo, ma mai prima un atto di sangue è stato mostrato così dettagliatamente in tv, rendendo decine di milioni di telespettatori testimoni e protagonisti di un reality show cruento che si stava svolgendo sotto i loro occhi. C’erano i buoni e i cattivi, le vittime e i carnefici, il dramma e la speranza, tutti gli ingredienti di uno spettacolo indimenticabile, reso ancora più tragico dal fatto che tutto quello che accadeva era reale. Un film sfacciatamente propagandistico non avreb- be potuto avere effetto maggiore: bastava osservare i “cattivi” – il presidente Boris Eltsin, lontano dalla tragedia migliaia di chilometri, al G7 di Halifax, a pontificare con- fusamente sui terroristi in compagnia di Bill Clinton, l’impotente primo ministro Viktor Cernomyrdin, i ministri e i generali che farfugliavano dichiarazioni subito smentite dagli eventi trasmessi in diretta, le teste di cuoio russe che cercavano inutil- mente di espugnare l’ospedale sparando sugli ostaggi esposti come scudi umani nelle fi- nestre – e i “buoni”, il coro greco di donne tenute prigioniere dai ceceni, in vestaglie e camicie da notte, con i loro pancioni e i neonati che piangevano, i difensori dei diritti umani che chiedevano immediate trattative con i guerriglieri, e infine i ceceni stessi, guidati da quel barbuto col kalashnikov che rilasciava con voce calma interviste intrise di micidiale ironia nei confronti dei suoi avversari, mostrando chiaramente chi stava

* Giornalista de La Stampa, per anni corrispondente da Mosca, è autrice del libro E da Mosca è tutto.

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comandando la situazione. Dopo quattro giorni accadde quello che a quel punto non poteva non accadere: il primo ministro Cernomyrdin prese in mano la cornetta del telefono e, lottando con una linea disturbata, avviò con Basaev un negoziato diretto sulle sue richieste, accettando le sue condizioni: salvacondotto per i terroristi e inizio delle trattative per la secessione della Cecenia dalla Russia.

Ci è voluto un altro anno di negoziati, combattimenti, altre prese di ostaggi e of- fensive militari per arrivare, nell’agosto 1996, dopo che i guerriglieri hanno ripreso Groznyj occupata dai russi, alla resa di Mosca ai ceceni, dopo 20 mesi di guerra. Ma è stata la presa degli ostaggi di Budennovsk a segnarne la svolta, e questo non sarebbe potuto accadere se non fosse diventata – anzi, fosse stata progettata – un evento televisivo. Negli ambienti nazionalisti e militari russi in seguito è diventato un assioma che la guerra è stata persa da Mosca non sul campo, ma nei media. Questa opinione è diventata talmente diffusa da venire inclusa perfino nei manuali di comunicazione.1 Una consolazione tipica dei generali in ogni guerra, a cominciare dal

Vietnam, ma resta il fatto che senza i media – e quindi senza un’opinione pubblica che in maggioranza per tutta la durata delle operazioni belliche si mostrò categori- camente contraria alla loro continuazione e favorevole alla pace con successivo ne- goziato sull’indipendenza della Cecenia – probabilmente già nel 1994 per Eltsin sarebbe andata come per Putin nel 1999. La prima guerra cecena è stata persa nei media, la seconda vinta sul campo di battaglia dell’informazione e della propaganda.

Il caso di Budennovsk concentrò in pochi giorni tutte le manifestazioni tipiche della copertura di questo conflitto, cominciato alla fine del novembre 1994 con un altro incidente televisivo: la dimostrazione degli ufficiali russi catturati a Groznyj durante una

covert operation che avrebbe dovuto essere spacciata per una rivolta dell’opposizione

cecena contro il regime del Presidente secessionista Dzhokhar Dudaev. Probabilmente, senza questa umiliazione mediatica Eltsin non sarebbe stato spinto a lanciare, l’11 dicembre 1994, l’invasione della repubblica caucasica ribelle. L’informazione ufficiale, fin dalle prime ore, fu scarsa e falsa, manifestandosi essenzialmente nella forma di scarni comunicati stampa del ROSh (centro dell’informazione dell’opinione pubblica dei co- mandi unificati, costituito per l’occasione), affidati a un militare di alto grado. Un tipico esempio di comunicato stampa poteva essere: “29 maggio 1995: eliminati nel corso dei combattimenti del 27-28 maggio 294 guerriglieri, un carro armato, 4 blindati, 23 automobili, un lanciagranate, una mitragliatrice, un lanciarazzi, un punto di osservazione, 6 punti di appoggio e un magazzino di munizioni. Le perdite delle truppe federali ammontano a 3 morti e 6 feriti”. Oppure 30 maggio 1995: “Le perdite dei guerriglieri nelle ultime 24 ore: 88 uccisi, un blindato, 8 automobili, un cannone antiaereo, un lan- ciagranate, un lanciarazzi. Sequestrati: 3 lanciagranate e 201 chili di esplosivi, più di 4 mila unità di munizioni diverse. Le nostre perdite ammontano a 3 morti e 8 feriti”. Gli esempi sono presi dal libro del generale Ghennadij Troshev, che delle due guerre cecene fu uno dei protagonisti più controversi.2 Il generale cita le relazioni come esempi di una

1 V. Pocepzov, PR dlja professionalov [PR per i professionisti], manuale della facoltà di sociologia

dell’Università di Mosca, 2005.

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recrudescenza sul campo, evitando di notare la contraddizione numerica che fu evidente già all’epoca ai lettori e spettatori russi: nonostante il rapporto di 3 a 100 nelle perdite umane, la guerra continuava, per quanto gli stessi generali continuavano a dare di fronte alle telecamere cifre ridicole della parte avversaria: mille, 3 mila, nella versione di Troshev 9 mila guerriglieri (anche se più avanti nel suo libro afferma che al 31 maggio 1995 ne vennero uccisi già 12 mila, quindi 3 mila in più del totale dichiarato), e bastava fare una semplice operazione di addizione per capire che, prendendo per buoni i comunicati ufficiali, tutti i guerriglieri ceceni erano già stato sterminati tre volte.

Ci volle poco perché la propaganda ufficiale – per di più narrata con un linguaggio di eufemismi legnosi, dove per esempio i guerriglieri dovevano venire chiamati “mem- bri delle formazioni armate illegali”, e la guerra “operazione per il ripristino dell’ordine costituzionale” – perse qualunque credibilità. Anche perché il quadro mediatico pre- sentato dall’altra parte era completamente diverso. Mentre i giornalisti, russi e stranieri, non avevano quasi la possibilità di accedere alle truppe federali, intervistare i soldati e gli ufficiali, i secessionisti si mostravano estremamente disponibili. Dzhokhar Dudaev, il suo vice Aslan Maskhadov, il comandante del fronte Sud Ahmed Zakaev e altri si facevano intervistare, portavano i giornalisti “embedded” nelle loro operazioni, li for- nivano di testimonianze della popolazione civile, ne garantivano l’incolumità negli spo- stamenti. Se a questo aggiungiamo il fatto che il corpo giornalistico, soprattutto televisivo, della Russia all’epoca era composto per lo più da una nuova generazione di cronisti, totalmente privi dell’indottrinamento “patriottico” sovietico, non stupisce che il quadro mediatico, soprattutto nei giornali e sul canale tv privato NTV, fu favorevole ai ceceni. Il linguaggio, una chiave di lettura dovunque, ma più che mai in Russia (ma si può vedere anche il dibattito americano a proposito di chiamare “insorti” i guer- riglieri iracheni), comprendeva perfino definizioni come “marionette” per i ceceni fi- lorussi e “carnefici” per i militari, e Gleb Pavlovskij, non ancora spin-doctor del Crem- lino, si indignava perché i media si erano trasformati in un “meccanismo nazionale di tacitamento delle opinioni alternative”.3

Ma soprattutto ci fu un meccanismo di monitoraggio permanente di quanto stava accadendo, e l’azione congiunta della popolazione cecena, delle associazioni come Memorial e dei giornalisti rese pubblici in pochi giorni, con testimonianze agghiaccian- ti, gli orrori dei bombardamenti a tappeto, dei massacri di civili, come quello dell’aprile 1995 a Samashki, e la portata autentica della battaglia in corso. Sono stati i giornalisti a raccontare quasi in tempo reale la vergogna del fallito assalto a Groznyj nei primi giorni del gennaio 1995, rivelando le vere cifre del massacro dei soldati russi, e le circostanze di un’operazione decisa dal ministro della Difesa Pavel Grachev (i particolari vennero riportati in impietose intercettazioni pubblicate dal Moskovskij Komsomolets), lanciando i carri armati e i blindati russi dentro una città che i militari non conoscevano, ad affrontare una guerriglia urbana che non gli era mai stata insegnata, e con mappe sba- gliate. Sono stati i giornalisti a mostrare i vagoni frigoriferi pieni di cadaveri non identificati di soldati russi che venivano accatastati nel laboratorio di Rostov sul Don,

generale da trincea], Mosca, Vagrius, 2001.

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dove si cercava disperatamente di dare un nome ai caduti. Sono stati i giornalisti a mo- strare come i soldatini diciottenni russi combattevano i ceceni con ai piedi le scarpe da tennis, perché gli stivaloni d’ordinanza non erano adatti a scalare le montagne, e nes- suno aveva pensato ad attrezzarli come dovuto. Sono stati i giornalisti a seguire emissari liberali russi come Serghej Kovalev fino nel bunker di Dudaev, mostrando gli appelli del leader ceceno al negoziato, nonostante le affermazioni della propaganda russa che non c’era spazio per le trattative. Fu l’informazione a produrre un movimento “pacifista” di portata mai vista prima − il 55% dei russi fu fin dall’inizio contrario alla guerra, cifra che raggiunse l’80% dopo qualche mese, mentre il 70% chiedeva negoziati di pace, anche a condizione che portassero alla secessione della Cecenia, secondo i sondaggi della Fondazione “Obshestvennoe Mnenie” (FOM) – che costrinse alla fine il primo ministro russo a fare il numero di telefono di Basaev, circondato nel suo ospe- dale assediato da giornalisti e telecamere, e promettere la resa.