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La “prima” guerra cecena, 1994-

Sin dallo scoppio della guerra, all’interno della classe politica e tra i media, si dibattono due ipotesi principali circa una possibile evoluzione del conflitto: alcuni prevedono l’allargamento della guerra e l’infiammarsi di tutto il Caucaso del nord; altri, al contrario, pensano che rimarrà un conflitto periferico, incapace di giocare un ruolo importante nella vita del paese. Questa seconda opinione è condivisa dalla popolazione, come vedremo più avanti.

Senza ritornare sulla concatenazione degli avvenimenti, bisogna però sottolineare le circostanze in cui si scatena ciò che, agli occhi di coloro che l’hanno avviata, do- veva essere un’operazione di polizia e ha preso la forma di un conflitto che dura da quattordici anni e ha contribuito a trasformare profondamente la Russia, facendola evolvere nel senso di un regime autoritario legittimato da un’ideologia nazionalista.

Quando Boris Eltsin, presidente di ciò che è ancora la RSFSR, la Repubblica sovietica russa all’interno dell’Unione sovietica, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, lotta per privare del potere Michail Gorbachev e dunque il “centro”, si rivolge alle “repubbliche sovietiche”, cioè le componenti dell’Unione sovietica, e anche alle “repubbliche autonome”, le entità autonome in seno alle repubbliche sovietiche, e le invita a prendere “tutta la sovranità che sono in grado di inghiottire”. Lo scopo perseguito è evidentemente di destabilizzare l’Unione sovietica, e questo in effetti avviene. Subito dopo il crollo dell’Unione, la Russia può, in teoria, imboccare

I RUSSI E LE DUE GUERRE IN CECENIA 157 una politica che fa appello all’autodeterminazione dei popoli (posizione sostenuta da alcuni tra i democratici schierati con Eltsin) o, al contrario, opporsi alle tendenze centrifughe. È questa seconda, come si sa, la scelta che è stata seguita. Concretamente il potere centrale russo, indebolito, offre alle entità regionali degli accordi differenti articolati in vari punti, più o meno favorevoli ad esse secondo la loro potenza. Nella cornice di questo orientamento generale, la Cecenia, che appariva poco potente, a differenza ad esempio del Tatarstan che beneficerà di un regime di favore da parte di Mosca, ma si era spinta più avanti di tutte le altre componenti della Federazione Russa nell’esigere l’indipendenza, sembrava chiamare, nella logica del potere, a misu- re rapide ed estreme.

Dall’ottobre 1991, cioè dall’elezione alla presidenza della Cecenia del generale Du- daev, che rifiuta di sottomettersi a Mosca, Eltsin dichiara lo stato di emergenza in questa repubblica. Fino al 1993, il potere temporeggia perché è troppo occupato dalla lotta al vertice tra il Soviet supremo e la Presidenza, e dalla liberalizzazione dell’e- conomia. Soltanto dopo essersi assicurato il controllo del potere, nell’ottobre 1993, e aver ristabilito la violenza come modo di governo, Boris Eltsin, su consiglio del suo entourage, si lancia dapprima nel sostegno di un’opposizione al Presidente Dudaev, poi in un intervento armato diretto. Oltre la volontà di riaffermare con un esempio, che crede facile, l’unità e l’indivisibilità della Russia, la squadra di governo pensa che una “piccola guerra vittoriosa”, secondo l’espressione utilizzata al’epoca, sia fatta a puntino per distogliere l’opinione pubblica dalle difficoltà economiche quotidiane e far di- menticare il terribile impoverimento seguito alla liberalizzazione dei prezzi del 1992 (ri- cordiamo che la liberalizzazione dei prezzi ha provocato un’inflazione tale da far eva- porare tutti i risparmi della popolazione e dimezzare i redditi nel giro di un anno).

Presto diventa evidente che, al contrario delle aspettative, lo scoppio della guerra accentua il rifiuto di Eltsin e del suo potere da parte della maggioranza della popola- zione. Questa non comprende gli scopi perseguiti con la guerra, poiché non è così contraria all’uscita della Cecenia dalla Russia e, soprattutto, non vuole la guerra. La popolazione riconosce alla Cecenia il diritto alla sovranità non perché fa riferimento a principi generali, ma perché guarda con orrore alla morte dei soldati russi, e anche della popolazione civile. All’inizio del conflitto, una buona parte della popolazione considera infatti ancora i ceceni come cittadini della Russia (rossijane), e del resto Groznyj è ancora una città multietnica con molti abitanti russi (in senso “etnico”).

Un’opposizione popolare che non si oppone

Malgrado una forte propaganda proveniente dai media filogovernativi, la popo- lazione resta poco sensibile alle argomentazioni del potere e i sentimenti anti-ceceni restano minoritari, tanto più che i media, sia la stampa che la televisione, non sono sotto il controllo totale che si instaurerà progressivamente con la presidenza Putin e i giornalisti, avendo libero accesso al terreno delle operazioni, danno un’immagine spesso favorevole dei combattenti ceceni e mostrano l’incuria del comando russo. Una giornalista come Elena Masjuk, della catena privata NTV, che appartiene al magnate della stampa Vladimir Gusinskij, diventa celebre per i suoi reportage sulla guerra, ben lontani dall’essere favorevoli al campo russo.

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Come mostrano i sondaggi, la maggioranza della popolazione è ostile al prosegui- mento della guerra e si interroga sulle conseguenze possibili dell’azione militare lan- ciata da Eltsin e dal suo entourage. In un sondaggio del settembre 1994 (dunque pri- ma dell’ingresso delle truppe federali in Cecenia), alla domanda “Quale deve essere la posizione della Russia verso la Cecenia?”, le risposte sono così distribuite2:

- restare fuori da questo conflitto (tra l’opposizione e il presidente Dudaev) 42% - non utilizzare la forza e porsi come intermediari tra le forze in conflitto 31% - sostenere con la forza l’opposizione per rovesciare i dirigenti attuali 7%

- non so 20%

Si vede che, prima dell’intervento di Mosca, l’idea di un’azione militare è comple- tamente estranea alla quasi totalità della popolazione. Un po’ più tardi, nel gennaio 1995, cioè dopo le operazioni terrestri delle truppe federali, un altro sondaggio con- ferma l’esistenza di una forte maggioranza per la pace: se il 29% degli intervistati è per misure energiche al fine di instaurare l’ordine, il 39% vuole una ricerca di vie pa- cifiche e il 24% una rinuncia all’impiego delle armi e l’evacuazione delle truppe fede- rali fuori dalla Cecenia. È sorprendente vedere come le persone intervistate non cre- dano alla guerra rapida promessa dal potere e non sanno bene cosa attendersi dal seguito degli avvenimenti, ma una buona parte di loro teme il peggio. In un sondag- gio del dicembre 1994 alla domanda “Quale sarà il seguito degli attuali avvenimenti in Cecenia?” le risposte sono:

- una guerra lunga e sanguinosa 24% (43% nel maggio 1995)

- la caduta rapida del regime di Dudaev 23%

- il ristabilimento della pace e dell’ordine in Cecenia 21% - l’allargamento del conflitto ad altre regioni

del Nord Caucaso 21% (32% nel maggio1995)

- il ritorno della Cecenia all’interno della Russia 19% - atti di terrorismo a Mosca e in altre città da parte

dei seguaci di Dudaev 19%

- l’instaurazione di una dittatura militare in Russia 7%

- non so 25%

Da un’opinione in maggioranza ostile alla guerra non scaturisce, come ci si potrebbe forse attendere, la nascita di movimenti più o meno attivi contro la guerra. Certo, si trovano degli oppositori, oltre ad alcuni organi di stampa e a giornalisti come Elena Masjuk o Andrej Babickij, ci sono delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, come Memorial e dei deputati. Tra di loro vi è Sergej Kovalev, antico dissidente, depu- tato della Duma nella frazione del partito SPS (Unione delle forze di destra), presidente della commissione dei diritti dell’uomo presso il presidente della Federazione russa, che si reca con altri deputati dei due partiti più o meno eredi del blocco di forze demo-

I RUSSI E LE DUE GUERRE IN CECENIA 159 cratiche della fine degli anni 1980, Yabloko e SPS, a Groznyj per essere testimone di quanto accade. Le sue descrizioni dei soprusi delle forze federali lo faranno odiare dai militari, che lo trattano da traditore della patria, e gli costeranno infine il suo posto presso il presidente. L’Ong “Il comitato delle madri dei soldati di Russia” si attiva. Come dice il nome, si tratta essenzialmente di madri che cercano di aiutare i figli, soldati russi, vittime del loro stesso esercito o prigionieri dei combattenti ceceni.

I partiti in quanto tali sono praticamente muti; le rare manifestazioni restano puramente simboliche e non riuniscono che qualche centinaio di persone. È sor- prendente paragonare questa assenza totale di mobilitazione con le manifestazioni che riunivano decine o anche centinaia di migliaia di persone a Mosca qualche anno pri- ma per protestare contro le repressioni sanguinose, ma limitate, di Vilnius o Tbilisi. Come se la società fosse stata capace di mobilitarsi durante un breve periodo contro il potere sovietico al tramonto, ma fosse ripiombata in una passività completa dopo lo shock delle riforme e la dimostrazione di forza del 1993 che aveva segnato chiara- mente i limiti stretti entro i quali la volontà popolare era autorizzata a manifestarsi. Una militante della defunta Unione democratica, che era stata molto attiva nel corso degli anni precedenti per instaurare quello che credeva essere un regime democratico, confidava che avrebbe voluto opporsi alla guerra in Cecenia ma che “non sapeva dove andare”. Di fatto nessuna forza politica è stata in grado di cristallizzare la latente opposizione alla guerra. Intanto, l’entità delle tangenti da versare alle commissioni di leva per ottenere l’esenzione dal servizio militare si calcolava in migliaia di dollari.

Come si è già detto, l’opposizione alla guerra non era dovuta a simpatia per i ce- ceni ma alla condanna per il modo di condurre la guerra quando, per esempio, le truppe federali furono decimate in Groznyj, e si ebbero dunque vittime russe. L’in- curia del comando militare è associata nella maggioranza dell’opinione pubblica a ciò che è percepito da essa come caos, disordine generale e perdita di potenza e di pre- stigio del paese che, da temuto e rispettato, era divenuto oggetto di disprezzo. In quel momento i russi hanno un’opinione assai negativa sia di se stessi che del loro paese.

Così l’accordo per un cessate il fuoco, trasmesso in diretta dalla televisione, tra il primo ministro Chernomyrdin e il capo militare ceceno, Basaev, che permetterà la liberazione degli ostaggi dell’ospedale di Budennovsk (giugno 1995) – la prima azio- ne terroristica di grande rilievo da parte degli indipendentisti ceceni –, e assicurerà la vita salva ai terroristi, è nello stesso tempo bene accolto dalla popolazione, che ne ha abbastanza della guerra e considera come prioritaria la salvezza della vita degli ostaggi ma, nello stesso tempo, è percepito come un’umiliazione supplementare. Questo ces- sate il fuoco non sarà rispettato. Boris Eltsin consapevole che, data l’impopolarità, sarebbe autolesionista continuare i combattimenti, lancerà infatti un programma di pace alla vigilia delle elezioni presidenziali del 1996. A trattare con gli indipendentisti ceceni sarà il generale Lebed, nominato capo del Consiglio di sicurezza in seguito alle elezioni, nel corso delle quali aveva permesso, ritirandosi dopo il primo turno, la vittoria insperata di Eltsin. Lebed riuscirà a firmare l’accordo di Khasavyurt che met- terà fine alla prima guerra con il ritiro delle truppe federali: accetterà l’elezione di un presidente della Cecenia, ottenendo in cambio il rinvio della questione della sovranità al 31 dicembre 2001.

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combattente valoroso, conserverà fino alla morte il marchio, anche lui, di traditore che avrebbe svenduto gli interessi della Russia ai “banditi ceceni”. Ma tutto ciò si ve- drà soprattutto dopo l’inizio della “seconda guerra” cecena. Nel 1996 la guerra si interrompe con un bilancio di circa centomila morti fra militari e civili; non ci sono dati precisi e le cifre variano sensibilmente: centomila è la cifra avanzata dal generale Lebed quando era segretario del Consiglio di sicurezza.