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La seconda campagna militare

La scelta degli estremisti di attuare una dura opposizione al potere non li salvò dallo scisma all’interno del movimento stesso. La parte dei radicali, che si riconosceva in Shamil Basaev, quasi all’inizio della guerra arrivò a un accordo con Aslan Maskha- dov e lo riconobbe come leader. Un’altra piccola parte invece, che costituiva lo zoccolo duro degli iniziatori del partito, rimase fedele ai suoi principi di opposizione, e più di una volta chiese che Aslan Maskhadov abrogasse il decreto che in pratica li dichiarava nemici della società cecena (il decreto, emanato in seguito ai fatti di Gu- dermes, esigeva fra l’altro l’espulsione dei leader stranieri). In quel decreto non si fa- ceva il nome dell’emiro Khattab, come è stato sottolineato più tardi da molti studiosi e giornalisti, perché egli aveva dichiarato subito di essere estraneo alla politica e di non volersi schierare con nessuna delle parti nel conflitto in corso. Il tentativo di cac- ciare l’emiro Khattab avrebbe potuto aprire un conflitto anche con Shamil Basaev, che aveva dichiarato Khattab suo fratello elettivo.

Molti ideologi russi vogliono far coincidere l’inizio della guerra con le azioni di Shamil Basaev in Dagestan nell’agosto-settembre 1999. Ma pochi sanno che la guerra era già predeterminata con l’avvento al potere di Vladimir Putin. Già nel dicembre del 1998 in una riunione del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russia, da lui presieduto, si approvò un piano per creare consenso sociale intorno all’intervento in Cecenia. Il potere aveva capito che il sostegno dell’opinione pubblica era indispensa- bile, per evitare che, come al tempo della prima campagna militare, potesse schierarsi nuovamente con i ceceni. In maggio alcuni membri del Congresso americano che simpatizzavano per i ceceni trasmisero ad Aslan Maskhadov delle informazioni: dalle foto satellitari era evidente che il trasporto e il concentramento di truppe e armamen- ti nella base militare di Mozdok (una città dell’Ossezia del Nord-Alanija e la più im- portante base militare nella regione, al confine con la Cecenia) era molto più ingente che al tempo della prima campagna militare. Già nell’agosto del 1999, ancor prima dell’intervento degli estremisti in Dagestan, l’apparato della Duma di Stato della Fe- derazione Russa trasmise ai dirigenti della Cecenia un dettagliato piano dell’interven- to militare dell’esercito russo nella repubblica, piano che in seguito fu confermato al cento per cento nel corso dell’intervento militare dell’esercito russo. Le esplosioni di case d’abitazione a Mosca, la cui responsabilità fin dai primi secondi fu attribuita ai ceceni, dovevano indurre la gente a rinunciare all’idea stessa di aiutare quel popolo. In seguito poi non si diede pubblicità alla notizia che per tali esplosioni non era stato incriminato neanche un ceceno, e durante il processo ai suoi organizzatori non si fece

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alcun nome ceceno. Il danno ormai era fatto, per l’opinione pubblica mondiale quel- le barbare esplosioni di palazzi erano ormai associate ai ceceni. Le conseguenze e il processo interessavano a pochi.

Perciò la campagna dei radicali in Dagestan fu il pretesto per l’inizio della guerra, non la sua causa. La guerra di rivincita per l’umiliante sconfitta nell’agosto del 1996 a Groznyj, la guerra di politici ambiziosi che avevano deciso di arrivare al potere sull’onda dell’annientamento dell’idea stessa di separatismo, fu ben accolta nella so- cietà russa, che ancora non si rassegnava alla perdita di una patria così potente (o al- meno così credeva) come l’Unione Sovietica.

Già all’inizio della seconda campagna militare, nell’autunno del 1999, Aslan Ma- skhadov, che come il suo predecessore era stato in precedenza ufficiale sovietico, cer- cò nuovamente di creare un esercito sul modello di quello sovietico. A questo fine organizzò il Ministero della Difesa e la Guardia nazionale, su cui posava le speranze di difesa della patria. Tuttavia, come durante la prima campagna militare, anche que- sta volta la Guardia nazionale si sciolse rapidamente dopo le prime battaglie, e il compito di salvare la patria toccò di nuovo ai reparti formati attorno a comandanti famosi e, in parte, in base al principio territoriale.

Il presidente della Repubblica Cecena d’Ichkeriya, Aslan Maskhadov, capiva che la situazione era profondamente mutata rispetto al 1994-1996, e che i russi, non in- tendendo ripetere gli errori commessi nella prima guerra, avevano cercato in ogni modo di impedire una direzione centralizzata cecena. Per questo avevano anche in- trodotto nel territorio della repubblica un’unità militare di esperti in telecomuni- cazioni, che dovevano impedire qualsiasi canale di comunicazione via etere fra i cece- ni. Inoltre le autorità russe erano riuscite a costruire un’immagine negativa di tutto il popolo ceceno e quindi ad evitare che i giornalisti simpatizzassero per i ceceni, come era avvenuto nell’altra guerra. Infine, su un territorio così piccolo, come quello della Cecenia, erano state introdotte talmente tante truppe, che qualsiasi spostamento di persone era praticamente impedito dai militari che erano dislocati lungo tutte le prin- cipali vie di comunicazione, intorno a tutti i centri abitati e su tutte le alture. Inizial- mente l’esercito russo contava oltre 200000 uomini, senza contare quelli che davano aiuto ai militari in Cecenia, ma erano stanziati nelle regioni confinanti, per esempio nella base di Mozdok, nel territorio di Stavropol’, in Dagestan, in Inguscezia e nella regione di Rostov. In pratica era la prima volta dalla fine della seconda guerra mon- diale che l’esercito russo veniva impiegato in misura così massiccia.

Per numero di proiettili per chilometro quadrato Groznyj superò perfino la città di Dresda, completamente rasa al suolo nel 1945.

Questo attacco massiccio fece sì che nel primo anno di guerra la dirigenza cecena non riuscisse in alcun modo a organizzare un comando unificato. Ciò arrecò un dan- no irreparabile ai combattenti ceceni. Uno dopo l’altro furono uccisi importanti co- mandanti, a tratti sembrò che il caos regnasse nella struttura del movimento. Aslan Maskhadov si rivelò però nuovamente più abile di tutti i generali dell’esercito russo. Come nell’agosto del 1996 aveva organizzato un assalto senza precedenti alla città di Groznyj, seppure con forze cento volte inferiori a quelle russe, così anche in questa situazione riuscì a unificare tutti i reparti delle formazioni combattenti cecene. Nel- l’estate del 2001, per la prima volta dal momento della ritirata da Groznyj, Aslan Ma-

IL FATTORE CECENO NEL NORD CAUCASO 91 skhadov riuscì a radunare praticamente tutti i comandanti di ogni livello, dai più alti gradi ai semplici comandanti dei gruppi più piccoli. Da quel momento si cercò di trovare nuove strutture che consentissero di utilizzare più efficacemente le forze con- tro l’esercito russo.

Un punto non trascurabile era la formazione e l’organizzazione nei territori circo- stanti di unità militari nazionali capaci di colpire localmente, ma fuori dei confini della Cecenia. In tal modo, già nel 2001, sorse il problema della creazione di jama’at nazionali, formate da uomini che già da diversi anni combattevano in Cecenia.

In Cecenia fin dai tempi della prima campagna militare c’erano molti combattenti appartenenti ad altri popoli del Caucaso settentrionale: ingusci, dagestani, nogai, ca- bardini, carachi, russi e balcari, che erano cresciuti e si erano temprati militarmente nelle condizioni della guerra, diventando parte del comune movimento di resistenza. A loro venne affidato il compito di trasferire le azioni militari nei territori confinanti.

Le autorità russe ignorarono i numerosi avvertimenti del presidente Aslan Ma- skhadov e di Shamil Basaev: l’espandersi del conflitto fuori del territorio ceceno sa- rebbe stato rovinoso per la Russia, che non avrebbe potuto controllare un territorio così enorme, dal Mar Nero al Mar Caspio, quando in una singola repubblica non riusciva a prendere il controllo della situazione.