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Svetlana Gannushkina *

Il tempo delle speranze coincise con l’estate del 1989. Dietro le mura del Cremlino era in corso il Primo Congresso dei deputati del popolo dell’Unione Sovietica. Parallela- mente, a Luzhinki, si svolgeva un meeting non-stop a cui affluivano partecipanti da tutta l’Unione Sovietica. La sera arrivavano i deputati che intervenivano insieme ai cittadini comuni. Gli interventi erano accesi, indignati, ma anche pieni di fiducia nel futuro. I rappresentanti dei “fronti popolari”, che si erano formati un po’ dovunque, parlavano di libertà e di democrazia, attribuendo spesso significati molto diversi a queste parole.

Un giovane esponente del Fronte popolare ceceno-inguscio dichiarava in tono in- fervorato che nella sua repubblica non potevano esistere contrasti nazionali perché i ce- ceni e gli ingusci erano vainachi. Erano un unico popolo e tutti gli abitanti della Repub- blica ceceno-inguscia non dovevano temere né di essere esiliati, né di subire rappresaglie. Ma a Sumgait, in Azerbaijan, un anno e mezzo prima c’era stato il primo pogrom contro gli armeni. Proprio durante il lavori del Congresso per parecchi giorni nel distretto di Fergana, in Uzbekistan, si erano verificati episodi terribili di cui erano stati vittime i turchi mescheti. Gli armeni fuggivano dall’Azerbaijan, gli azeri venivano cacciati dall’Ar- menia. Da tutti i territori nazionali dell’Urss, in misura più o meno marcata, un flusso di russi fuggiva verso la Russia centrale. A spaventarli erano la retorica aggressiva dei nazio- nalisti dei fronti popolari, il diffondersi dei crimini e la percezione di un senso di diffuso pericolo. Dopo la dissoluzione dell’Urss, nell’agosto del 1991, il flusso si era trasformato in un fiume in piena.

La pacifica Repubblica ceceno-inguscia non rappresentava un’eccezione. Un popolo prima unito era diviso in due: Dzhokhar Dudaev, primo generale ceceno delle Forze Armate sovietiche, giunto in Cecenia dall’Estonia, proclamò nel novembre del 1991 l’indipendenza della Repubblica cecena dell’Ichkeriya (ChRI); gli abitanti dell’Ingusce- zia al referendum votarono per rimanere nella compagine della Federazione russa. Il nuovo potere russo per i primi tempi non si oppose troppo energicamente all’ascesa al potere di Dudaev: l’ultimo leader sovietico della Repubblica ceceno-inguscia – Doku Zavgaev – nell’agosto 1991 aveva appoggiato il golpe dell’élite partitico-statale sovieti- ca. La dirigenza russa lasciava che gli avvenimenti ceceni evolvessero autonomamente, senza preoccuparsi dei cittadini che si trovavano di colpo fuori dalla sua giurisdizione.

* Presidente del Comitato “Assistenza civica”, associazione che fornisce assistenza gratuita ai profughi, e

responsabile della rete di “Emigrazione e diritto” del Centro per la difesa dei diritti umani di Memorial. Fino al 2004 è stata membro della Commissione governativa per le politiche migratorie e attualmente fa parte del Consiglio del presidente della Federazione russa per i diritti umani e lo sviluppo della società civile. L’articolo è stato scritto sulla base delle ricerche e della documentazione raccolta nel lavoro con i profughi. I materiali utilizzati sono consultabili in www.refugee.memo.ru

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Quanti russi abbandonarono la Repubblica Cecena d’Ichkeriya all’inizio dei primi conflitti bellici? È difficile dare una risposta precisa a questa domanda. Troppo spesso le cifre vengono manipolate per scopi politici. I politici, che costruiscono la propria immagine sulle battaglie per i diritti dei russi, parlano di trecentomila russi in fuga dalla Cecenia. È probabile che questa cifra sia stata gonfiata almeno di una volta e mezza. Inoltre, tra coloro che abbandonavano la Cecenia non c’erano solo russi, ma anche appartenenti ad altri gruppi etnici, e ceceni, per lo più dell’intelligentsiya.

La politica della Russia a quel tempo era orientata sull’idea di preservare nella massima misura la popolazione russa della Cecenia, e ciò ancor prima delle strumen- talizzazioni politiche che di lì a poco avrebbero giustificato le rappresaglie contro i ceceni che sarebbero continuate per anni.

Tuttavia, raccontando la storia dei rifugiati interni dalla Cecenia (Internally Displaced

Persons, IDP, che in seguito per comodità chiameremo più spesso profughi), non pos-

siamo ignorare l’esistenza di questo flusso di persone diventato pressoché inarrestabile. Nella Cecenia, rimasta priva di legami con la Russia, si assistette al crollo dell’economia e al dilagare della criminalità. Naturalmente, a soffrirne furono soprattutto i russi: in primo luogo per la loro vulnerabilità rispetto ai clan, alle tribù e alle famiglie. Terro- rizzati dalle folle che scendevano in piazza al grido di “Allah, akbar!” (un’esclamazione che, se tradotta in una formula più ecumenica, adatta a tutti i credenti – Dio è grande! – non avrebbe avuto in sé nulla di aggressivo), i russi, che non avevano attività econo- miche in proprio nei villaggi, che avevano perso il lavoro ed erano stati cacciati dalle loro case, cercavano di trasferirsi nelle regioni centrali della Russia.

La Russia li accolse tutt’altro che calorosamente. Lo Stato abituato a gestire da sé in modo autoritario l’esodo dei popoli non era preparato ad affrontare il problema. Solo nel 1993 fu emanata la legge sui “Rifugiati interni” (On forced migrants), ossia sui cittadini russi obbligati ad abbandonare il loro domicilio, il cui contenuto è ripor- tato più sotto1. Era essenziale capire che solo il riconoscimento dello status di rifu-

1 Nella legge della Federazione Russa sui “Rifugiati interni”, sono contemplati in un unico testo sia i cittadini

russi costretti a emigrare in Russia da altri paesi sia i rifugiati interni (IDP). La legge sui “Rifugiati interni” è stata emanata in un secondo tempo dopo la legge della Federazione Russa “Sui profughi”. Il risultato è che la tipologia del rifugiato interno non differisce quasi per nulla da quella del profugo con la sola differenza che il rifugiato interno è cittadino della Russia. La persona che fa richiesta di ottenere lo status di rifugiato è tenuta a dimostrare di avere subito delle discriminazioni sul piano etnico, religioso, politico o sociale. Particolarmente difficile è la condizione delle vittime di conflitti armati o di azioni militari. Nel caso in cui lo Stato stesso è parte in causa nel conflitto, il rifugiato è ritenuto da esso colpevole e lo Stato rifiuta di prestare qualunque forma d’aiuto corrispondente. Nella definizione della tipologia del rifugiato interno è contenuto anche un riferimento ai disordini di massa. A causa dell’ambiguità della formulazione, non è chiaro se si consideri il profugo come un figura a se stante, oppure se sia compreso nella categoria più ampia costituita dalle persone che hanno subito discriminazioni. Tale ambiguità ha fatto sì che, a differenza che nel periodo dal 1991 al 1996, ossia prima e durante la “prima guerra cecena”, lo status di rifugiato interno non venisse di fatto riconosciuto alle vittime delle azioni militari degli anni 1999-2004. Le autorità hanno cominciato a interpretare la definizione di rifugiato in modo diverso dal 1996, quando i “disordini di massa” giustificavano il riconoscimento dello status di rifugiato interno. La ragione di ciò è semplice: la prima ondata di cittadini ceceni era costituita prevalentemente da russi. All’inizio della “seconda guerra cecena” invece a uscire dalla Cecenia erano in massima parte ceceni, dato

LA RUSSIA È GRANDE, MA NON VI È UN LUOGO DOVE RIFUGIARSI 131 giato interno dava speranza di contare su un aiuto da parte dello Stato.

Ad acquisire lo status di rifugiati interni prima dello scoppio della “prima guerra cece- na” furono 81000 fuoriusciti dalla Cecenia. Ma anche loro, di regola, non avevano rice- vuto aiuti e avevano dovuto arrangiarsi da soli. Si trattava di persone con titolo di studio, ingegneri, insegnanti, artisti, che avevano dovuto vendere le proprie case per un’inezia e trasferirsi in villaggi russi dove non avevano né una casa, né un lavoro e dove la popola- zione locale aveva spesso un atteggiamento ostile nei confronti della loro diversità. Queste persone hanno continuato a coltivare un profondo rancore verso chi si è mostrato indif- ferente alla loro sorte.

Il problema del reperimento di un alloggio per i profughi ceceni, fuggiti dalla loro terra e trasferitisi nelle altre regioni, non è stata a tutt’oggi risolto. Sono in molti a non aver trovato ancora un tetto.

Ma si può definire come conflitto interetnico quanto è avvenuto in Cecenia al tem- po di Dzhokhar Dudaev? Certo non mancavano i sentimenti russofobi. Come nel resto del territorio post-sovietico, di là dalla tanto sbandierata perenne amicizia tra i popoli, cominciò anche qui una sorta di resa dei conti per le umiliazioni, ferite e offese subite. Ad avere il sopravvento era il desiderio di mettere da parte il “fratello maggiore” non solo nella sfera politica, ma anche nella vita quotidiana. “Vivevamo lì senza avere il

coraggio di alzare la testa –, racconta una delle profughe russe. – Quando mio figlio e il bambino dei vicini litigarono, li castigai entrambi. La vicina fece irruzione in casa mia minacciando me e tutti i russi di rappresaglie e dicendo che era venuto per noi il momento di tornarcene in Russia”. Poteva anche accadere che il discorso non si fermasse alle

minacce teoriche e che molti si vedessero costretti a vendere per pochi spiccioli la pro- pria casa per racimolare almeno il necessario per le spese di viaggio dalla Cecenia.

La guerra spazzò via il passato

Nella notte di Capodanno del 1995 l’aviazione russa cominciò a bombardare la città di Groznyj, capitale della Cecenia, “intrattenendo” i suoi abitanti con “fuochi d’artificio” che non avrebbero mai dimenticato. E non solo loro, ma anche chi seguiva gli eventi ceceni in corso. L’incaricato per la difesa dei diritti umani della Federazione russa, Sergej Kovalev, si era recato in visita a Groznyj con un gruppo di deputati e operatori delle or- ganizzazioni umanitarie, cercando con la sua presenza di scongiurare la tragedia. Per l’intera notte rimanemmo in attesa di notizie dalla Cecenia, ma anziché le notizie, per tutto il tempo vennero mandati in onda su tutti i canali degli insopportabili programmi d’intrattenimento di Capodanno. Solo il mattino dopo il mondo seppe che l’aviazione russa aveva bombardato la città con i suoi abitanti e i loro rappresentanti.

Non era entrato in vigore il decreto governativo dell’inizio di dicembre del 1994

che era diventato di fatto impossibile sfuggire ai bombardamenti e agli abusi dei militari. I diritti dei rifugiati interni sono limitati. La legge prevede per loro varie forme di sostegno statale nel reperimento di una sistemazione: sussidi per l’acquisto di un alloggio, assegnazioni di alloggi alle fasce più deboli, sistemazione presso Centri di accoglienza temporanea (CVR). Tuttavia, la legge non definisce né i tempi, né l’obbligo diretto dello Stato nel garantire un tetto ai rifugiati interni.

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sull’evacuazione dei civili. I cittadini di Groznyj non riuscivano ancora a credere a quanto avveniva sotto i loro occhi, e già i proiettili colpivano le loro finestre – con “precisione da orafi”, secondo le parole del ministro della Difesa della Federazione russa – e distruggevano le loro case, ferendo e mutilando le persone. Al rombo del primo aereo in avvicinamento, gli abitanti si precipitavano in cantina in preda al pa- nico. La cantina della donna russa che aveva castigato il bambino ceceno non era molto profonda e lei e il bambino terrorizzati temevano che i proiettili squarciassero il pavimento, colpendoli a morte. Dopo ogni incursione la vicina di casa correva da lei e le diceva: “Ma perché non vi trasferite a casa nostra?” racconta la donna. “Ma non

sei stata tu a dire che tutti i russi bisognerebbe ammazzarli?” “Ma lo sai quante se ne

dicono in preda alla rabbia. Vieni da me, bisogna essere uniti davanti alla morte”. I

proiettili non risparmiavano nessuno, colpivano la gente per strada, chi era nei pressi e trovava i corpi mutilati li seppelliva lì, direttamente sulla soglia di casa, ricoprendoli appena di terra. I soccorsi medici non esistevano. Le famiglie cecene colpite dai bom- bardamenti cercava di rifugiarsi nei villaggi d’origine poco toccati dalla “prima guerra cecena”. Gli abitanti che non erano originari della Cecenia non sapevano dove fug- gire. I cadaveri e i feriti gravi venivano abbandonati nelle vie, e tra loro anche i soldati dell’Armata russa erano lasciati lì a morire.

Nelle città russe comparvero i primi profughi scampati alle bombe. Quasi nudi, malgrado l’inverno, e sconvolti: com’era possibile che uno Stato bombardasse i propri cittadini? “Riuscite a immaginare ciò che sta accadendo? Ci hanno venduto! Prima ci

hanno lasciato senza aiuti e ora ci annientano!” – dicevano.

Uscire da Groznyj non era facile. Approfittando delle brevi pause, gli abitanti ri- salivano dalle cantine per vedere che cosa accadeva fuori. Chi aveva la fortuna di scorgere un autobus vi montava sopra, così come si trovava, pur di fuggire dall’inferno. “Benve- nuti all’inferno!” – avrebbero scritto poco tempo dopo all’ingresso di Groznyj. Le autorità dichiaravano che attraverso la radio locale avrebbero comunicato le possibili vie di fuga dalla città. Ma la gente non ascoltava i comunicati. In molte case i mezzi di comunica- zione non funzionavano e nelle cantine non arrivava il suono degli altoparlanti. Alcuni te- merari riuscirono a fuggire autonomamente, diretti da parenti, amici o in nessuno luogo. Quando gli abitanti accoglievano presso di sé dei profughi, a farsi carico di tutto erano gli ospitali padroni di casa. In verità, il Ministero delle politiche sociali della Federazione Russa dall’ottobre del 1993 aveva concesso ai pensionati giunti dalla Cecenia di riscuotere la pensione nel centro abitato per loro più comodo. Tuttavia, in qualche regione questa regola funzionava solo se si esibiva il certificato di residenza o lo status di rifugiato.

L’istituto sovietico della propiska, il permesso di soggiorno o residenza, continuava a esistere; soltanto che ora aveva cambiato nome e si chiamava certificato di residenza. Un certificato di residenza, anche se temporaneo, era difficile da ottenere per un profugo; in alcune regioni esisteva la norma della metratura: se i metri quadri non erano sufficienti, allora non si potevano registrare ospiti. Spesso erano gli stessi padroni di casa a essere contrari alla registrazione degli inquilini, nel timore che co- storo potessero poi accampare dei diritti sui locali; vi erano direttive che invitavano a non registrare i ceceni. Senza registrazione i profughi non avevano diritto a un’assi- stenza sanitaria adeguata, non venivano presi al lavoro e non potevano frequentare gli istituti scolastici delle amministrazioni locali.

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Quando non esisteva alcuna possibilità di trovare asilo, i profughi correvano in cerca d’aiuto all’Ufficio del Servizio federale di Migrazione (FMS). Il bilancio dell’FMS preve- deva un primo intervento d’aiuto per i profughi consistente in un’indennità una tantum di 5000 dollari a persona. Spesso gli operatori dell’FMS non avevano la possibilità di corrispondere questo denaro. Tutto ciò che potevano fare era inviare i più bisognosi e i più deboli nei Centri di accoglienza temporanea (CVR) nelle diverse regioni della Russia.

Nel 1995 questi centri erano solo 15 e in parte già occupati dai profughi dei paesi della CSI. Per i rifugiati della Cecenia restavano in tutto circa tremila posti.

Quasi tutti i centri erano ubicati lontano dai grandi centri urbani. I loro ospiti erano isolati dal mondo e soffrivano di una sorta di claustrofobia, di terrore dei luoghi chiusi. I vecchi si ritrovavano di colpo privati come del proprio sangue, delle biblioteche messe insieme in tanti anni (i libri ritornavano più di ogni altra cosa nei loro ricordi), del loro ambiente e delle loro abitudini. I bambini non avevano nulla da mettersi addosso per an- dare a scuola e i genitori non potevano permettersi di comprare loro né una mela, né un paio di scarpe.

Il sistema di sopravvivenza dei profughi nei centri era soggetto a varie regole. A ciascuno toccava la misera somma di poco meno di un dollaro al giorno. Nel caso di una famiglia la somma veniva riscossa tutta intera una volta al mese e ancora la situazione appariva gestibile, ma quando al posto del denaro venivano distribuite le tessere per l’acquisto di generi alimentari nei negozi che avevano stipulato una convenzione speciale, allora per i profughi andava malissimo. “La mamma si era ammalata – ricorda l’ospite di un centro vicino a Saratov. – Siamo riusciti con difficoltà a trovare un medico che le ha pre-

scritto dei farmaci, ma non avevamo i soldi per comprarli. Sono andata al negozio e ho prega- to i clienti che stavano lì di darmi del denaro in cambio delle tessere, ma nessuno accettava, la gente non capiva che cosa fossero. Alla fine la commessa ha preso le mie tessere per metà del loro valore e così sono andata in farmacia. Vivevamo nella penuria. Non potevamo comprare il sa- pone, non avevamo neppure la biancheria.” Le cose andavano anche peggio per i profughi

che erano costretti a mangiare nelle mense dei Centri di accoglienza. Tutte le loro sostan- ze se ne andavano per questo servizio, il cibo era scadente e loro rimanevano senza soldi.

Per i profughi non c’era lavoro da nessuna parte. Trovare un posto da donna delle pu- lizie o da idraulico all’interno dei centri era ritenuta una fortuna. Ma allora si correva il ri- schio di non avere più diritto alle tessere per i generi alimentari. Lo stipendio degli ope- ratori del centro era talmente basso che costoro arrivavano a invidiare i profughi ospitati.

L’iniziale sensazione di gioia per essere scampati cedeva ben presto il campo allo smarrimento, allo sconforto e a un sentimento di oppressione dovuto al peso dei ter- ribili ricordi: “Io e mia moglie abitavamo al secondo piano. Lei era malata e non poteva

alzarsi dal letto. La nostra casa fu colpita da una bomba e prese fuoco. Era impossibile u- scire. Feci una corda con un lenzuolo, la legai al telaio della finestra e mi calai. Di sotto non c’era nessuno che potesse aiutarmi a spegnere l’incendio e a salvare mia moglie. Or- mai sono mesi che non riesco a dormire, sento la sua voce che mi chiama… Non so con chi parlarne, ciascuno ha il suo dolore e poi da noi non si usa parlare delle proprie soffe- renze…”. Sperando di sentirsi più sollevato, l’anziano ceceno malato aveva confidato

la sua storia agli operatori umanitari in visita al centro di accoglienza.

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che avevano diritto a vitto e alloggio per tre mesi, omettendo però di aggiungere, che per legge, nell’arco di quei tre mesi, le autorità erano tenute a riconoscerli come rifu- giati interni e a fornire loro un domicilio stabile.

La tendenza era di non dare ospitalità ai ceceni nei Centri di accoglienza. La ce- cena Tais, madre di quattro ragazzini ancora minorenni, si era rivolta a un centro: “all’inizio ci avevano detto di non poterci accogliere, ma poi si pentirono, ci accolsero e ci

diedero le tessere per il cibo, ma ci rifiutarono l’indennità”, ricorda la donna.

Non si trattava di un abuso delle autorità locali, al contrario, le autorità locali ave- va sconfinato oltre i loro poteri per venire incontro alla famiglia cecena. Proprio all’i- nizio della guerra, il 27 dicembre 1994, tutti gli uffici migrazione locali avevano rice- vuto un telegramma contenente una direttiva del direttore dell’Ufficio del Servizio federale di Migrazione: “In relazione agli avvenimenti accaduti nella Repubblica Ce- cena, è fatto divieto di registrare i cittadini di nazionalità cecena, residenti nelle regio- ni della Federazione Russa, come rifugiati interni…”.

Il testo del telegramma fu letto il 29 novembre 1995, nel corso dell’assemblea del Movimento antimilitarista che si svolse a Mosca al Centro parlamentare dove si raccol- sero centinaia di manifestanti contro la guerra, esponenti di organizzazioni sociali, in- tellettuali e politici (la prima ondata di interventi militari aveva suscitato nella società una vivace protesta che poi, sotto l’influenza della propaganda, era andata progres- sivamente scemando fino all’ascesa al potere di Vladimir Putin quando ad alimentare la