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Le prese di ostaggi: Dubrovka e Beslan

La guerra in Cecenia, finita a parole ma non nei fatti, continua alla periferia estrema dell’immaginario russo fino alla tarda sera del 23 ottobre 2002, quando un commando ceceno prende in ostaggio il pubblico del teatro alla Dubrovka. Eludere la guerra non è più possibile: nella sala ci sono 850 persone, moscoviti della classe media che possono permettersi la sera uno spettacolo musicale, tutti con in tasca un telefonino, tutti con a casa parenti e amici che li aspettano. La notizia sta accadendo nel pieno centro di Mosca, e il filo spinato e i cordoni militari che con successo isolano il Caucaso non funzionano nella capitale. È la prima volta che la Russia viene colpita nel suo cuore, e lo shock mediatico fa tornare ai tempi di Budennovsk, anche perché il regista occulto dell’assalto orchestrato dal giovane comandante Movladi Baraev è il solito Shamil Basaev, che chia- ramente ha in mente una replica del suo dramma più riuscito. I terroristi chiedono subito un contatto con i media, per rivelare il loro messaggio – indipendenza alla Cecenia, come sette anni prima – e, nonostante la cinta di polizia intorno al teatro, le informazioni filtrano. Tra i terroristi e i giornalisti si crea un’interazione complessa, dolorosa, a tratti moralmente angosciante, il cui primo assaggio si ha subito, la prima sera: il produttore dello show, Alexandr Zekalo, racconta davanti alle telecamere che alcuni attori sono riusciti a scappare dai camerini situati sul retro e i terroristi – che hanno un televisore – chiudono immediatamente quella via di fuga. I dilemmi diventano atroci: il direttore della radio Eco di Mosca Alexej Venediktov viene costretto a dare la diretta a un terrori- sta, che in cambio promette di liberare una bambina. Le autorità insistono per non offrire spazio mediatico ai ceceni, ma la pressione dell’opinione pubblica – ormai quasi inesi- stente nel Caucaso isolato in una quarantena informatica – è troppa, i canali di fuga delle notizie tanti, e i cronisti dell’NTV riescono a entrare con le telecamere nel teatro oc- cupato e a mostrare ai russi uno spettacolo fino ad allora visto solo su Al Jazeera: giovani

LA GUERRA IN CECENIA ATTRAVERSO I MEDIA RUSSI 175 donne con il velo nero e il corpetto esplosivo. Il complesso gioco di informazione e disin- formazione, al quale i giornalisti partecipano solo parzialmente consenzienti, viene spez- zato all’alba del 26 ottobre, quando l’NTV comincia a mandare in diretta – salvo poi interrompere la trasmissione – l’assalto delle teste di cuoio al teatro, e mostra il macabro spettacolo dei corpi degli ostaggi senza vita, avvelenati da quel gas di cui ancora si igno- rava l’esistenza, e che avrebbe ucciso 127 delle 129 vittime della strage.

La tragedia segna uno spartiacque nella informazione sulla Cecenia, e nella libera informazione in quanto tale. La Duma discute a lungo emendamenti draconiani alla legge sui media, che alla fine vengono bloccati da Putin, ma i direttori dei media filo- governativi firmano l’8 aprile 2003 una Carta antiterrorismo nella quale si impe- gnano a non dare voce agli estremisti, non trasmettere le loro opinioni, non inter- vistare le vittime del terrorismo e i loro familiari, e a seguire nella copertura mediatica degli atti terroristici le indicazioni delle autorità. Il sociologo Daniil Dondurej – di- rettore della rivista L’arte del cinema, membro del Consiglio per la cultura presso la presidenza e convinto sostenitore da anni della teoria che la tv e la cultura in generale hanno il compito di formare i valori e le opinioni dei russi – formula il concetto di controterrorismo mediatico: “I terroristi progettavano questa presa di ostaggi per col- pire la nazione attraverso la televisione. Il loro programma infernale è fatto esclusi- vamente per la tv. Hanno trasmesso lo shock e la paura a tutto il Paese, diventando le star assolute della scena mondiale. E la televisione ha partecipato, indirettamente, a questo orribile allestimento”.6 Una nuova ondata di licenziamenti e proibizioni in-

veste i media privati, soprattutto la già semidevastataNTV, colpevole di aver avuto un ultimo scatto di professionalità, andando in onda con la diretta dell’assalto. Il cam- biamento di clima è drastico e può venire registrato in pochi giorni, anche sulle stesse testate. Il 25 ottobre 2002 le Izvestia erano estremamente critiche:

Ci hanno ripetuto che la guerra cecena sta per finire, che è passata dalla fase attiva a qual- cos’altro, che i banditi sono sempre meno numerosi, solo un paio di migliaia. Poi ci hanno detto che la colpa di tutto è della Georgia che nasconde i banditi in una valle profonda. Ma più li si combatte e più numerosi diventano. Il presidente Putin deve decidere cosa fare della Cecenia, che non vuole far parte della Russia. Dell’esercito, che non riesce a costringerla a re- stare in Russia. Con i servizi segreti che non sono capaci di prevenire gli atti terroristici. Tre giorni dopo, l’editoriale cambia tono:

Abbiamo tutti visto di avere dei corpi speciali in grado di prendere d’assalto un edificio minato, nonostante pochi avessero creduto che qualcuno ne sarebbe uscito vivo. Abbiamo visto di avere soccorritori e medici capaci di fare quasi l’impossibile. Ma vincere la batta- glia non significa vincere la guerra. Non è possibile vincere una guerra così solo con i corpi speciali. Lo può fare solo una nazione unita. La gioia della vittoria che abbiamo ottenuto non deve diventare compiacimento. Il nostro nuovo mondo non è ancora stato costruito. Dobbiamo trarne delle lezioni.

La firma sotto i due editoriali è la stessa. Ma il segnale che il potere ha mandato

ANNA ZAFESOVA 176

ai ceceni – niente più telefonate, niente più ricatti mediatici ed emotivi, niente pietà – è stato recepito anche dai russi.

Due anni dopo a Beslan, dove una scuola elementare, con studenti e insegnanti, viene presa in ostaggio, la sensazione della tragedia incombente è ormai totale. I casi di fermi di giornalisti con i pretesti di sempre nuovi accrediti sono ormai decine, al- cune troupe tv vengono allontanate dal luogo della tragedia, si registrano pestaggi e intimidazioni dei cronisti. Le informazioni vengono fornite con il contagocce, ma soprattutto scatta ormai in piena misura l’autocensura: nessun giornalista russo osa contestare la cifra ufficiale di 354 ostaggi, emessa il 1° settembre 2004, primo giorno della tragedia. In seguito si scoprirà che già nelle prime ore a Beslan tutti sapevano – inevitabilmente, trattandosi di una città piccola – che gli ostaggi erano almeno 900. La cifra falsa suona come una condanna per i familiari dei prigionieri, e per gli stessi ostaggi: nella scuola c’è ovviamente un televisore, e una bambina scampata ai terro- risti racconta che il commando dopo aver sentito in tv il fatidico numero ha comin- ciato a maltrattare i ragazzini, negando loro l’acqua e ironizzando sul fatto che “per le autorità voi non esistete, vi hanno già cancellato”. Questa cifra produrrà nei giorni successivi anche aggressioni violente della popolazione locale contro i giornalisti, ritenuti colpevoli e complici della bugia del potere.7

È la prima volta che il campo informativo viene totalmente bloccato dal Crem- lino. Gazeta.ru scriveva in quei giorni:

Putin ha deciso di bloccare tutte le richieste dei terroristi, quella principale e quelle collate- rali. La logica è chiara: fossero filtrate, tutta l’Ossezia e buona parte della Russia avrebbero spinto per soddisfarle. Per Putin avrebbe significato venire messo in un angolo e forse perde- re la Cecenia.

Ma la nuova regola è: niente patti con l’opinione pubblica. Chiunque avesse potuto svolgere un ruolo informativo fuori dai ranghi viene fermato: Andrei Babickij viene ar- restato all’aeroporto di Mosca per “atti di teppismo” mentre sta per partire per Beslan, Anna Politkovskaya riesce con un trucco a salire sull’aereo, ma viene ricoverata subito do- po l’atterraggio a causa di un avvelenamento misterioso, dopo che l’hostess serve alla gior- nalista una tazza di tè, il cui contenuto non è mai stato indagato. Entrambi i giornalisti non negavano di voler svolgere a Beslan non soltanto il loro lavoro, ma nei limiti delle possibilità anche un’attività di mediazione facilitata dai loro buoni rapporti con i vertici indipendentisti, ma anche cronisti meno famosi subiscono una pressione brutale e perma- nente. La commissione della Osce per la libertà di stampa in un suo rapporto successivo accuserà esplicitamente per bocca del suo presidente Miclos Harasti le autorità russe di “incapacità di offrire informazioni veritiere e tempestive, minando le basi della democra- zia russa e provocando in Russia e all’estero diffidenza verso il governo e i media russi”.8 A

Mosca avviene probabilmente l’ultimo licenziamento di un giornalista a causa della vi- cenda cecena: il direttore delle Izvestia Raf Shakirov viene mandato via per aver dedicato la prima e l’ultima pagina del suo giornale alle foto shock dei bambini di Beslan, mas-

7 Novaya Gazeta, 5 settembre 2004. 8 Reuters, 16 settembre 2004.

LA GUERRA IN CECENIA ATTRAVERSO I MEDIA RUSSI 177 sacrati dalle pallottole, in fuga disperata, terrorizzati per il resto della loro vita. Oleg Panfi- lov, direttore del Centro di giornalismo estremo, sintetizzerà l’accaduto così: “La cosa più importante è che gli eventi di Beslan hanno diviso i media russi in due gruppi diseguali: la stampa statale che si dedica soltanto alla propaganda della versione ufficiale, e un piccolo gruppo di indipendenti. Inoltre, vengono utilizzati attivamente diversi tipi di censura, l’autocensura, la censura interna alle redazioni, e la censura del padrone”.