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1.3 F ENOMENOLOGIA E SCIENZA

1.3.4 Esistenzialismo e umanismo

Sarà proprio durante un convegno sul tema Filosofia e antropologia che Derrida espliciterà l’elemento paradossale della congiuntura Hegel-Husserl-Heidegger nella Francia post-bellica, simbolicamente rappresentata dalla filosofia di Sartre:

Dopo la guerra, con il nome di esistenzialismo, cristiano o ateo, e collegato ad un personalismo fondamentalmente cristiano, il pensiero che dominava in Francia si presentava come essenzialmente umanista. Anche non volendo riassumere il pensiero sartriano nello slogan «l’esistenzialismo è un umanismo», si deve riconoscere che, nell’Essere e il nulla, nelle Idee per una teoria delle emozioni, ecc., il concetto centrale, il tema di fondo, l’orizzonte e l’origine irriducibili, è ciò che viene a quel tempo chiamata «realtà umana»148.

«Realtà umana» è una traduzione «per tanti aspetti mostruosa» del Dasein di Heidegger, e proprio tale forzatura è da cogliere come un sintomo: si rivela infatti qui il progetto di ripensare la nozione di uomo, metafisicamente troppo carica, in favore di un concetto più neutrale, sulla scia della

146 M. Foucault, «La vita: l’esperienza e la scienza», cit., p. 318.

147 Ivi, p. 317.

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fenomenologia trascendentale di Husserl e della lettura antropologica dei testi di Hegel e di Heidegger. La congiuntura delle tre H entra quindi in Francia nella forma di un colossale fraintendimento, che ignora sistematicamente l’esplicita presa di distanza di ciascuno di questi tre autori dall’umanismo. Passata l’onda antropologica, scrive ancora Derrida, ci si sarebbe potuti attendere un ritorno alle critiche già poste da quegli autori all’umanismo, un recupero strategico dei testi fino a quel momento ignorati o trasfigurati per dar manforte alla nuova postura filosofica; anche in questa seconda fase però, la lettura di Hegel, Husserl e Heidegger è rimasta marginale, e l’unico risultato ottenuto è un «amalgama» che li confina, ancora una volta, nella regione disegnata da Sartre. Derrida si interroga allora sugli elementi che hanno fatto sì che tale lettura fosse possibile, ossia su ciò che nel gesto anti-antropologico di questi tre autori fa segno a una dichiarazione di umanismo; nel caso di Hegel e di Husserl, tale ambiguità si trova proprio nel telos o eskhaton dell’uomo149, dunque in ultima istanza nel loro residuo kantiano. In Heidegger invece le cose sembrano essere più

complicate. Anche in questo caso, l’ambivalenza si inserisce nella «posizione del noi nel discorso»150;

dopo averne apprezzato i meriti, chiarendo la distanza tra il Dasein e la coscienza soggettiva, Derrida specifica che il Dasein è l’ente che noi stessi siamo, e che proprio questa adesione all’umanità lo

costringe nella morsa dei problemi classici della metafisica151. In altre parole, «si vede dunque che il

Dasein, se non è l’uomo, non è tuttavia altro che l’uomo»152, raddoppiamento che sta alla base delle

storpiature antropologiche di marchio francese. Si capisce a questo punto l’insistenza sulla duplicità dell’espressione «fine dell’uomo»: il discorso sull’essere è un discorso che porta con sé la doppia tensione del telos e della morte. Rifiutare l’umanismo significa dunque, in ultima istanza, rigettare

149 Cfr. ivi, pp. 167-169: «Il rilevamento o la rilevanza dell’uomo è il suo telos o il suo eskhaton. L’unità di tali due fini dell’uomo, l’unità della sua morte, della sua conclusione, del suo compimento è racchiusa nel pensiero greco del telos, nel discorso sul telos, che è anche discorso sull’eidos, sull’ousia e sull’aletheia. Tale discorso, in Hegel come in tutta la metafisica, collega indissociabilmente la teleologia ad una escatologia, a una teologia e ad un’ontologia. Il pensiero di

fine dell’uomo è dunque sempre già prescritto nella metafisica, nel pensiero della verità dell’uomo. Ciò che oggi è

difficile da pensare, è che si dia fine dell’uomo senza l’organizzazione di una dialettica della verità e della negatività, fine dell’uomo che non sia una teleologia alla prima persona plurale. Il noi che nella Fenomenologia dello spirito articola tra loro la coscienza naturale e la coscienza filosofica assicura la vicinanza a sé dell’ente fisso e centrale per cui si attua questa riappropriazione circolare. Il noi è l’unità del sapere assoluto e dell’antropologia, di Dio e dell’uomo, dell’onto-teo-teleologia e dell’umanismo. L’”essere” e la lingua – il gruppo di lingue – che esso governa o che esso apre, ecco il nome di ciò che assicura questo passaggio attraverso il noi tra metafisica e umanismo. Ci siamo dunque resi avvertiti della necessità che lega il pensiero del phainesthai al pensiero del telos. In questa stessa apertura si può leggere la teleologia che comanda la fenomenologia trascendentale di Husserl. Malgrado la critica dell'antropologia, “umanità” è anche qui il nome dell’ente al quale si annuncia il telos trascendentale, determinato come Idea (in senso kantiano) o anche come Ragione. È l’uomo come animal rationale che, nella sua determinazione metafisica più classica, designa il luogo in cui si dispiega la ragione teleologica, cioè la storia. Per Husserl come per Hegel la ragione è storia e non c’è storia che della ragione. […] La fenomenologia trascendentale sarebbe il compimento ultimo di questa teleologia della ragione che attraversa l’umanità».

150 Ivi, p. 170.

151 Cfr., ivi, p. 174: «d’altra parte, come il Dasein – l’ente che noi stessi siamo – serve da testo esemplare, da buona “lezione” per l’esplicitazione del senso dell’essere, così il nome dell’uomo rimane il legame o il filo conduttore paleonimico che collega l’analitica del Dasein alla totalità del discorso tradizionale della metafisica».

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correlativamente il discorso sull’essere in favore di un approfondimento del ruolo del senso mediante la sua riduzione, dell’interrogazione continua del “noi siamo” attraverso la decostruzione del nostro linguaggio e discontinui «cambi di terreno», di un ragionamento sull’uomo che sia sempre biforcato alla radice, secondo l’esempio, appunto del(la) fine dello Zarathustra. Sorprendentemente però queste cifre distintive del pensiero francese contemporaneo a Derrida, pur manifestandosi nella forma di strattoni necessari a Hegel, Husserl e Heidegger, e implicitamente alla proposta esistenzialista di Sartre, non rifiutano con altrettanta nettezza il discorso intorno al sistema, rafforzando così l’analisi di Derrida sull’ambivalenza delle letture. Anzi:

L’attenzione al sistema e alla struttura, per l’aspetto per cui essa è più inedita e più solida, cioè per cui non ricade subito nel vaniloquio cultural-giornalistico o, nel migliore dei casi, nella più pura tradizione «strutturalista» della metafisica, tale attenzione, che è rara, non consiste a) né nel restaurare il motivo classico del sistema, che si potrebbe mostrare essere sempre regolato sul telos, sull’aletheia e sull’ousia, tutti valori raccolti nei concetti di essenza o di senso; b) né nel cancellare o distruggere il senso. Si tratta piuttosto di determinare la possibilità del senso a partire da un’organizzazione «formale» che in se stessa non ha senso, ciò che non vuol dire che essa sia il non-senso o l’assurdità angosciante che aleggia minacciosa attorno all’umanismo metafisico. Ora, se si considera che la critica dell’antropologia da parte degli ultimi grandi metafisici (specialmente Hegel e Husserl) veniva fatta in nome della verità e del senso, se si considera che queste «fenomenologie» ‒ che erano delle metafisiche – avevano come motivo essenziale una riduzione al senso (è questa letteralmente la proposta di Husserl), si capisce come la riduzione del senso ‒ cioè del significato ‒ prenda in primo luogo la forma di una critica alla fenomenologia. Se d’altra parte si considera che la distruzione heideggeriana dell’umanismo metafisico si attua in primo luogo a partire da una questione ermeneutica sul senso o la verità dell’essere, si capisce che la riduzione del senso si operi attraverso una sorta di rottura con un pensiero dell’essere che ha tutti i tratti di un rilevamento (Aufhebung) dell’umanismo153.

Ecco che la proposta di una Logica del senso, pubblicata da Deleuze l’anno successivo a quello in cui Derrida tiene la conferenza «Fini dell’uomo», guadagna da questa cornice concettuale la possibilità di emergere sotto il taglio teorico dell’interrogazione del percorso sartriano, quale emblema dell’ingresso in Francia dell’amalgama Hegel-Husserl-Heidegger. Senz’altro, la proposta di Deleuze fa proprio quel rifiuto dell’umanismo che Derrida indica come sforzo teorico caratteristico del pensiero francofono del suo tempo, e per sottolineare il quale cita in epigrafe, dopo i Fondamenti della metafisica dei costumi di Kant e L’essere e il nulla di Sartre, una delle frasi più note e discusse

della conclusione de Le parole e le cose di Foucault154. Rifiuto dell’umanismo che si sovrapporrà in

153 Ivi, p. 183.

154 Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, tr. it. di E. A. Panaitescu, BUR, Milano 1998: «L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra facilmente la data recente. E forse la fine prossima».

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parte al rifiuto dello stesso esistenzialismo sartriano, come testimoniato dalle vivaci reazioni alla celebre conferenza del 1945 dall’emblematico titolo L’esistenzialismo è un umanismo, che sotto la penna di Tournier assume i toni di un vero e proprio tradimento intellettuale155. Eppure Sartre ha tracciato un solco «nella direzione di una radicale desoggettivazione del trascendentale»156 (già intrapresa, forse persino con maggiore radicalità, da Bergson, ma rimasta come in sordina), arena di confronto per la discussione filosofica della generazione successiva, per la quale egli è stato, in forme diverse e con esiti diversi, ineluttabile figura di riferimento. Ed è attraverso Deleuze, che non ha mai rinnegato l’importanza di Sartre nella propria formazione, che è possibile capire quali sono le caratteristiche specifiche della goccia Sartre nella definizione di quell’incavo nella roccia della soggettivazione, già in atto, che continuerà ad essere scavato, nella determinazione quindi di quella condizione di possibilità inaggirabile per la costruzione di una nuova forma di sistema filosofico che non faccia più del soggetto il proprio fondamento. Due gli elementi che saltano subito agli occhi: da una parte, egli si concentra sui primi scritti di Sartre, insistendo sulla novità del concetto di campo trascendentale impersonale e radicalizzandone la proposta; dall’altra, Deleuze esprime un apprezzamento di ordine più generale nei confronti della postura di Sartre:

Nel disordine e nelle speranze della Liberazione si scopriva e si riscopriva tutto: Kafka, il romanzo americano, Husserl e Heidegger, le infinite precisazioni sul marxismo, lo slancio verso un nuovo romanzo… Tutto è passato per Sartre, non solo perché, in quanto filosofo, aveva il genio della

totalizzazione, ma perché sapeva inventare il nuovo157.

Il ruolo fondamentale della totalizzazione come movimento del pensiero filosofico in quanto tale è sottolineato, in questo breve scritto celebrativo di Deleuze, in più luoghi, mostrando con fermezza che è proprio questo aspetto che fa di Sartre il «nostro maestro», il maestro di una generazione: Deleuze sostiene infatti che non solo «ciò che manca oggi, ciò che Sartre seppe riunire e incarnare per la generazione precedente, sono le condizioni di una totalizzazione: quella in cui la politica, l’immaginario, la sessualità, l’inconscio, la volontà si riuniscono nei diritti della totalità umana»158, ma anche che «almeno Sartre ci consente di aspettare in maniera vaga dei momenti futuri, delle riprese in cui il pensiero si riformerà e ripeterà le proprie totalità, in quanto potenza insieme collettiva e

privata»159. Sembrerebbe dunque questa la chiave di volta utilizzata da Deleuze per attraversare senza

155 M. Tournier, Le Vent Paraclet, dans F. Dosse, Gilles Deleuze, Félix Guattari. Biographie croisée, La Découverte, Paris 2009, p. 120 : « Nous étions atterrés. Ainsi notre maître ramassait dans la poubelle où nous l’avions enfouie cette ganache éculée, puant la sueur et la vie intérieure, l’humanisme ».

156 Cfr. R. Ronchi, Il canone minore, Feltrinelli, Milano 2017, p. 142.

157 G. Deleuze, «È stato il mio maestro», in G. Deleuze, L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, tr. it.di D. Borca, Einaudi, Torino 2007, cit., pp. 95-96, corsivo nostro.

158 Ivi, p. 97.

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aderirvi quel commisto tra fenomenologia e hegelismo che passa attraverso Sartre160; un rimettere in

gioco, ancora una volta, le ambiguità, il fare dello stesso Sartre un alleato nella svolta antiumanista insistendo su quella coincidenza tra pensiero e movimento di totalizzazione che, nel suo linguaggio, prende il nome di immanenza pura. In altre parole, sembra che Deleuze compia uno sforzo simmetrico rispetto a quello portato avanti da Derrida: se quest’ultimo infatti, come si è visto, cerca i tratti ambivalenti che nell’anti-umanismo di Hegel, Husserl e Heidegger hanno potuto lasciare in Francia l’impressione di una deriva antropologica, Deleuze rilancia la questione affrontando in Sartre gli elementi del suo umanismo che si prestano al progetto inverso. L’assenza di riferimenti alla «realtà umana» o di qualsiasi altro riferimento all’Esserci in favore di una valorizzazione del tema della totalizzazione segnala inoltre una preferenza per il movimento della Critica della ragion dialettica rispetto al progetto ontologico de L’essere e il nulla, sebbene siano entrambi citati con toni lusinghieri. Scelta strategica che, unita alla ripresa del campo trascendentale in chiave antifenomenologica, permette di strappare a Sartre, in un cortocircuito tra primi testi ed esito ultimo della sua riflessione, le basi per un discorso che sia radicalmente impersonale, coincidendo infine, come vedremo, con un orizzonte acoscienziale. L’insistenza sul tema della totalizzazione come istanza filosofica indispensabile in un testo della fine del 1964 fa poi emergere il sospetto che vi sia, lungo queste pagine, un certo intento polemico nei confronti della proposta teoretica di Levinas, presentata al pubblico francese nel 1961 con il volume Totalità e infinito, il cui emblematico sottotitolo è Saggio sull’esteriorità; il sospetto poi si radicalizza ricordando che proprio nel 1964 quest’ultimo torna ad essere oggetto di dibattito in occasione della pubblicazione di Violenza e metafisica di Derrida. Riprenderemo in seguito quest’ultima considerazione, la cui funzione in questo momento si risolve semplicemente nel supportare l’affermazione deleuziana secondo la quale è sciocco chiedersi se Sartre è all’inizio o alla fine di qualcosa, ancor peggio dunque immaginare che possa chiudere una parentesi che coinvolge il secolo precedente161, perché egli, in quanto genio creatore, è sempre nel milieu e nel milieu va considerato.

160 Cfr. G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, tr. it. di G. Comolli e R. Kirchmayr, Ombre Corte, Verona 2007, pp. 18-19 : « A la Libération, on restait bizarrement coincé dans l’histoire de la philosophie. Simplement on entrait dans Hegel, Husserl et Heidegger ; nous nous précipitions comme de jeunes chiens dans une scolastique pire qu’au Moyen Age. Heureusement il y avait Sartre. Sartre, c’était notre Dehors, c’était vraiment le courant d’air d’arrière-cour (et c’était peu important de savoir quels étaient ses rapports au juste avec Heidegger du point de vue d’une histoire à venir). Parmi toutes les probabilités de la Sorbonne, c’était lui la combinaison unique qui nous donnait la force de supporter la nouvelle remise en ordre. Et Sartre n’a jamais cessé d’être ça, non pas un modèle, une méthode ou un exemple, mais un peu d’air pur, un courant d’air même quand il venait du Flore, un intellectuel qui changeait singulièrement la situation de l’intellectuel. C’est stupide de se demander si Sartre est le début ou la fin de quelque chose. Comme toutes les choses et les gens créateurs, il est au milieu, il pousse par le milieu. Reste que je ne me sentais pas d’attrait pour l’existentialisme à cette époque, ni pour la phénoménologie, je ne sais vraiment pas pourquoi, mais c’était déjà de l’histoire quand on y arrivait, trop de méthode, d’imitation, de commentaire et d’interprétation, sauf par Sartre ».

161 Di questo avviso sembra invece essere Foucault, il cui giudizio su Sartre è senz’altro più duro. Cfr. M. Foucault, «È morto l’uomo?», in Id. Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste (1961-1970). Vol. 1, tr. it. di G. Costa, Feltrinelli,

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