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2. IL SISTEMA

3.3 D ERRIDA

3.3.2 Rückfrage

Nella sua Introduzione a «L’origine della geometria», Derrida affronta la questione del rapporto tra l’oggetto ideale e il suo divenire storico seguendo le analisi husserliane sull’oggetto matematico, emblema dell’idealità: premettendo che chi si attendesse da quel testo una presentazione storica dei progressi della geometria a partire dal primo geometra rimarrebbe deluso, egli spiega le ragioni dell’impossibilità di presentare fenomenologicamente l’origine della geometria in quei termini. L’interrogazione deve infatti rivolgersi alle condizioni di possibilità della geometria come accaduto, tralasciandone dunque l’origine fattuale, che al più potrebbe rientrare in una storia delle conoscenze. Si tratta di indagare una forma di “preistoria trascendentale” comune a tutte le scienze, proprio perché indifferente all’oggetto specifico. Tuttavia, partire da tale preistoria sarebbe insensato; la geometria si è data come fatto, e questo permette di interrogarne la Erstmalgkeit, una unicità che non sta naturalmente nel singolo fatto in sé (poniamo, la scoperta del primo teorema) ma nel senso del fatto geometrico, che posso interrogare fenomenologicamente partendo dallo stato attuale della geometria. Si tratta quindi di una interrogazione della tradizione scientifica nella forma di una Rückfrage, che Derrida traduce con question en retour, mantenendo così il riferimento a una comunicazione epistolare a distanza. È questa la differenza fondamentale tra l’interrogazione fenomenologica delle scienze e la prospettiva della Weltanschauung, già criticata altrove, come visto, da Husserl: se, in questo secondo caso, l’idea alla base è un fine che si trova nel finito, ragione per la quale cambia di epoca in epoca, l’idea fenomenologica della scienza è invece una costante. La domanda che si pone adesso è sugli interlocutori di una tale comunicazione a distanza; non si tratta più, evidentemente, della monade egologica contro la quale Sartre e Deleuze si schierano, sebbene la questione sia intimamente affine a quella affrontata dalla quinta delle Meditazioni cartesiane:

In che modo può l’evidenza soggettiva egologica del senso divenire oggettiva e intersoggettiva? Come può dar luogo ad un oggetto ideale e vero, con tutti i caratteri che conosciamo: valore onnitemporale, normatività universale, intelligibilità per “tutti”, sradicamento da ogni fattualità dell’«hic et nunc», ecc.? è la ripetizione storica della questione dell’oggettività così frequentemente posta nelle cinque conferenze di Idee der Phänomenologie: come può la soggettività uscire da sé per incontrare o costituire l’oggetto?425

La soggettività qui in questione è chiaramente una soggettività di tipo comunitario, l’unica in grado

di «produrre il sistema storico della verità e risponderne totalmente»426, una sorta di sostrato comune

a tutti gli ego. L’accento però è posto sul rapporto tra oggettività e storicità, o meglio sul rapporto tra

425 J. Derrida, Introduzione a «L’origine della geometria» di Husserl, Jaca Book, tr. it. di C. Di Martino, Milano 1987, p. 113.

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le condizioni di oggettivazione e le condizioni della stessa storicità. Procedendo lungo le deduzioni husserliane, non senza esplicitarne il tratto teleologico, Derrida spiega che l’analisi del darsi dell’oggetto in generale coincide con tutto ciò che è per una coscienza pura in generale, di tutto ciò che può apparire e che, di conseguenza, non c’è differenza tra la ricerca delle condizioni di possibilità dell’oggettualità e di quelle della storia. Quando ci si chiede però qual è la prima condizione di possibilità della storia, la risposta può essere una e una soltanto: il «linguaggio». L’oggettività ideale è infatti l’elemento del linguaggio in generale.

Senza dubbio la lingua è «costituita interamente… da oggettività ideali, ad esempio, la parola Löwe (Leone) non avviene se non una sola volta nella lingua tedesca, è l’identico delle innumerevoli espressioni mediante le quali chiunque la usi427 (O., 180). La parola ha quindi una oggettività ed una identità ideali, poiché essa non si confonde con alcuna delle sue materializzazioni empiriche, fonetiche o grafiche. È sempre la stessa parola che è presa di mira e riconosciuta attraverso tutti i gesti linguistici possibili. Nella misura in cui è questo oggetto ideale che sta sempre al cospetto del linguaggio in quanto tale, quest’ultimo presuppone dunque una neutralizzazione spontanea dell’esistenza fattuale del soggetto parlante, delle parole e della cosa designata. La parola non è quindi che la pratica d’una eidetica immediata428.

Si tratta qui di un primo livello dell’oggettività ideale della parola, del suo grado primario, che separa il nome dalle sue espressioni concrete; tuttavia, essa è indubbiamente legata a una fattualità, all’esistenza della lingua tedesca e a chi la parla ad esempio, e per analizzare questo aspetto occorre accedere al grado secondario, ossia al contenuto intenzionale. È l’unità ideale del contenuto infatti che permette la traducibilità da una lingua all’altra, una identità del senso espresso che libera la parola dalla soggettività parlante che la pronuncia. Questo non toglie che la parola sia legata al leone in quanto tale, che resta “oggetto della ricettività”: «l’idealità del suo senso e della sua evocazione è

legata da una irriducibile aderenza ad una soggettività empirica»429. Derrida fa subito notare però che

nel caso degli oggetti matematici l’aderenza alla contingenza reale che si aveva nel caso del leone non si dà più. Gli oggetti della geometria sono infatti identici in ogni lingua e in ogni luogo dal

427 Traduzione modificata. Il problema in cui si incorre in questo passaggio è quello di una prima traduzione, quella che Derrida offre del testo di Husserl, in cui «z.B. das Wort Löwe kommt in der deutschen Sprache nur einmal vor, es ist Identisches seiner unzähligen Äußerungen beliebiger Personen» viene tradotto in francese con «… par exemple, le mot Löwe [Lion] n’advient qu’une seule fois dans la langue allemande, il est l’identique des innombrables expressions par lesquelles n’importe qui le vise», dove il verbo francese «viser» equivale, in contesto fenomenologico, all’italiano «intenzionare». Di fatto, Derrida introduce quindi una intenzionalità, in questo passaggio, che nel testo husserliano non era presente (come conferma anche il passaggio successivo: «è sempre la stessa parola che è presa di mira e riconosciuta»). Quando Di Martino si trova a dover tradurre «viser» utilizza l’espressione «prendere di mira», che è in effetti il significato comune tra la versione tedesca e quella francese, ma che non rende conto della forzatura derridiana, certamente non casuale, e il cui significato andrebbe senz’altro approfondito.

428 Ivi, p. 118.

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momento in cui emergono nella storia. È questa la premessa di quella storia trascendentale nella quale Husserl accompagna i propri lettori. La questione che si pone a questo punto è come può l’oggettualità geometrica innalzarsi all’idealità a partire dal suo primo sorgere «nello spazio coscienziale dell’anima

del primo inventore»430: affinché non si limiti alla contingenza di una singola presenza, occorre che

entri nel linguaggio attraverso la parola. Se il linguaggio è il luogo del senso lo è precisamente perché è la condizione di possibilità della tradizione. A chi se ne sorprendesse, ritenendo questa posizione incoerente rispetto ad altri luoghi della scrittura husserliana, Derrida risponde seccamente:

Riconoscere nel linguaggio ciò che costituisce l’oggettività ideale assoluta, tanto quanto la esprime, non è forse un altro modo di annunciare o di ripetere che l’interpersonalità trascendentale è la condizione dell’oggettività?431

Si ripropone quindi qui la questione che, come abbiamo visto, chiudeva le Meditazioni cartesiane, e sulla quale si interrogava anche Sartre, ma si ripropone prendendo le mosse dall’altra metà, ossia da una indagine intorno all’oggettività ideale in direzione dell’intersoggettività. La comunità di linguaggio diviene infatti la struttura a priori che sostiene le differenze contingenti, rendendo in linea di principio la traduzione da una lingua all’altra sempre possibile. È la coscienza di essere di fronte alla stessa cosa che permette di accedere a un «noi puro e pre-culturale»432. Questa stessa cosa è innanzitutto la Terra, il luogo della spazialità che comprende tutti gli altri elementi, oggetto d’indagine del calcolo e della geometria, terreno dal quale sorgono le prime idealità. Il lavoro di oggettivazione alla quale la Terra dà vita non permette tuttavia di considerare la Terra stessa come un oggetto: «la possibilità di una geometria è rigorosamente complementare all’impossibilità di ciò che

si potrebbe chiamare una “geologia”, scienza oggettiva della Terra stessa»433. Una scienza oggettiva

della Terra non è possibile perché la Terra funge da punto-zero per i corpi-oggetto, come il corpo proprio era il qui originario a partire dal quale la determinazione del movimento era possibile, sebbene il primo non fosse, a sua volta, in movimento. Per questa ragione, la Terra copernicana non è ancora la Terra come Bodenkörper: affinché lo sia, deve essere ridotta a un qui assoluto, pensata quindi in un eterno presente il cui unico stato adeguato è la quiete assoluta quale condizione di possibilità della quiete e del movimento degli altri mobili:

La terra è, in effetti, contemporaneamente al di qua e al di là di ogni corpo-oggetto. Essa precede ogni corpo-oggetto – in particolare la terra copernicana – come il terreno, come il qui del suo apparire relativo. Ma essa eccede ogni corpo-oggetto come suo orizzonte infinito, poiché non è mai esaurita dal

430 Ivi, p. 128.

431 Ivi, p. 132.

432 Ivi, p. 134.

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lavoro di oggettivazione che da essa procede: «La Terra è un Tutto, le cui parti… sono dei corpi, ma

in quanto Tutto essa non è un corpo». Vi è dunque una scienza dello spazio nella misura in cui il punto

di partenza di questa scienza non è nello spazio434.

Naturalmente, l’analisi della spazialità non è di per sé sufficiente a fondare una scienza. Affinché si dia una oggettività, occorre in primo luogo che la stessa persona sia in grado di riconoscere, in momenti diversi, il medesimo oggetto. Questo rapporto di me con me si gioca nel tempo, come Husserl ha analizzato altrove. Il problema che egli affronta in questo testo è come si passa dal soggetto parlante, o dalla micro comunità contingente, in questo caso quella dei proto-geometri, all’oggettività ideale del senso. Occorre che tale soggettività scompaia dietro all’oggetto ideale, che guadagna così lo statuto della perennità; se la comunicazione orale ha permesso di passare dal singolo individuo alla micro comunità, l’obiettivo è adesso quello di liberare l’oggetto dalla sincronia che caratterizza il dialogo. Per sfuggire alla comunità determinata occorre passare alla scrittura, mezzo attraverso il quale l’oggetto ideale accede alla tradizione: «nel virtualizzare assolutamente il dialogo, la scrittura

crea una sorta di campo trascendentale autonomo da cui ogni soggetto attuale può assentarsi»435. Il

riferimento a Hyppolite si fa qui esplicito:

A proposito del significato generale dell’ἐποχή, J. Hyppolite evoca la possibilità di un «campo

trascendentale senza soggetto» nel quale «apparirebbero le condizioni della soggettività, e in cui il soggetto sarebbe costituito a partire dal campo trascendentale». È certo che la scrittura, in quanto

luogo delle oggettualità ideali assolutamente permanenti, dunque dell’oggettività assoluta, costituisce un tale campo trascendentale, e che è a partire da esso o dalla sua possibilità che la soggettività trascendentale può pienamente annunciarsi e manifestarsi. Esso ne è così proprio una «condizione». Tutto ciò però non si può dire che a partire da un’analisi intenzionale che trattiene della scrittura solo il puro rapporto ad una coscienza che la fonda come tale, e non la sua fattualità che, abbandonata a se stessa, è totalmente insignificante436.

L’assenza della soggettività non può essere, per Derrida, l’eliminazione della coscienza dal campo trascendentale, come sarà per Deleuze pochi anni dopo: se Deleuze si muove in direzione delle singolarità pre-individuali, in un certo modo quindi aggirando la questione del soggetto verso qualcosa che lo precede e lo costituisce, in Derrida il soggetto individuale compare come primo attore nell’atto del suo stesso scomparire attraverso la scrittura, dissolvendosi in favore dell’oggettualità ideale, raccolta dal noi speculativo attraverso la tradizione. Per cogliere il senso di questa scomparsa,

434 Ivi, p. 139.

435 Ivi, p. 141.

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Derrida propone una ulteriore riflessione intorno alla costituzione dell’oggetto ideale, questa volta dal punto di vista della sua verità.