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2. IL SISTEMA

3.3 D ERRIDA

3.3.3 Verità, storia, senso

Seguendo ancora Husserl lungo quello che, a suo avviso, è il problema più difficile presentato nel testo in esame, Derrida nota che per passare dalla contingenza all’idealità il senso deve prima di fatto depositarsi nella mondanità, e in questo assumere una forma spazio-temporale perde in qualche modo

la sua purezza intenzionale, quindi precisamente il suo «senso di verità»437. Questo non vuol dire che

tale verità si modifichi nella sua essenza, ma che, per l’appunto, scompaia, ossia smetta di apparire di fatto. La minaccia che incombe a questo punto sulla deduzione husserliana è chiara: c’è infatti il rischio che quanto espresso fino ad ora nei termini di una possibilità costante di essere tradotto si riveli infine essere la genealogia del fraintendimento strutturale e dell’errore, della incomunicabilità totale all’interno dell’orizzonte dell’essere-in-comunità. Si chiede allora Derrida: in che modo la verità scompare? Proprio in virtù della Erstmalgkeit il senso, una volta comparso, non può morire; l’ipotesi di un oblio a livello individuale o collettivo può essere presa in considerazione solo nel momento in cui per oblio si intenda «un modo limite della coscienza»438; per quanto riguarda la distruzione fattuale della corporeità del segno, questa si limiterebbe alla cancellazione degli esemplari spazio-temporali, intaccando quindi la storicità fattuale, ossia quella esterna, senza per questo toccare però quella intrinseca. Questa distinzione esprime chiaramente la neutralità del senso rispetto ai fatti. Ulteriore ambiguità da sciogliere, a questo punto, è lo statuto della scrittura; se quest’ultima è costituente e non soltanto corporeità costituita, se cioè oltre a essere Körper è anche Leib, si capisce che vi sono due ordini di senso non comunicanti tra loro:

Benché nella parola, Körper e Leib, corpo e carne, siano numericamente, di fatto, un unico e medesimo essente, i loro sensi sono definitivamente eterogenei e niente può venire a questa da quello. L’oblio della verità stessa non sarà dunque mai altro che il fallimento di un atto e l’abdicazione ad una responsabilità, un venir meno più che una disfatta. Non si potrà farlo comparire in persona che a partire da una storia intenzionale439.

Tuttavia la parola e il linguaggio sono contraddistinti da una certa equivocità, e questa equivocità dipende dal loro derivare da una intenzione che li attraversa, e che non permette loro di esistere come oggetti assoluti. L’identità del senso si iscrive quindi sempre in «un sistema mobile di relazioni» che non permette neanche al linguaggio scientifico di dare forma a una conoscenza assolutamente stabilita. L’univocità assoluta della verità resta quindi una Idea regolativa, un compito infinito, un

437 Ivi, p. 147.

438 Ivi, p. 148.

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retaggio kantiano: come Derrida avrà occasione di riprendere altrove, il riferimento all’Idea in senso kantiano è precisamente l’irruzione dell’infinito dentro la coscienza e, al contempo, l’apertura infinita

del vissuto440. Questo non significa però cadere nel relativismo, sebbene sia la ragione per la quale

occorre prestare attenzione alle determinazioni materiali o fattuali dell’esperienza per riuscire a cogliere i significati storici dall’interno e proprio «in virtù delle strutture aprioriche universali della

socialità e della storicità»441. Questa posizione ha esposto Husserl a diverse critiche, tra cui quella

posta da Biemel, per il quale l’intera riflessione intorno alla storicità si risolve, per quanto visto sopra, in un fallimento. Nel controbattere a tale accusa, Derrida spiega invece che la raffinatezza della riflessione husserliana sta nell’aver dato al trascendentale un senso che non era implicato nella concettualizzazione kantiana. Come aveva già colto Hegel infatti, se l’invarianza o l’univocità non ci fosse, la storicità non sarebbe semplicemente possibile. Il merito di Husserl sta nell’aver fatto coincidere le condizioni di possibilità della storia con le sue condizioni concrete, intendendo queste ultime come l’orizzonte che viene esperito, sebbene non appreso, dalla coscienza che vive quel determinato momento storico:

L’orizzonte è dato da un’evidenza vissuta, ad un sapere concreto che, dice Husserl, non è mai «appreso», che nessun momento empirico può dunque fornire, poiché sempre lo presuppone. Si tratta dunque proprio di un sapere originario concernente la totalità delle esperienze storiche possibili. L’orizzonte è l’essere-già-sempre-qui di un avvenire che conserva intatta, anche quando si è

annunciato alla coscienza, l’indeterminazione della sua apertura infinita. Determinazione strutturale

di ogni indeterminazione materiale, esso è sempre virtualmente presente ad ogni esperienza di cui è al tempo stesso l’unità e l’incompiutezza, l’unità anticipata in ogni incompiutezza. La sua nozione converte dunque la condizione di possibilità astratta del criticismo nella potenzialità infinita concreta che vi era segretamente presupposta; essa fa così coincidere l’apriorico e il teleologico442.

La novità del modo in cui Husserl pone la questione del trascendentale era già stata sottolineata da Derrida nella sua tesi: il trascendentale si spoglia della purezza kantiana per assumere un ruolo

determinante rispetto all’esperienza443. Citando a quell’altezza Jean Cavaillès, ossia quello che, come

440 Cfr. J. Derrida, «“Genesi e struttura” e la fenomenologia», cit., p. 210: «È l’apertura infinita del vissuto, significata in diversi momenti dell’analisi husserliana attraverso il riferimento ad una Idea nel senso kantiano, irruzione dell’infinito presso la coscienza, che consente di unificare il flusso temporale come essa unifica l’oggetto e il mondo, per anticipazione e malgrado una irriducibile incompiutezza. È la strana presenza di questa Idea che consente anche ogni passaggio al limite e la produzione di ogni esattezza».

441 J. Derrida, Introduzione a «L’origine della geometria» di Husserl, cit, p. 171.

442 Ivi, p. 174.

443 Cfr. M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 13: «Trovare le origini delle strutture ideali, a questa altezza, significa – ecco un altro tratto che Derrida non abbandonerà mai nel seguito del suo percorso – chiarire in che modo il trascendentale può effettivamente pretendere di avere un ruolo determinante rispetto all’esperienza, che appare intrisa di schemi concettuali proprio perché questi trovano origine nello strato preconcettuale del mondo della vita, ossia in ciò che Husserl aveva identificato come momento antepredicativo (cioè anteriore alla formulazione del giudizio, che è un elemento comunque concettuale). Il nocciolo di questo progetto, e il succo del discorso, si trova in un passo della

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visto, per Foucault è l’antesignano di una lettura francofona della fenomenologia alternativa a quella sartriana, Derrida ribadiva infatti che un trascendentale a priori sarebbe semplicemente vuoto. A meno, certo, di non ripensare la nozione di apriori in direzione dell’apriori materiale di Husserl: in questo caso infatti si assume che la necessità logica non esaurisca l’ambito della necessità, ma che al contrario anche la materialità si dia necessariamente a priori, sebbene non formalmente. Riprendere a questo punto il caso specifico della geometria permette di chiarire concretamente quanto espresso teoreticamente: la geometria è una scienza materiale e astratta al contempo. Materiale, perché dall’analisi filosofica degli invarianti del mondo pre-scientifico emerge la necessità, affinché la geometria possa nascere, della presenza di «cose disposte secondo uno spazio e un tempo», cose che hanno una corporeità che non basta a se stessa, ma che è sempre presa in processi di movimento e di deformazione, e che sono in rapporto con ulteriori qualità materiali. Astratta, perché di quelle cose corporee tratta componenti eidetiche. Nella praxis poi ciò che accade è una applicazione della variazione immaginaria, attraverso la quale si ottengono dei tipi morfologici che si raffineranno in seguito (il caso preso qui in considerazione è quello del tondo, che ha già in sé l’idealità del cerchio). Resta il fatto che quando l’idealità geometrica è costituita questo antecedente fattuale non ne è più il fondamento, garantendo così, in questo superamento del finito in direzione dell’infinito, l’esistenza di una unica geometria. Si noti che ad ogni tappa di questa linea speculativa Derrida rallenta il ritmo della riflessione per poter rispondere a eventuali obiezioni: tali obiezioni non sono però più quelle con le quali Husserl si misurava, e che venivano poste prevalentemente dalle due linee maggiori dell’epoca, ossia storicismo e psicologismo. Al contrario, sono i contemporanei di Derrida a dar voce a tali critiche, primo tra tutti Merleau-Ponty, spesso citato polemicamente proprio in queste occasioni. Si capisce allora che l’insistenza di Derrida sulla interrogazione husserliana sul rapporto tra realtà e idealità, tra genesi e struttura, non è una operazione fine a se stessa; si tratta, al contrario, di riattualizzare la strategia messa in atto da Husserl all’interno di un dibattito ormai tramontato per rilanciarla contro le obiezioni mosse alla fenomenologia e allo strutturalismo da filosofi contemporanei. E nel farlo, Derrida annuncia già qui il proprio orizzonte programmatico, offrendo una proposta interpretativa per far emergere la quale si confronta con quegli autori non antagonisti, quali Cavaillès e Tran-Duc-Thao, che hanno a loro volta cercato di riattivare il potenziale fenomenologico per una filosofia dell’avvenire. La questione della soggettività e del suo rapporto con l’Assoluto in Husserl viene infatti spesso intesa lungo una sola delle due direzioni che le ricerche

Memoria, in cui Derrida cita Sulla logica e la teoria della scienza (1947) di Jean Cavaillès: una logica veramente assoluta, che traesse la propria autorità solo da sé, non risulterebbe trascendentale; un trascendentale che fosse puramente apriori e analitico non sarebbe più puro, apparirebbe soltanto più vuoto. Il gioco, qui, è abbastanza chiaro, ed è un punto rispetto a cui Derrida non tornerà mai indietro: il vero trascendentale non è un apriori situato in un mondo iperuranio, né un aposteriori determinato da come pensano le singole persone; è una struttura deposta nel mondo, una legge del conoscere (epistemologia) che dipende da una conformazione originaria dell’essere (ontologia)».

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fenomenologiche pongono: alcuni testi sembrano infatti insistere sull’affinità con la prospettiva dell’idealismo assoluto, in cui il Logos o la Ragione si esprimerebbero nella storia attraverso gli individui; altri sembrano parlare un linguaggio metaforico che ha più l’aspetto di una guida verso un Polo trascendentale inarrivabile, e che si rivolge alla soggettività finita annunciando l’orizzonte infinito della fenomenalità. Propone quindi Derrida:

Anziché ricercare freneticamente l’opzione, occorre sforzarsi verso la radice necessariamente una di ogni dilemma. Il senso della storicità trascendentale si fa intendere attraverso essa, come il Logos che sta all’inizio? Non è Dio, al contrario, solo il compimento finale e situato all’infinito, il nome dell’orizzonte degli orizzonti e l’Entelechia della storicità trascendentale stessa? Ambedue al tempo stesso, a partire da una unità ancora più profonda: questa forse è la sola risposta possibile alla questione della storicità. È attraverso la storia costituita che Dio parla e passa, è in rapporto alla storia costituita e a tutti momenti costituiti della vita trascendentale che Dio è al di là. Ma egli non è che il Polo per sé della storicità e della soggettività trascendentale storica costituenti. La dia-storicità o la meta-storicità del Logos divino non traversa e non supera che il «Fatto» come «già fatto» della storia, ma non è che il movimento puro della sua storicità. Questa situazione del Logos è profondamente analoga – e non è un caso – a quella di ogni idealità, come l’analisi del linguaggio ci ha permesso di precisare. L’idealità è al tempo stesso sovra-temporale e onni-temporale e Husserl la qualifica ora in un modo ora in un altro, a seconda che la rapporti o meno alla temporalità fattuale. È allora che si può dire che il senso puro, l’idealità dell’idealità, che non è nient’altro che l’apparire dell’essere, è al tempo stesso sovra-temporale (in-sovra-temporale, dice anche talvolta Husserl) e onni-sovra-temporale […] Se vi è una storia, la storicità non può dunque essere che il passaggio d’una Parola, la tradizione pura di un Logos originario verso un Telos polare. Ma poiché non può esservi niente fuori della pura storicità di questo passaggio; poiché non vi è Essere che abbia un senso fuori da questa storicità e sfugga al suo orizzonte infinito; poiché il Logos e il Telos non sono nulla fuori del Wechselspiel della loro ispirazione reciproca, questo significa che l’Assoluto è il Passaggio444.

Questa prospettiva rende ragione della fragilità del senso, e il percorso fenomenologico si ridefinisce alla luce del compito della sua tutela, innanzitutto riconoscendolo come storicità. Come parola infatti, come Logos espresso, il senso ripiomba nelle equivocità dalle quali occorre sottrarlo attraverso il metodico lavorio della riduzione, affinché possa riemergere nella sua verità. L’intenzionalità a partire dalla quale l’interrogazione è possibile si rivela essere, nel senso più ampio del concetto di soggettività offerto da Husserl, la tradizionalità nel suo insieme, radice della storicità pur operando al suo interno, luogo di convergenza tra senso che ritrova e storicità che vive. A questo punto, nota Derrida, si è alle soglie dell’ontologia: se l’analisi fenomenologica si spinge al punto da sostenere

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l’identità tra storia e senso, la tentazione di abbandonare il terreno del fenomeno per porre la domanda sull’Essere si fa forte al punto da non poter più essere ignorata. In ultima analisi, ogni riduzione fenomenologica sulla questione dell’origine porta inevitabilmente a sconfinare la regione fenomenologica per passare dalla domanda sul “come” a quella sul “perché”: l’interrogazione sull’origine rimanda infatti alla questione dell’origine dell’Essere come Storia, biforcandosi

immediatamente lungo le traiettorie di una doppia origine, dell’«alterità di una origine assoluta»445 o,

come suggeriva Deleuze, della seconda origine. La considerazione che chiude il saggio è della massima importanza: Derrida si chiede infatti se ciò che è sempre stato interrogato sotto il nome kantiano di trascendentale non sia poi un altro nome per «la Differenza originaria dell’Origine assoluta», dove la Rückfrage assumerebbe precisamente il ruolo di domandare contemporaneamente nei due sensi dell’origine e del Telos a partire dal presente come Presente Vivente: «trascendentale sarebbe la certezza pura di un Pensiero che, potendo attendere al Telos che già si annuncia solo avanzando verso l’Origine che indefinitamente si riserva, non ha mai dovuto apprendere il suo essere

sempre a venire»446. Si capisce che questa apertura ha come riferimento polemico ogni discorso sulla

fine del pensiero speculativo, sulla fine della metafisica e sulla riflessione intorno alla storia della filosofia fine a se stessa. L’interrogazione che Derrida rilancia a partire dall’analisi iper-fenomenologica della fenomenologia di Husserl ha come effetto l’annuncio di una dimensione costitutiva dell’Essere, di quella peculiare capacità di annunciarsi e di essere sempre oltre se stesso che solo l’analisi fenomenologica ha colto, ma innanzi alla quale la stessa fenomenologia incontra la domanda che la fa tremare: «la necessità fenomenologica, il rigore e la sottigliezza dell’analisi husserliana, le esigenze alle quali essa risponde e che dobbiamo anzitutto riconoscere, non

nascondono tuttavia una presupposizione metafisica?»447. Ne La voce e il fenomeno Derrida si chiede

infatti se l’idea stessa di una teoria della conoscenza non sia di per sé legata a una certa metafisica. Come Fink non aveva mancato di notare, Husserl non si pone infatti la questione del linguaggio che eredita e all’interno del quale si muove, e questa assunzione acritica ne compromette in principio

l’intero progetto448. Occorre dunque rilanciare l’analisi a monte del procedimento fenomenologico,

445 Ivi, p. 214.

446 Ivi, p. 215.

447 J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 9.

448 Cfr. J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 13: «E. Fink l’ha ben mostrato, Husserl non si è mai posto il problema del logos trascendentale, del linguaggio ereditato nel quale la fenomenologia produce ed esibisce i risultati delle sue operazioni di riduzione. Fra il linguaggio ordinario (o il linguaggio della metafisica tradizione) e il linguaggio della fenomenologia, l’unità non è mai rotta, malgrado delle precauzioni, delle “vigolette” dei rinnovamenti o innovazioni. Trasformare un concetto tradizionale in un concetto indicativo o metaforico, ciò non libera dall’eredità ed impone dei problemi ai quali Husserl non ha mai tentato di rispondere. Ciò viene dal fatto che, d’altra parte, interessandosi del linguaggio solo nell’orizzonte della razionalità, determinando il logos a partir dalla logica, Husserl ha di fatto, ed in un modo tradizionale, determinato l’essenza del linguaggio a partire dalla logicità come dalla normalità del suo telos. Che questo telos sia quello dell’essere come presenza, è ciò che vorremmo qui suggerire».

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in direzione quindi di quei presupposti non riconosciuti come tali e che afferiscono a quella che Derrida chiamerà la «metafisica della presenza».