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2. IL SISTEMA

3.3 D ERRIDA

3.3.4 La traccia

Come Deleuze, anche Derrida non può esimersi a questo punto della sua speculazione dall’interrogare il senso dell’avventura. Sorprende la ridondanza con la quale questo termine viene utilizzato nei suoi testi: senz’altro, l’avventura annuncia qualcosa di non ordinario, è l’inaspettato, la direzione lungo la quale la stretta del senso comune si allenta e si mette in questione il presunto già noto. L’avventura presa in considerazione in Della grammatologia è quella del linguaggio nella storia, affermatosi nella forma del fonocentrismo, il quale «si confonde con la determinazione istoriale del senso dell’essere

in generale come presenza»449. Il sodalizio tra tempo presente ed essere era già stato stretto a doppio

filo da Heidegger, per il quale la presenza (Anwesenheit) era precisamente il nome di questo ordine ontologico-temporale che si esprime nella storia. Derrida intraprende a sua volta questa direzione di ricerca, interrogando le ragioni per le quali la presenza si è affermata come luogo del pensiero filosofico e del suo logos, chiedendosi se qualcos’altro è stato messo da parte in suo favore e quali sono state le strategie affinché quel predominio potesse consolidarsi: se «la metafisica occidentale, come limitazione del senso dell’essere nel campo della presenza, si produce come dominazione di una forma linguistica»450, e in particolare «il sistema di lingua associato alla scrittura fonetico-alfabetica è quello in cui si è prodotta la metafisica logocentrica che determina il senso dell’essere

come presenza»451, una analisi incentrata sulla scrittura potrebbe offrire un accesso privilegiato alla

questione. Non si tratta, evidentemente, di saltare sull’altra riva e di sferrare da lì l’attacco contro la metafisica; al contrario il lavoro di decostruzione che Derrida propone prevede, per l’appunto, un confronto con l’antica costruzione stessa come struttura, senza che la si possa affrontare dall’esterno e senza poterne prendere in esame singoli pezzi, tralasciandone altri. Tanto più che, come visto lungo le analisi sull’Origine della geometria, la scrittura è condizione di possibilità della oggettività scientifica, quindi non si vede come potrebbe darsi una scienza del logos filosofico nelle sue determinazioni istoriali che ne prescinda. Che all’origine della storicità, intesa come origine del nostro intero mondo conoscitivo, ci fosse la grammatica era già una idea nietzschiana: la sezione del Crepuscolo degli idoli dedicata a «La “ragione” nella filosofia» si apriva infatti con una critica ai filosofi che rifiutano la storia e il mutamento e si occupano esclusivamente di concetti mummificati, senza riuscire a maneggiare nulla del reale, per concludersi immediatamente prima della

449 J. Derrida, Della grammatologia, tr. it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A. C. Loaldi, Jaca book, Milano 2012, p. 31.

450 Ivi, p. 43.

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riaffermazioni in quattro proposizioni degli errori del pensiero speculativo sul mondo con la celebre sentenza secondo la quale finché si crederà nella grammatica non ci si libererà di Dio452. Derrida cerca quindi il grammatologo come figura di riferimento per condurre questa indagine: egli avrà senz’altro una formazione di tipo storico, e potrà eventualmente trovare degli alleati in altre discipline, facendo così emergere il rimosso del logocentrismo e rendendone ragione. Il primo aiuto viene chiesto alla linguistica, in particolare alle riflessioni di de Saussure, che aveva conquistato il pubblico francese con il suo Corso di linguistica generale, nel quale la scrittura viene considerata, in accordo con Rousseau e con Hegel, un derivato della lingua e una sua regione ristretta: «la scrittura sarà “fonetica”, essa sarà il fuori, la rappresentazione esterna del linguaggio e di questo

“pensiero-suono”»453. Così facendo, Saussure esclude la scrittura dal sistema interno della lingua, relegandola

a rappresentazione di una presenza e attribuendole un valore strumentale, in quanto estensione artificiale della memoria naturale, ma anche una pericolosità intrinseca che minaccia la purezza di quel sistema. La scrittura infatti, come lato materiale del logos, si inserisce culturalmente dal punto di vista morale dalla parte del peccato, di ciò che tradisce il soffio, il verbo che parla all’anima; de Saussure si spinge fino a sostenere che la scrittura non veste, bensì traveste la lingua. Se ne conclude che la ragione per la quale si dice che una sillaba si pronuncia in tal modo o in talaltro risiede in una forma di oblio della priorità logica e ontologica del linguaggio sulla scrittura, in un «peccato di

idolatria»454 e in una «usurpazione»455 che non ha niente di accidentale. De Saussure non arriva però

a rendere conto di tale sostituzione violenta della scrittura alla propria origine, appellandosi a

insoddisfacenti ragioni di ordine psicologico456. Nonostante il predominio della parola piena, della

parola pronunciata, abbia occultato il problema dell’origine della scrittura, occorre tornare precisamente su questo punto spogliandosi di quelle dicotomie assunte acriticamente, quali interno/esterno o naturale/artificiale; l’ipotesi di Derrida è che tale rimosso abbia essenzialmente a

452 Cfr. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 44: «In realtà, nulla fino a oggi ha posseduto una più ingenua forza di persuasione che l'errore dell'essere, come fu formulato, ad esempio, dagli Eleati: esso ha anzi a suo favore ogni parola, ogni frase che pronunciamo! - Anche gli avversari degli Eleati soggiacquero alla seduzione del loro concetto dell’essere: tra gli altri Democrito, quando escogitò il suo atomo... La «ragione» nel linguaggio: ah, quale vecchia donnacola truffatrice! Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica...»

453 J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 53.

454 Ivi, p. 62.

455 Ivi, p. 64.

456 Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 65: «Ciò che qui Saussure non interroga è la possibilità essenziale della non-intuizione. Come Husserl, Saussure determina teleologicamente questa non-intuizione come crisi. Il simbolismo

vuoto della notazione scritta – nella tecnica matematica per esempio – è anche per l’intuizionismo husserliano ciò che ci

esilia lontano dall’evidenza chiara del senso, cioè dalla presenza piena del significato nella sua verità, ed apre così la possibilità della crisi. Questa è esattamente una crisi del logos. Cionondimeno questa possibilità rimane legata per Husserl al movimento stesso della verità ed alla produzione dell’oggettività ideale: essa infatti ha un bisogno essenziale della scrittura. Per tutto un aspetto del suo testo, Husserl ci fa pensare che la negatività della crisi non sia un semplice accidente. Ma allora bisognerebbe sospettare proprio del concetto di crisi, in ciò che lo lega ad una determinazione dialettica e teleologica della negatività».

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che vedere con l’intera metafisica della presenza457. Attraversando gli interstizi del Corso di linguistica, Derrida lascia emergere le incoerenze che innervano le considerazioni di de Saussure sulla scrittura, e che rispondono più a una costruzione onirica che al rigore di una logica:

Con un movimento di cui sappiamo che fece pensare Freud nella Traumdeutung, Saussure accumula argomenti contraddittori per ricavarne la decisione soddisfacente: l’esclusione della scrittura. In verità, anche nella scrittura detta fonetica, il significante «grafico» rimanda al fonema attraverso una rete pluridimensionale che li collega, come ogni significante, ad altri significanti scritti ed orali, all’interno di un sistema «totale», aperto ad essere investito di ogni possibile senso. Bisogna partire dalla possibilità di questo sistema totale458.

Parte da qui il lavorio di decostruzione dell’intera metafisica occidentale della presenza, il cui scopo è quello di fare chiarezza non solo sui singoli concetti, ma sulle apparenti contraddizioni di un movimento del quale non si riesce a dare ragione, ma che al contempo, in quanto reale, non può essere frettolosamente denunciato come falso. Prima ancora di inserirsi nella griglia significato/significante, la scrittura mostra proprio nel suo farsi un movimento che occorrerà comprendere e spiegare: «il concetto di grafia implica, come possibilità comune a tutti i sistemi di significazione, l’istanza della

traccia istituita»459. Questo non significa, specifica subito Derrida, che il significante dipenda

esclusivamente dall’arbitrio del parlante, ma semplicemente che si recide così il presunto legame naturale col significato; si tratta di un concetto che mette in questione tutte le dicotomie principali della tradizione metafisica, perché porta con sé una certa teorizzazione della differenza, della ripetizione, della questione del tempo e che rilancia lo stesso problema dell’origine, che abbiamo visto coincidere, in ultima istanza, con la questione della possibilità stessa della storicità:

Non si può pensare la traccia istituita senza pensare la ritenzione della differenza in una struttura di rimando in cui la differenza appaia come tale e permetta così una certa libertà di variazione fra i termini pieni. L’assenza di un altro hic et nunc, di un altro presente trascendentale, di un’altra origine del mondo che appaia come tale, che si presenti come assenza irriducibile nella presenza della traccia, non è una formula metafisica sostituita ad un concetto scientifico della scrittura. Questa formula, oltre ad

457 Già prima della pubblicazione di Della grammatologia il tema della non secondarietà della scrittura alla parola era fortemente presente in Derrida, come mostra in modo esemplare la critica a Levinas condotta in «Violenza e metafisica», all’interno del quale si trova quello che a posteriori può essere considerato come il piano programmatico de La

grammatologia stessa: «Si vede bene quello che Levinas intende salvare della parola viva e originale in se stessa. Senza

questa possibilità, fuori dal suo orizzonte, la scrittura non è nulla. In questo senso, sarà sempre seconda. Liberarla da questa possibilità e da questo orizzonte, da questa secondarietà essenziale, significa negarla come scrittura e lasciare campo libero alla grammatica o al lessico senza linguaggio, alla cibernetica o all’elettronica. Ma è solo in Dio che la parola, come presenza, come origine e orizzonte della scrittura, si adempie senza scadimenti. Bisognerebbe poter dimostrare che soltanto questo riferimento alla parola di Dio distingue l’intenzione di Levinas dall’intenzione di Socrate nel Fedro; che per un pensiero della finitezza originaria, questa distinzione non è più possibile. E che allora se la scrittura è seconda, non c’è nulla tuttavia che venga prima di essa», J. Derrida, «Violenza e metafisica», cit., pp. 129-130.

458 J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 71.

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essere la contestazione della metafisica stessa, descrive la struttura implicata dall’«arbitrarietà del segno», dal momento che se ne pensa la possibilità al di qua dell’opposizione derivata fra natura e convenzione, simbolo e segno, ecc. Queste opposizioni hanno senso solo a partire dalla possibilità della traccia. L’«immotivazione» del segno richiede una sintesi in cui il totalmente altro si annuncia come tale – senza alcuna semplicità, alcuna identità, alcuna rassomiglianza o continuità – in ciò che non è esso stesso. Si annuncia come tale: qui c’è tutta la storia, a partire da ciò che la metafisica ha determinato come il «non-vivente» fino alla «coscienza», passando per tutti i livelli dell’organizzazione animale. La traccia, in cui si segna il rapporto all’altro, articola la sua possibilità su tutto il campo dell’ente, che la metafisica ha determinato come ente-presente a partire dal movimento occulto della traccia. Bisogna pensare la traccia prima dell’ente460.

Il pensiero della traccia propone dunque la riflessione su una alterità costitutiva e irriducibile all’identità, una forma di inconscio dell’ente che deve molto alla psicanalisi freudiana e lacaniana, un movimento che oppone una certa resistenza al movimento dialettico perché irrappresentabile. Attraverso il neografismo différance, Derrida ribadirà il concetto qui espresso, insistendo su tutto ciò che nella scrittura è inudibile, eppure essenziale, affinché i fonemi entrino in rapporto tra loro: nella celebre conferenza del 1968 egli ribadirà infatti con nitidezza che se non esiste scrittura totalmente

fonetica, è perché la stessa phoné non è esclusivamente fonetica461. Abbandonato a questo punto il

sentiero dei linguisti, una prospettiva più accattivante arriva dalle intuizioni del semiologo Peirce: non solo perché egli coglie ciò che de Saussure manca, ossia la complessità di un movimento che Derrida chiama «il divenire-segno del simbolo», ma soprattutto perché Peirce imposta le basi per una

fenomenologia che non ripiomba immediatamente nella metafisica della presenza462. La

460 Ivi, p. 73.

461 Cfr. J. Derrida, «La différance», in Id., Margini della filosofia, cit., p. 31: «Senza dubbio questo silenzio piramidale della differenza grafica tra la e e la a non può funzionare che all’interno del sistema della scrittura fonetica e all’interno di una lingua o di una grammatica storicamente legata alla scrittura fonetica come a tutta la cultura che sa essa è inseparabile. Ma direi perfino questo – questo silenzio che funziona solo all’interno di una scrittura cosiddetta fonetica – segnala o rammenta molto opportunamente che, contrariamente ad un enorme pregiudizio, non esiste scrittura fonetica. Non esiste scrittura puramente e rigorosamente fonetica. In linea di principio e di diritto, e non solamente per un’insufficienza empirica o tecnica, la scrittura cosiddetta fonetica non può funzionare che accogliendo in se stessa dei “segni” non fonetici (punteggiatura, spaziamento, ecc.) in rapporto ai quali ci si potrebbe rapidamente render conto, se se ne esaminasse la struttura e la necessità, che essi tollerano assai male il concetto di segno. Per meglio dire, il gioco della differenza di cui Saussure non ha avuto che da ricordare che esso è la condizione di possibilità e di funzionamento di ogni segno, questo gioco è, esso stesso, silenzioso. È inudibile la differenza tra due fonemi, che sola permette ad essi di essere e di operare come tali. L’inudibile apre all’intesa [entente] i due fonemi presenti, così come essi si presentano. Se dunque non esiste scrittura puramente fonetica, è perché non c’è una phoné puramente fonetica. La differenza che fa sorgere i fonemi e li dà ad intendere, in tutti i sensi di questa parola, resta in sé inudibile».

462 Sulle ambiguità del rapporto tra il pensiero della traccia e la fenomenologia di Husserl, cfr. J. Derrida, La

grammatologia, cit., p. 93: «Il Presente Vivente (lebendige Gegenwart) è la forma universale ed assoluta dell’esperienza

trascendentale cui Husserl ci rimanda. Nelle descrizioni del movimento di temporalizzazione, tutto ciò che non turba la semplicità e il dominio di questa forma ci sembra segnalare l’appartenenza della fenomenologia trascendentale alla metafisica. Ma ciò si deve comporre con forze di rottura. Nella temporalizzazione originaria e nel movimento del rapporto all’altro, come effettivamente li descrive Husserl, la non-presentazione o la de-presentazione è altrettanto «originaria» della presentazione. Per questo un pensiero della traccia non può rompere con una fenomenologia trascendentale».

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fenomenologia di Peirce, riconoscendo nella manifestazione un representamen, si rivolge al segno, sostituendo così alla semplicità della percezione della cosalità dell’ente un labirintico rimando infinito tra interpretanti e segni. La possibilità del sistema totale sarà allora possibilità di un movimento differenziale che renderà ragione dell’espressione grafica e di quella non grafica a partire non già da una identità, ma da una archi-scrittura. Tale archi-scrittura non poteva però essere individuata neanche da chi, come Hjelmslev, ha riconosciuto e denunciato il predominio non giustificato della sostanza fonica sulla sostanza grafica, perché apre una nuova prospettiva sul concetto di sistema: condizione di possibilità di ogni sistema linguistico, l’archi-scrittura non può far parte di un sistema linguistico, rivelandosi in ultima istanza la base di una teoria extralinguistica. Chiarendo che nella decostruzione non si tratta di prendere partito per un autore o per un altro o di rispondere sì o no a una teoria già pronta, Derrida si chiede cosa accomuna de Saussure e Hjelmslev, cercando così di individuare ciò che impedisce alla traccia di emergere lungo quel percorso, rivelando che, in entrambi i casi, la

comprensione della traccia pura manca perché la riflessione intorno alla differenza non è completa463.

Sarà dunque precisamente a partire dalla traccia come dif-ferenza che differisce che occorrerà ripensare i concetti della metafisica, in primo luogo la linearità supposta dello spazio-tempo. Si noti che tra tali concetti vi è anche, e soprattutto, quello di coscienza, che a sua volta cede il passo a questa dimensione costitutiva per la quale la metafisica non ha ancora trovato un nome adeguato. La spaziatura nella scrittura, ad esempio, sfugge alle analisi di «una fenomenologia della coscienza o

della presenza»464, così come vi sfuggirebbe una temporalità non compromessa con la mondanità. Se

463 Cfr. G, p. 94: «Non si tratta di una differenza costituita ma, prima di ogni determinazione di contenuto, del movimento puro che produce la differenza. La traccia (pura) è la dif-ferenza. Essa non dipende da alcuna pienezza sensibile, udibile o visibile, fonica o grafica. Al contrario ne è la condizione. Benché non esista, benché non sia mai un ente-presente fuori da ogni pienezza, la sua possibilità è di diritto anteriore a tutto ciò che si chiama segno (significato/significante, contenuto/espressione, ecc.), concetto od operazione, motrice o sensibile. Questa dif-ferenza dunque non è più sensibile che intelligibile, ed essa permette l’articolazione dei segni fra di loro all’interno di uno stesso ordine astratto – di un testo fonico o grafico per esempio – o fra due ordini di espressione. Essa permette l’articolazione della parola e della scrittura – nel senso corrente – così come fonda l’opposizione metafisica fra il sensibile e l’intelligibile, poi tra significante e significato, espressione e contenuto, ecc.».

464 Derrida descrive qui il modo di analisi del tempo nella fenomenologia di Husserl, impostando non a caso e ancora una volta, un confronto con Freud. Se nell’Introduzione all’«Origine della geometria» di Husserl veniva scritto chiaramente che l’analisi dell’inconscio aveva senso solo a patto di pensare l’inconscio come un caso limite della coscienza, sembra che ne La grammatologia ci siano invece i margini per oltrepassare il piano della coscienza in direzione della sua istanza costitutiva che, come è ormai stato chiarito, non può essere immanente alla prima. Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, cit., p. 99: «I concetti di presente, di passato e di avvenire, tutto ciò che l’evidenza classica suppone nei concetti di tempo e di storia – il concetto metafisico di tempo in generale – non può descrivere adeguatamente la struttura della traccia. E decostruire la semplicità della presenza non porta solamente a tener conto degli orizzonti della presenza potenziale, o anche di una “dialettica” della protensione e della ritenzione che si installerebbe nel cuore del presente invece di farglielo abbracciare. Dunque non si tratta di complicare la struttura del tempo pur conservandogli la sua omogeneità e la sua successività fondamentali, dimostrando per esempio che il presente passato e il presente futuro costituiscono originariamente, dividendola, la forma del presente vivente. Una tale complicazione, che è insomma quella stessa descritta da Husserl, si attiene, malgrado un’audace riduzione fenomenologica, all’evidenza, alla presenza di un modello lineare, oggettivo e mondano. L’adesso B sarebbe in quanto tale costituito dalla ritenzione dell’adesso A e [dal]la protensione dell’adesso C; malgrado tutto il gioco che ne seguirebbe, per il fatto che ciascuno di questi tre adesso riproduce in sé questa struttura, il modello della successione impedirebbe che, per esempio, un adesso X prenda il posto di un adesso A, e che, per un effetto di ritardo inammissibile per la coscienza, un’esperienza sia determinata, nel suo presente stesso, da

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ne ricava rapidamente l’idea, esplicitata appena qualche pagina dopo, che la metafisica della presenza sia precisamente il nome, dal lato dell’oggetto, di quel problema che, dalla parte del soggetto, è quello della coscienza: in altre parole, se attraverso l’analisi della scrittura è possibile avviare una decostruzione della metafisica della presenza, avremo correlativamente una decostruzione della

soggettività cosciente. E se Derrida scrive che «ogni grafema è per essenza testamentario»465 occorre

intendere e indagare il grafema come il luogo all’interno del quale la soggettività scopre nel rapporto con la morte il tratto costitutivo del proprio divenire. La traccia è allora la nozione fondamentale

attraverso la quale scardinare il binomio coscienza/presenza466: oltre Husserl e Heidegger, occorre

allearsi con Nietzsche e Freud per indagare la spaziatura, il gioco della presenza-assenza. Allo scopo di lasciarlo emergere, occorre che la linearizzazione storica della scrittura, già denunciata da